Allarme ambientale: i vecchi e i giovani

Quello che leggerete difficilmente incontrerà il plauso di quanti concordano con la linea dettata dai mass-media di più larga diffusione, ma non possiamo fare a meno di esprimere un punto di vista diverso, se pure sgradito ai più.

Protagonisti o strumenti?

Stiamo assistendo in queste ultime settimane ad una nuova mobilitazione mondiale dei giovani intorno alla questione ambientale, come se quest’ultima fosse improvvisamente apparsa all’orizzonte solo nel 2019.

Si tratta di tematiche ben note al mondo industrializzato, almeno dal Rapporto del Club di Roma del lontano 1972, intitolato I limiti dello sviluppo, un testo commissionato da uno dei maggiori think tank tecnico-scientifici occidentali, il Massachussets Institute of Technology (MIT), ispirato da Aurelio Peccei, ed elaborato in incontri presso la gloriosa Accademia dei Lincei in Roma.

Da allora, quindi in quasi mezzo secolo, si sono susseguite ripetute ondate di movimenti ecologisti e infinite serie di rapporti sui rischi cui il sistema-mondo stava andando incontro: per non parlare delle svariate sedi istituzionali internazionali in cui il problema è stato dibattuto, che hanno prodotto una immane documentazione, a sua volta basata su decine di migliaia di studi prodotti da centinaia di università e migliaia di studiosi.

Non si può quindi dire che ci sia niente di nuovo all’orizzonte, a parte la mole di dati che confermano le preoccupazioni maturate in questi ultimi decenni.

Di nuovo c’è quindi solo la sorpresa che la questione ambientale sembri una parola nuova capace di mobilitare le giovani generazioni dei Paesi industrializzati. Esse, dopo la fiammata del ’68 e la stagione degli anni di piombo, paiono sprofondate in un individualismo che bene si accompagna, da un lato, al consumismo (diffusosi anch’esso tra gli anni Cinquanta del secolo scorso e divenuto compulsivo oggi), dall’altro ad una disperata solitudine – dalla quale escono talvolta con modalità destinate a occupare le pagine più angoscianti della cronaca nera.

Non vorremmo perciò che questa mobilitazione, di cui tutti (giovani e meno giovani) si compiacciono oggi, diventasse un’altra delle non poche strumentalizzazioni cui siamo tutti esposti nelle società massificate. Non è chiaro quindi a cosa servano i soliti rituali cortei, quando poi si continuano ad acquistare a tutta randa gli ultimi modelli di telefonino (che richiedono materiali rari strappati alla terra magari in Africa, previo estremo sfruttamento di lavoratori, minori compresi…) o le ultime griffe della moda, pagate con ricarichi altissimi anche se vengono prodotti in Vietnam o in Bagladesh (da lavoratori privi di qualsiasi tutela sociale…).

Un sistema malato

Il fatto è che nessuno ha oggi il coraggio di dire forte e chiaro quello che è evidente: vale a dire che è l’attuale sistema economico-produttivo il problema di fondo; e, ancor più, le abitudini mentali, la cultura che, giovani e non, hanno oramai assimilato da decenni come modello di riferimento in tutto il mondo.

Una cultura che si basa sul comfort, sul consumo e sullo spreco – i quali vengono promossi e favoriti perché l’attuale mondo economico non conosce altro modello organizzativo e sociale di quello produttivista che colloca come parametro fondamentale economico quelli appunto della crescita. Tanto è vero che oggi il barometro per misurare la situazione economica dei nostri Paesi è la percentuale annua di aumento (o diminuzione) del Prodotto Interno Lordo (PIL).

Ne I Limiti dello Sviluppo, concepito pur sempre nella logica del sistema del capitalismo occidentale, si constatava che nell’arco di cento anni il modello di sviluppo basato sulla crescita indefinita avrebbe prodotto il crollo della produzione industriale e lo spopolamento del pianeta: si invocava lì uno stato di equilibrio globale, grazie al quale «i bisogni materiali di ogni individuo sulla terra fossero soddisfatti ed ogni persona disponesse di pari opportunità per realizzare il proprio potenziale umano individuale».

Partendo da basi assai più ampie e critiche nei confronti dell’assetto economico sociale contemporaneo, Rudolf Steiner scriveva già negli anni Venti del Novecento che produrre oltre il necessario era un cancro annidato nell’organismo sociale dei Paesi abbienti; e così, Aleksandr Solgenitsin, fino alle sue ultime interviste dei primi anni di questo millennio, ripeteva che quel che davvero serviva era un cultura dell’auto-limitazione, in una parola della riduzione volontaria dei propri bisogni, per contenere i consumi e limitare la distruzione delle risorse mondiali.

Se davvero qualcuno volesse incamminarsi sull’ardua via di mettere in discussione il modello produttivista, la prima cosa che si troverebbe a dover affrontare sarebbe, almeno nei Paesi che lo scrittore russo chiamava del Miliardo d’Oro (Europa, Nordamerica e Giappone), l’ostilità della maggior parte di giovani e giovanissimi, non solo dei vecchi, tutti quanti poco propensi a cambiare i loro comodi modi di vivere – da una parte; dall’altra l’ostilità dei master of the universe economico-finanziari, che subito pronosticherebbero, con la fine dello sviluppo, povertà e rovina per tutti.

Scelte coraggiose

Ci possiamo solo augurare a questo punto che, piuttosto che sfilare bovinamente per le piazze del mondo, invece che sfoggiare la pretenziosa retorica di chi crede di avere scoperto la verità, giovani e vecchi comincino a interrogarsi sulla questione di fondo: siamo decisi a cambiare questo modello di vita centrato sulla crescita produttiva? ad abbandonare il way of life diffuso dall’Occidente atlantico, in settanta lunghi anni di bombardamento consumistico, fino alle estreme propaggini del mondo? siamo pronti a prendere in seria considerazione modelli di esistenza oggi demodé, basati sulla sobrietà e sull’austerità, delle quali si era un tempo orgogliosi in quanto segno di indipendenza e libertà?

Non starebbe per caso in questo anche il migliore antidoto contro la corruzione di politici, uomini d’affari e perfino esponenti del jet set sportivo – i quali sembra siano stati spinti a rubare non dalla povertà ma, al contrario, proprio dal loro eccesso di ricchezza?

Potremmo trovare qui forse anche la via per superare le enormi sperequazioni nella remunerazione del lavoro umano: basti pensare che la crescita totale delle retribuzioni degli amministratori delegati è aumentata, tra il 1978 e il 2018, del 1.007,5%, mentre i salari medi dei lavoratori dipendenti, nello stesso arco di tempo, sono saliti appena dell’11,9%. Per cui, a livello mondiale, i grandi manager (CEO) oggi guadagnano in media 278 volte quanto percepisce in media un lavoratore collocato in fondo alla piramide.

Scelte coraggiose, che i vecchi non hanno saputo né concepire né applicare, toccano oggi a tutti noi: scioperare serve a poco, occorre semmai lavorare alacremente, dai banchi di scuola fino alle fabbriche, studiando, confrontandosi, sperimentando.

La nostra Terra aspetta chiarezza di pensiero e ferrea determinazione: di cortei ne ha già visti passare fin troppi.

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