Le sanzioni Usa all’Iran e i conflitti del Medio Oriente

Prevedibilmente, nelle prossime ore verranno riprese con enfasi le roboanti affermazioni anti-israeliane nell’ormai rituale “Quds Day”, la giornata internazionale dedicata all’occupazione israeliana di Gerusalemme, pronunciate dal neo-presidente iraniano Rouhani, il cui successo elettorale è stato subito semplicisticamente etichettato come quello di un “moderato”.

Già avevamo avvertito che questa figura di religioso rappresenta piuttosto la continuità del regime iraniano dall’origine, passato attraverso la rivoluzione khomeinista, la terribile guerra con l’Iraq, il crescente conflitto sunniti-shiiti, il contenzioso con l’Occidente sull’acquisizione di una capacità nucleare dell’Iran: pensare che Rouhani avrebbe sconfessato decenni di politica estera iraniana era dunque quanto meno ingenuo, ma non sempre disinteressatamente ingenuo.

Il fatto che ben scarsa attenzione viene dedicata al fatto che il polemico e aggressivo discorso di Rouhani segue di poche ore l’approvazione, da parte del Congresso degli Stati Uniti, di un durissimo provvedimento legislativo, siglato 850 r.h., con il quale vengono accresciute le sanzioni nordamericane contro l’Iran, che viene di fatto tagliato fuori dal commercio petrolifero, da quello delle tecnologie moderne e dai mercati finanziari internazionali. Si tratta dunque di un atto che aggraverà le già serissime condizioni economiche del paese mediorientale, escludendolo dai circuiti economici essenziali di oggi, secondo una linea strategica di vera e propria guerra economica, come bene dimostra l’immediato plauso del primo ministro israeliano.

Bisognerebbe che il governo americano spiegasse la ragione per cui, a poche ore dall’insediamento del nuovo presidente iraniano, gli Usa abbiano deciso di assestare, con un provvedimento votato a larghissima maggioranza bi-partisan, un colpo decisivo a qualsiasi possibilità di risuscitare un dialogo politico-diplomatico con l’Iran, proprio quando la scomparsa di Ahmadinejad dalla presidenza della repubblica islamica aveva fatto pensare ad una possibile riapertura del dialogo.

Dobbiamo considerare del resto che, come più volte da noi suggerito, negli ultimi mesi il significato strategico delle tanto sbandierate “primavere arabe” si è chiaramente palesato: con la fine degli ultimi residui dei regimi del socialismo arabo, laico e terza-forzista, si è condotto a compimento il processo di balcanizzazione dell’intero Medio Oriente, dalla Tunisia al Pakistan, creando un gravissimo conflitto civile come quello della Siria, portando sull’orlo della guerra civile l’Egitto, polverizzando una delle maggiori economie petrolifere come la Libia. Questo dopo che l’Iraq è stato ridotto ad un non-Stato dilaniato da un conflitto etnico-religioso che, a colpi di auto-bombe, sta massacrando migliaia di civili inermi nel più totale disinteresse di quello stesso Occidente che qui ha portato la guerra in nome del democracy-building. L’Afghanistan è oggi una terra di nessuno che serve a circondare l’Iran, a sviluppare la più fiorente produzione di stupefacenti a livello mondiale, a mantenere attive quelle cellule di fanatismo islamista buone per ogni destabilizzazione: così, mentre periodicamente anche noi, chiamati a raccolta per estirpare il terrorismo islamista, lasciamo qualche Italiano su quel terreno, in ovattati uffici del Golfo Persico emissari della Cia americana trattano con chi uccide i nostri soldati.

Nel frattempo, lo Stato ebraico è già intervenuto cinque volte nel conflitto siriano, colpendo obiettivi militari e facendo numerose vittime civili, arrivando fino ad attaccare un deposito di armi russe – senza che tutto questo abbia minimamente preoccupato la comunità internazionale. Ciò che indica che l’ipotesi di Kissinger non è solo il delirio di un vecchio guerrafondaio, ma è uno scenario del tutto realistico.

