Caso Ilva: una sfida da raccogliere

È possibile che nelle prossime settimane, poco a poco, l’attenzione sulla questione dell’ILVA di Taranto si vada spegnendo, insieme agli altiforni dell’impianto.
Tra le tante situazioni che dimostrano la crisi sistemica dell’Italia, questa è senza dubbio quella che più chiaramente indica che la gestione dell’economia nel nostro Paese sconta la presenza di un sistema politico che non è più in grado di affrontare le sfide poste dall’attuale momento storico. Intendiamo dire che la nostra attuale classe dirigente ha raggiunto i limiti delle proprie capacità e che lo sta dimostrando in modo evidentissimo proprio in questa emergenza.

Un sistema arrivato al capolinea

Il sistema industriale di settori strategici come quello della metallurgia, sviluppatisi negli anni Trenta come elemento di modernizzazione, affidato ad una gestione pubblica clientelare, ha rapidamente perso  competitività; poi, una privatizzazione selvaggia imposta dai centri del potere mondializzato, accolta di buon grado dai politici per liberarsi dal “peso” costituito dalle aziende devastate dal controllo pubblico; infine, la recente cessione di fatto dell’azienda ad uno dei più potenti gruppi economici, il secondo a livello mondiale, nel campo dell’acciaio – il cui vero scopo non è mai stato quello di rilanciare un impianto industriale, ma semplicemente di neutralizzarlo, evitando che potenziali concorrenti lo rimettessero in piedi. Sono queste le fasi che hanno stanno determinando il tracollo del nostro sistema industriale.

Sullo sfondo, un sindacato, paralizzato dalla mancanza di idee e arroccato sulla difesa di sempre più sorpassati privilegi, che difende ispirandosi ai canoni di un operaismo che non ha più senso oggi: vuoi per l’odierna fase post-industriale, maturata con l’enorme crescita del settore dei servizi; vuoi per la progressiva de-industrializzazione del Paese, cui ha largamente contribuito quel processo di delocalizzazione produttiva che i sindacati miopemente non hanno mai né voluto né saputo fronteggiare, vedasi il caso Fiat.

Effetti della globalizzazione

Ha poi inciso in maniera determinante sul settore acciaio il drammatico conflitto, che si va acuendo a livello globale, tra le esigenze del sempre più spietato modello produttivista, che crea enormi concentrazioni produttive, pensando con questo gigantismo industriale di ridurre gli effetti della crisi mondiale, da una parte; dall’altra, la devastazione dell’ambiente, che quello stesso modello produttivo ha imposto da decenni, determinando un livello di pressione che oggi mette a rischio la sopravvivenza stessa degli esseri umani, come dimostra la spaventosa situazione sanitaria di Taranto.

Tutto ciò è sotto gli occhi di tutti, e lo si ripete qui solo a scopo di pro memoria.

L’esigenza di cambiamenti radicali

Quello che la nostra classe dirigente (politica, economica, intellettuale) sta invece dimostrando è la totale incapacità di elaborare nuove idee, inventare soluzioni, definire strategie: il patologico intreccio fra interessi elettorali ed economici, la conservazione a tutti i costi del potere detenuto dagli stessi uomini ed ambienti da oltre settant’anni, il supino asservimento ai poteri internazionali – rendono impensabile che un vero cambiamento possa venirci da questa gente.

Ma è ben chiaro che, senza radicali cambiamenti, l’Italia è destinata a diventare feudo marginale dei grandi poteri mondiali, in primis quelli economico-finanziari, i quali cercano con estrema lucidità, in una partita senza esclusione di colpi, di conquistare posizioni strategiche prima che sia troppo tardi: tanto meglio se esse sono debolmente o per nulla difese.

