Sulle vittime della pandemia si esige una risposta dai responsabili politici

Pubblichiamo il testo integrale dell’interrogazione rivolta al Ministro della Salute lo scorso 19 ottobre 2021. Si tratta di un documento che non necessita di particolari commenti.

Lo segnaliamo, perché da questo momento non rimane che attendere la risposta dei responsabili politici. Stiamo parlando della vita di centinaia (o forse migliaia) di persone che potevano e dovevano essere salvate.

Invece di ingiungere a giornalisti e studiosi il silenzio, di impedire manifestazioni di dissenso di liberi cittadini, di introdurre crescenti obblighi ai lavoratori,  i responsabili politici dovrebbero cominciare a fornire loro spiegazioni su quanto accaduto, perché un giorno, che ci auguriamo vicino, potrebbero doverne rispondere di fronte al popolo italiano.

Il popolo infatti può subire, anche molto a lungo, ma non dimenticare.

 

Senato della Repubblica – Atto n. 3-02869

Pubblicato il 19 ottobre 2021, nella seduta n. 368

GRANATO , CRUCIOLI , ANGRISANI , PARAGONE , LANNUTTI , GIANNUZZI – Al Ministro della Salute.

Premesso che:

alcune inchieste giornalistiche di Angela Camuso per la trasmissione “Fuori dal coro”, su “Rete 4”, andate in onda a partire dal 19 gennaio 2021, hanno evidenziato come, a partire dal mese di aprile 2020 (dunque, poco tempo dopo l’inizio della pandemia da Sars-CoV-2) il Ministero della Salute sia stato adeguatamente informato sull’esistenza di evidenze cliniche che dimostravano come ottenere, attraverso un uso combinato di farmaci del prontuario, una pronta guarigione dall’infezione (tra i medici italiani, vi sono: il professor Luigi Cavanna, il professo Alessandro Capucci, la primaria dell’ospedale di Pisa professoressa Roberta Ricciardi, il farmacologo Piero Sestili, il primario infettivologo Pierluigi Garavelli, la primaria Paola Varese, il cardiologo Paolo Salvucci, l’anestesista Matteo Ciuffrida, lo pneumologo Roberto Rossi, oltre a numerosissimi altri medici internisti e medici di base);

il protocollo ministeriale emanato in data successiva a questi appelli (novembre 2020) indicava ancora ai medici di base di non somministrare alcun farmaco ai malati di COVID-19, anche se sintomatici, nell’arco delle prime 72 ore dall’insorgenza dei sintomi, tranne il paracetamolo, e anche il successivo protocollo (attualmente in vigore, ed emanato ad aprile 2021) associava al paracetamolo soltanto i “fans” (antinfiammatori comuni) nelle prime 72 ore dai sintomi;

il mix di farmaci somministrati precocemente, invece, agiva sulla sintomatologia e, dunque, preveniva o depotenziava i possibili effetti letali del virus, in linea con quanto fatto da sempre, fino al mese di febbraio 2020, dai medici di base in caso di influenza ed in linea con i principi cardine dell’infettivologia;

valutato che:

il Ministero e le altre autorità sanitarie pubbliche non potevano, dunque, non essere a conoscenza dell’esistenza e dell’efficacia di tali approcci terapeutici, facilmente applicabili ed in grado di ridurre velocemente e drasticamente la letalità del virus che, in Italia, ha fatto registrare nella “seconda ondata” (autunno 2020) uno dei tassi di letalità più alti del mondo (3,5 su 100 soggetti malati di COVID-19);

fin dalla primavera 2020, difatti, erano stati inviati a Ministero, AIFA e CTS diversi appelli e segnalazioni da parte di diversi gruppi di medici che, iniziando a curare precocemente i malati di COVID-19, andavano scambiandosi man mano esperienze cliniche e si costituivano in associazioni. Ognuno di questi gruppi, autonomamente, era arrivato alle medesime conclusioni rispetto all’approccio terapeutico corretto in grado di contrastare l’infezione, basato sulla consapevolezza dell’assoluta necessità di un intervento farmacologico tempestivo e di un monitoraggio costante delle condizioni del paziente, sia attraverso visite a domicilio sia attraverso la telemedicina, onde contrastare un aggravamento irreversibile delle condizioni di salute;

nonostante l’autorevolezza delle fonti da cui provenivano tali indicazioni, non si è ritenuta neppure opportuna un’azione di verifica di quanto stava emergendo a livello clinico. Oggi, i risultati di guarigione di tale approccio di cura precoce sono straordinari: i malati di COVID-19, se trattati precocemente, anche in fasce ad alto rischio e con sintomatologia rilevante, guariscono in una percentuale superiore al 99 per cento: ciò nonostante le autorità sanitarie non abbiano preso in considerazione lo straordinario bacino di informazioni che arrivavano dalla “evidence based medicine“, cioè la medicina fondata sulle prove di efficacia, riconosciuta da tutta la comunità scientifica come fondamentale;

