Cop26: una Conferenza alla ricerca di una concretezza che non c’è

Mentre gli ambientalisti manifestano a Glasgow, travestiti da personaggi di “Squid Game”, con loro è l’intera Conferenza sul clima che rischia di deragliare sul piano dell’immagine e della comunicazione, lasciando fuori dalla porta la concretezza delle soluzioni.

Cerchiamo, quindi, di mettere in fila alcune delle questioni aperte per constatare, purtroppo, che la confusione prevale sulle scelte.

Prendiamo, per esempio, il tema della deforestazione affrontato nel secondo giorno della COP26 di Glasgow.

Il padrone di casa, Boris Johnson, forse timoroso che nel mondo si cominciasse a diffondere l’immagine di una COP26 inconcludente, ha giocato subito nei primi giorni della Conferenza il suo jolly: “Stop alla deforestazione”. Le foreste sono state descritte da Boris Johnson come «grandi ecosistemi pieni di vita, vere cattedrali della natura, i polmoni del nostro pianeta», come d’altronde già tutti sappiamo.

Gli Stati firmatari si sono impegnati a porre fine alla deforestazione e a invertire la tendenza del fenomeno entro il 2030. Sono stati previsti stanziamenti pubblici e privati per oltre 19 miliardi di dollari. Anche 30 multinazionali finanziarie e assicurative si sono comunque impegnate a sospendere ogni investimento che aggravi la deforestazione.

Se, però, entriamo nel merito delle cause della deforestazione, abbiamo due casi esemplari da esaminare.

Il Sudest asiatico, dove sono andati distrutti circa 610mila kmq di foreste, per fare spazio alle coltivazioni intensive di olio di palma, di cui c’è una sempre crescente richiesta da parte del mercato e del quale l’Indonesia e la Malesia sono i primi produttori mondiali.

Nonostante il presidente indonesiano Joko Widodo abbia firmato l’accordo per porre fine alla deforestazione entro il 2030, l’Indonesia ha criticato i termini dello stesso e mettendo “le mani avanti” sul fatto che il Paese potrebbe non rispettarlo. Il ministro dell’ambiente Siti Nurbaya Bakar ha detto che le autorità non possono «promettere ciò che non possiamo fare».

Se si vuole colpire la deforestazione in Indonesia, infatti, bisogna agire sulle cause: sulla richiesta da parte dell’Occidente di un’enorme quantità di olio di palma, che non finisce solo nelle merendine, ma anche nei carburanti.

C’è poi il caso della foresta amazzonica, il polmone del Pianeta. Il presidente brasiliano Jaire Bolsonaro ha firmato l’accordo, ma aldilà della dubbia buonafede delle sue intenzioni, quanta reale autorità ha, lui come d’altronde il suo predecessore Michel Temer, sulle multinazionali della carne che si approvvigionano di soia coltivata grazie alla deforestazione amazzonica? La voracità degli allevamenti intesivi di bestiame è senza limite e il terreno da coltivare per produrre mangime, a base di soia OMG naturalmente, non basta mai. Fintanto che la cultura e gli interessi economici degli hamburger prevarrà sulle istanze ambientaliste, le pressioni economiche renderanno inefficace ogni trattato e ogni buona intenzione.

P.S.: Un promemoria per Johnson e Draghi, visto che erano presenti, è che Gran Bretagna (prima) e Italia (seconda) sono i due principali importatori europei di carne brasiliana!

Un’occasione mancata nell’accordo sulla deforestazione è stata quella di mettere al centro della tutela delle foreste i diritti delle popolazioni che ci vivono. Un recente rapporto delle Nazioni Unite ha, infatti, rivelato che i tassi di deforestazione sono fino al 50% più bassi nei territori controllati da popolazioni indigene, ed ha dichiarato che uno dei modi migliori per affrontare il problema è riconoscere i loro diritti.

Popoli senza terra e terre senza popoli sono la combinazione ideale per chi vuole sfruttare le risorse ambientali per il proprio profitto, incurante della sopravvivenza del pianeta.

Popoli senza diritti che, come in “Squid Game”, partono già perdenti nel gioco della sopravvivenza.

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