Il governo illude il nostro popolo aggrappandosi da ultimo alle solite iniziative legali che, in un sistema giudiziario paralitico come quello italiano, non potranno produrre alcun risultato concreto, né per i lavoratori, né per l’ambiente di Taranto, né per difendere un settore industriale strategico come quello dell’acciaio: la lentezza di questi meccanismi rendono risibile ogni speranza di “giustizia”. Non sono dunque i giudici che possono risolvere questo problema, anche ammettendo che davvero vogliano farlo.

I mezzi di produzione tornino al lavoro italiano

La sola via che dovrebbe essere praticata, come accaduto anche in altri Paesi sottoposti a crisi di natura internazionale (si veda l’Argentina di fine XX secolo) deve partire da un concetto base: i capitali che hanno reso possibile costituire i mezzi di produzione di questo polo industriale sono tutti frutto del lavoro italiano e dunque oggi, dinnanzi all’incapacità di imprenditori e politici, ad esso devono tornare.

Devono essere dunque i lavoratori ad organizzarsi per assumere, mediante propri organismi associativi autonomi, il controllo dell’azienda, coordinandosi con i lavoratori delle numerose aziende dell’indotto, che sono tra le prime, in questo momento, ad essere minacciate di chiusura, con conseguente disoccupazione generalizzata.

Associandosi, i lavoratori della Nuova Ilva devono chiedere ai lavoratori delle aziende del settore metalmeccanico italiano, consumatrici di acciaio, di acquistare i prodotti Ilva, attivando contratti di produzione in tal senso, in modo da garantire un sufficiente mercato in grado di assorbire almeno in parte la produzione. Sappiamo tutti che la meccanica italiana ha bisogno di questo tipo di materiali, ed è dunque ovvio chiamare a raccolta tutto un settore in difesa della nostra produzione.

I lavoratori dovranno poi individuare, attraverso sistemi aperti di valutazione, un management adeguato, per dirigere e riorganizzare a fondo questi impianti, definire modalità di recupero ambientale, riconvertire e diversificare le linee di produzione, ridurre prima ed eliminare poi il loro devastante impatto ambientale.

Con questa rete di aziende ed un management qualificato, a quel punto, si potranno lanciare, se necessario, iniziative di raccolta di capitali, simili a quelle con cui il prestito pubblico ha finanziato le grandi emergenze nazionali, in modo da sostenere per un determinato numero di anni il rilancio ed il risanamento di questo polo industriale.

Questa iniziativa non potrebbe che godere del consenso e del supporto non solo dei cittadini di Taranto, ma di tutto il Paese, se le associazioni fra lavoratori sapranno darsi obiettivi chiari e metodi di lavoro ben strutturati.

Questo approccio innovativo potrà rappresentare, inoltre, un modello operativo per avviare la soluzione delle oltre 150 situazioni di crisi che attualmente giacciono sui tavoli della politica governativa.

Non servono nuove leggi

Sottolineiamo che gli strumenti giuridici necessari sono tutti già presenti, se bene utilizzati (si pensi alle normative sui distretti produttivi e le reti di imprese, alla finanza agevolata di impresa, ai programmi europei di finanziamento per la conversione a sistemi eco-sostenibili, ecc., ecc.): non occorrono nuove leggi, non occorre il supporto dei partiti, non servono poteri forti.

Se i nostri lavoratori si renderanno conto che questa via è la più realistica, essi potrebbero anche mettere alla prova le loro attuali organizzazioni sindacali, per capire se esse sono ancora capaci di svolgere la funzione, per cui sono nate da durissime lotte più di un secolo fa, oppure se anche esse non siano altro che carrozzoni politici tenuti su dai contributi dei lavoratori e dei cittadini, senza alcuna utilità per la difesa del lavoro italiano.

Come verrà affrontata la sfida dell’ILVA è sicuramente la cartina di tornasole per capire se abbiamo ancora la possibilità di risorgere come uno dei Paesi di riferimento nel contesto economico mondiale: questa sfida deve essere raccolta.

Print Friendly, PDF & Email