La notte della Repubblica che non si fa mattino

Che la Repubblica Italiana si debba preoccupare del cartello che un bagnino nostalgico ha affisso sulla toilette o dei saluti romani di qualche curva sud calcistica, al punto di dover predisporre un “articolo 293-bis del codice penale, concernente il reato di propaganda del regime fascista e nazifascista”, non sembra proprio il segno di un sistema politico forte e autorevole, dopo settant’anni di potere.
Sembra storicamente comprensibile il fatto che la Repubblica nata dalla caduta del fascismo e dalla fine della monarchia abbia dovuto, negli anni Cinquanta, ricorrere alla legge 20 Giugno 1952, n. 645, nota come legge Scelba, che vieta la ricostituzione del partito fascista. Si trattava della logica conseguenza di una serie di impegni che l’Italia aveva assunto con gli Alleati al momento del suo cambio di fronte: per esempio, con l’art. 30 della Convenzione armistiziale del 3 settembre 1943, ripreso anche dalle clausole segrete del Patto di Armistizio del 29 settembre 1943, si imponeva all’Italia di “sciogliere l’insieme delle organizzazioni fasciste e di vietarne rigorosamente, per legge, ogni attività”; allo stesso modo, l’art. l’articolo 17 del Trattato di Pace fra l’Italia e le Potenze Alleate ed Associate, adottato a Parigi il 10 Febbraio 1947, affermava: “L’Italia, la quale, in conformità dell’articolo 30 della Convenzione di Armistizio, ha preso misure per sciogliere le organizzazioni fasciste in Italia, non permetterà, in territorio italiano, la rinascita di simili organizzazioni, siano esse politiche, militari o militarizzate (…)”. Non possiamo del resto dimenticare il fatto che addirittura l’allora Presidente del Consiglio italiano, Alcide De Gasperi, era stato il capogruppo dei parlamentari cattolici del PPI che il 17 novembre 1922 aveva espresso il suo voto a favore del primo governo Mussolini (le motivazioni di tale voto meritano una lettura ancor oggi), subito dopo la marcia su Roma, e come lui vi era ancora in Italia tutto un mondo politico, culturale ed economico, approdato all’anti-fascismo attraverso percorsi assai variegati e tortuosi (la lunga marcia attraverso il fascismo di cui ha scritto Zangrandi, per capirsi), che necessitava per ciò di questi atti normativi per riacquistare anche una piena verginità anti-fascista, come garanzia verso gli Alleati, ora che l’Italia era entrata a far parte della Nato.
Il fatto che analogo provvedimento non si adottasse, come ad esempio accaduto in Germania, contro i partiti di orientamento comunista, nonostante il sistema sovietico avesse prodotto oltre 66 milioni di morti tra il 1917 ed il 1959, ragion per cui il comunismo non poneva minori rischi né sul piano della violenza né su quello delle libertà politiche e individuali, non sorprende: il PCI italiano godeva di un seguito indubitabilmente assai vasto nel nostro Paese e, con il suo contributo alla resistenza, poteva definirsi senza possibilità di smentita una delle forze costitutive del sistema – come la storia successiva ha dimostrato, fino ai nostri giorni.
Del resto, la natura politica della legge Scelba, il fatto cioè che non vi fosse alcun reale pericolo di un ritorno al fascismo, è dimostrato dal fatto (che a taluni parve paradossale) che il MSI, partito che, sia pure ambiguamente, si richiamava all’esperienza politica del fascismo italiano, rimase sempre al riparo da un’applicazione a suo danno di quella normativa: et pour cause, dato che l’utilità di questo partito per il sistema era rilevante, e consisteva proprio nella sua funzione di assorbimento delle frange più estremiste, riconducendole in una ben presidiata area anti-comunista e filo-atlantica che contribuiva efficacemente alla stabilità complessiva del sistema – anche qui la storia successiva lo ha confermato. Del resto, a voler essere schietti, l’eliminazione fisica di almeno quarantamila repubblichini dopo il 25 aprile ha costituito la migliore possibile garanzia contro i “rigurgiti fascisti”, poiché per certo i quadri dirigenti del fascismo intransigente erano stati in tal modo provvidamente cancellati da ogni possibile futuro.
È pur vero che la legge Scelba troverà poi qualche tardiva applicazione più di vent’anni dopo, per lo più facendo seguito ad azioni della magistratura ordinaria, per esempio con lo scioglimento di organizzazioni come Ordine Nuovo (1973) e Avanguardia Nazionale (1976): ma anche qui le ricostruzioni più intellettualmente oneste della storia del cosiddetto “neo-fascismo” italiano dimostrano che tali provvedimenti sono sopraggiunti quando sul piano politico queste organizzazioni avevano semplicemente esaurito il loro compito strumentale in quella strategia del destabilizzare per stabilizzare che, come ha magistralmente dimostrato Vincenzo Vinciguerra, nulla aveva a che fare con un progetto di rilancio del fascismo in Italia.