peraltro, gli stessi rapporti dell’Istituto superiore di sanità indicavano nella prima ondata una media di attesa per i malati, poi morti, di 7 giorni (persino 10) dall’insorgenza dei sintomi al ricovero, e una media di 5 giorni durante la seconda ondata: questo è stato il periodo nell’arco del quale la maggior parte di questi malati, in seguito deceduti, era stata lasciata in isolamento, senza visita domiciliare da parte dei medici e senza alcuna terapia, tranne il paracetamolo per la febbre; i primi studi scientifici pubblicati invece, tra cui uno dell’istituto Mario Negri, indicavano intanto una letalità del COVID-19 sui malati trattati precocemente dell’1 per cento contro un’attesa letalità del 3,5 per cento secondo la media registrata dall’ISS. Nonostante tutte queste evidenze, le autorità sanitarie hanno persistito nello sconsigliare ai medici di base l’utilizzo di farmaci in fase precoce per il trattamento dell’infezione;

valutato, inoltre, che:

la motivazione addotta nelle stesse linee guida del Ministero, dove venivano sconsigliati determinati farmaci, veniva ricondotta all’assenza di studi scientifici in grado di comprovarne l’efficacia per il COVID-19, ma si fa notare che questi studi scientifici di verifica verso ciò che stava emergendo a livello clinico non sono mai stati promossi dalle stesse autorità che li invocavano, le quali non hanno avviato mai né sperimentazioni né trial clinici sul trattamento precoce che si stava rivelando efficace sul campo. Certamente, in un periodo d’emergenza come è stato quello della seconda ondata, i trial clinici non potevano essere messi a punto dai medici di base che erano impegnati sul campo a salvare la vita ai pazienti;

secondo quanto registrato da uno dei più grandi gruppi di medici esperti in terapie domiciliari, “ippocrateorg”, su circa 67.000 persone curate (dei quali il 30 per cento appartenenti a fasce ad alto rischio di ospedalizzazione e malattia grave) sono stati registrati solo 6 decessi; questi ultimi hanno riguardato esclusivamente i pazienti arrivati a chiedere assistenza oltre le 72 ore dall’insorgenza dei sintomi e, dunque, già in una fase più avanzata dell’infezione senza aver subito alcun trattamento; considerato che anche i risultati clinici ottenuti dai medici di altre associazioni, come il comitato “Terapie domiciliari” promosso dall’avvocato Erich Grimaldi registrava un tasso di guarigione prossimo al 100 per cento sul totale dei malati (sintomatici), tra cui un terzo circa appartenenti a categorie a rischio (anziani e pluripatologici);

considerato che la somministrazione di tali farmaci per la cura del COVID-19 sotto appropriato controllo medico non ha mai causato effetti collaterali gravi, essendo questi farmaci di uso comune, già noti e diffusi in tutto il mondo per la cura domiciliare di comuni patologie; in sintesi, si rileva come con l’intervento farmacologico precoce combinato circa il 75 per cento dei decessi finora registrati per COVID-19 si sarebbe potuto evitare e si sarebbe potuto evitare l’80 per cento delle ospedalizzazioni,

si chiede di sapere:

per quali ragioni il Ministro in indirizzo non abbia preso in considerazione, in primo luogo nella seconda ondata pandemica (da ottobre 2020), le evidenze cliniche inviate all’attenzione del dicastero da parte di numerosi medici a partire dall’inizio della pandemia che, sulla base di un utilizzo combinato di farmaci del prontuario appositamente selezionati in relazione al singolo caso sottoposto al proprio esame, stavano dimostrando come la precocità della cura, sin dai primissimi stadi dell’infezione, fosse un elemento indispensabile ed imprescindibile ai fini della guarigione completa del paziente (ed in netta controtendenza rispetto alle indicazioni di vigile attesa per 72 ore e somministrazione del solo paracetamolo previsti dalle circolari ministeriali di novembre 2020 e aprile 2021);

per quali ragioni non abbia ritenuto né urgente né opportuno procedere alla pronta verifica di queste evidenze cliniche, promuovendo ricerche in tale direzione, le quali avrebbero potuto permettere una cura più rapida dell’infezione da Sars-CoV-2 e, conseguentemente, un decorso migliore;

perché non abbia ritenuto conveniente convocare, appena informato, i medici che stavano curando precocemente l’infezione con i farmaci del prontuario, di fatto disattendendo le indicazioni di cui ai protocolli ministeriali vigenti, onde appurare l’efficacia di un simile approccio terapeutico, basato su cure farmacologiche low cost e sul pronto intervento attivo;

perché abbia disatteso l’impegno a rendere i medici esperti di cure domiciliari del COVID-19, e impegnati sul campo, partecipi di un tavolo tecnico finalizzato alla revisione dei protocolli ministeriali come indicato nella mozione approvata dal Senato l’8 aprile 2021 (1-0160, testo 2) che impegnava il Governo in tal senso, posto che tra i firmatari del protocollo emanato in data successiva alla mozione non c’è neanche uno dei suddetti medici.

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