Osservatori molto blasonati ci farebbero a questo punto notare che il presidente americano Obama ha però riaperto le trattative di pace fra Israele e i Palestinesi: ma anche qui è necessario chiedersi con quali prospettive, dato che Israele continua a costruire senza tregua insediamenti nei territori occupati, a colpire nella Striscia di Gaza come e quando vuole, che gli stessi Palestinesi sono ormai privi di sostegno internazionale e che, per finire, come mediatore di pace gli Usa hanno nominato lo scorso 29 luglio Martin Indyk, personaggio davvero significativo almeno per chi ha letto il nostro libro sul Medio Oriente:

“Martin Indyk, nato a Londra da famiglia ebraica, si trasferisce in Australia, dove studia relazioni internazionali e diventa consulente per il ministero degli esteri di quel Paese sulla politica mediorientale; successivamente è in Israele, quale consulente per la comunicazione internazionale del primo ministro israeliano Yitzhak Shamir. Da qui passa negli Stati Uniti, dove nel 1982 diventa deputy research director della già ricordata AIPAC. Nel 1985 fonda il Washington Institute for Near East Policy (WINEP) insieme a Barbi Weinberg, ex presidente della Jewish Federation in Los Angeles e moglie del presidente emerito dell’AIPAC, Lawrence Weinberg.

Il WINEP, schierato da sempre su posizioni nettamente filo-israeliane, è destinato a diventare da quel momento uno dei più autorevoli centri-studio sul Medio Oriente e certamente uno dei più influenti sulle amministrazioni americane. “Il suo primo grande successo – scrive un commentatore – fu la pubblicazione del rapporto Building for Peace: An American Strategy for the Middle East, nella imminenza delle elezioni presidenziali del 1988. (…) Sei membri del gruppo di studio che produssero il rapporto entrarono poi nell’amministrazione del presidente Bush senior, che adottò questa formula: nessun cambiamento fino a quando il cambiamento è inevitabile. In tal modo gli Usa accolsero il rifiuto di Israele di negoziare direttamente con l’Olp prima e durante la conferenza di Madrid, nonostante il riconoscimento di Israele in occasione della sessione del Consiglio Nazionale Palestinese del novembre 1988”.

(…) dopo aver acquisito nel 1993 la cittadinanza americana, Indyk viene nominato assistente speciale del presidente nella prima amministrazione Clinton, quale direttore del dipartimento Medio Oriente e Asia Meridionale del Consiglio di Sicurezza Nazionale (NSC) degli Stati Uniti. È in tale veste, ovverosia come principale consigliere del presidente americano sulle questioni arabo-israeliane, l’Iraq, l’Iran, che egli presenterà pubblicamente la sua strategia del “doppio contenimento”. E non si tratterà solo di teoria, in quanto Indyk si troverà ad operare attivamente alla realizzazione della sua stessa politica, dato che farà parte del gruppo di lavoro del Segretario di Stato Warren Cristopher durante le trattative di pace in Medio Oriente e sarà anche il rappresentante della Casa Bianca nella commissione mista USA-Israele sulla scienza e la tecnologia, per poi diventare ambasciatore americano in Israele dall’aprile 1995 al settembre del 1997 e di nuovo dal gennaio 2000 al luglio 2001, cioè a dire nelle fasi cruciali del processo di pace in Palestina. Dopo questo lungo cursus honorum pubblico, Indyk è passato al mondo accademico, continuando ad operare nel mondo delle istituzioni private che influenzano la politica americana, come direttore di un altro nuovo, importante think tank pro-israeliano, il Saban Center for Middle East Policy”(1).

Possiamo ben comprendere il ruolo di un simile “mediatore”, in questo speciale momento di grazia per lo Stato ebraico, che ha visto cadere uno ad uno i propri nemici nel corso degli ultimi venti anni e che si ritrova ora un proprio vecchio e fedele amico a trattare ufficialmente per conto del governo americano. Un personaggio-chiave, fra l’altro anche per avere appunto elaborato quella politica del “doppio contenimento” (dual containment) nei confronti di Iran e Iraq che, per chi non avesse letto il nostro libro, semplicemente mirava a porre in conflitto l’uno contro l’altro i due Paesi vicini, in pieno accordo con la linea di libanizzazione del Medio Oriente teorizzata da Israele fino dagli anni Ottanta del secolo scorso ed ora pienamente realizzata.

Forse è più chiaro a questo punto il perché di un provvedimento come quello dell’aggravamento delle sanzioni all’Iran: alla classe dirigente israelo-americana non interessa la pace, quanto proseguire senza esitazione nella nuova sistemazione del Medio Oriente, area strategica per il futuro del mondo, tanto più dinanzi al risveglio delle potenze asiatiche – una sistemazione nella quale l’egemonia di Israele è un dato considerato essenziale, anche se difficilmente porterà alla pace.

 

Note:

1) G. Colonna, Medio Oriente senza pace, Edilibri, Milano, 2009

Print Friendly, PDF & Email