Comprensibili, sia pure nel diverso clima subentrato in Europa dopo la fine del sistema sovietico, sono pure quegli sviluppi normativi che dalla cosiddetta legge Mancino (1993) arrivano fino al provvedimento legislativo del giugno 2016 col quale si è di fatto creata una nuova fattispecie giuridica relativa al cosiddetto “negazionismo”, provvedimento di cui ci siamo già occupati diffusamente su clarissa.it. Come mostrato in quella sede , in questo caso si è addirittura risaliti all’impianto giuridico del processo di Norimberga per presidiare un’interpretazione storica della Shoah le cui implicazioni di natura internazionale, a seguito di quanto sta accadendo da quattro decenni nel Medio Oriente, sono evidenti – ma che certo non corrispondono ad un pericolo immediato per le istituzioni repubblicane e per il sistema politico costruito dalla nostra Costituzione. È quindi chiara anche in questo caso l’esigenza di fornire una dimostrazione del pieno allineamento dell’Italia ad un orientamento più in generale “occidentale”, nel quale il ruolo dello Stato di Israele deve essere sostenuto e difeso anche con prese di posizione sul piano giuridico, soprattutto dacché il sionismo era stato definito addirittura dall’ONU come una forma di razzismo, con la discussissima risoluzione n. 3379 del 1975, poi revocata nel 1991, e quindi ripresa dalla Carta Araba dei Diritti Umani, quest’ultima entrata in vigore nel 2008: questione tuttora aperta, sulla quale quindi le prese di posizioni legali dei Paesi europei giocano un ruolo importante nei confronti dello Stato ebraico, oggi uno degli attori globali fondamentali nel quadro internazionale.
Ma, sia pure nel contesto che abbiamo delineato, che la Repubblica Italiana dimostri ancora di preoccuparsi della “propaganda del regime fascista e nazionalsocialista” ci sembra un sintomo di una nostra debolezza più seria e più profonda: sono passati settant’anni dalla instaurazione di questa Repubblica, fra qualche anno toccheremo i cento anni dalla nascita del movimento fascista – possibile che questa Repubblica non possa considerarsi tanto ben radicata nel Paese da non doversi più preoccupare di un passato fascista? O, per dire ancora meglio, non sarebbe il caso che invece di pre-occuparsene, la Repubblica cominci ad occuparsene, favorendo un’ampia, libera e spassionata discussione su questa nostra storia? Non è forse più utile, invece che impegnare polizie e magistratura nella strenua caccia ai saluti romani presenti in buon numero sul web, cogliere l’occasione dei prossimi centenari per cercare di ri-comprendere la storia del fascismo nella più ampia storia unitaria del nostro Paese?
Se si ha paura di far questo, se anzi ci si attrezza legislativamente per rendere rischiosa qualsiasi revisione della nostra storia patria, si dà prova di una paura che un sistema politico sicuro della propria forza non dovrebbe mai manifestare. Se infatti una Repubblica sa di poter contare sul consenso esteso e profondo dei suoi cittadini; se la sua classe dirigente sa di essere autorevole per la sua condotta complessiva e per manifeste capacità di dirigere il Paese; se è in grado di mostrare grandi risultati raggiunti e di additare nobili mete future da condividere – la Repubblica è ben salda: nulla avrà da temere dai suoi possibili nemici, interni o esterni. In questo caso, le sue origini, la sua storia, il suo presente, per quanto controversi e complessi, drammatici e tragici, travagliati e contraddittori, non potrebbero che essere valorizzati come un patrimonio collettivo, in grado di edificare, nella buona e nella cattiva sorte, l’identità comune di un popolo.
Se questo non avviene dopo settanta anni (come se la “notte della Repubblica” non si fosse mai fatta mattino) allora non possiamo far altro che dire che questa Repubblica è debole costituzionalmente, ma lo è proprio per le sue origini. Non si può far altro che dimostrarlo con tre semplici date. Perché il 25 luglio 1943 non fu il risultato di un moto popolare di riscossa anti-fascista, ma solo un’operazione di vertice di poteri forti, nel momento in cui il fascismo regime mostrava la sua debolezza a seguito dello sbarco alleato in Sicilia. Perché l’8 settembre del 1943 se fu, come qualche presidente continua ancora a ripetere meccanicamente, scelta corretta e fondante dell’attuale sistema, essa lo fu a prezzo della “morte della patria”, nella fuga di una classe dirigente che lasciò oltre un milione di cittadini soldati in balia del nemico, fossero i Tedeschi o gli Alleati questo nemico. Perché di conseguenza nemmeno il 25 aprile 1945 può essere considerato liberazione del nostro popolo, perché da allora entrammo nella sovranità limitata che studiosi anti-fascisti hanno ben documentato: e vi entrammo non come un popolo unito, ma come una nazione divisa da una sanguinosa guerra civile. Queste le debolezze costitutive della Repubblica: chi vorrà, potrà e saprà sanarle?
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