Ottant’anni dopo il 25 luglio 1943

Poiché ancora l’antifascismo rappresenta nel nostro Paese un fattore politico e culturale rilevante, a prescindere dalla sua più o meno appropriata utilizzazione da parte di intellettuali, media e esponenti dei partiti, può essere utile rileggere dopo Ottanta anni la fine del “fascismo regime”, per usare l’espressione canonica del De Felice.

La caduta del regime fascista italiano, avvenuta in uno dei più importanti momenti di svolta del secondo conflitto mondiale, contiene infatti, a rileggerne la storia, alcuni elementi di sintomatica attualità: non si tratta quindi solo di fare un mero esercizio di memoria, quanto vedere cosa oggi ancora questo evento ci dice sull’identità dell’Italia.

Non vi è infatti dubbio alcuno che si è trattato del vero e proprio “suicidio politico” del fascismo: quando, nella notte fra il sabato 24 e le prime ore di domenica 25 luglio 1943, nella seduta del Gran Consiglio, diciannove dei ventotto membri dell’organo costituzionale politico italiano in quel momento, votando l’ordine del giorno proposto da Dino Grandi, provocarono la crisi del regime, esautorando Benito Mussolini quale Capo del Governo italiano e ricorrendo all’autorità del sabaudo Vittorio Emanuele III.

Le modalità con cui si svolse questo atto decisivo dimostrano la natura assai composita del regime fascista: al quale diventa quindi assai difficile assegnare semplicisticamente l’aggettivo di totalitario, nonostante esso fosse stato coniato dal fascismo stesso, ad indicare l’unità delle forze del sistema. In realtà, il “difficile equilibrio”, come ebbe a definirlo proprio in quei giorni lo stesso Mussolini, fra le innovazioni introdotte dal fascismo e la permanente ossatura dello Stato liberal-democratico sabaudo, mostrò, proprio nel decisivo momento della crisi militare, tutta la sua fragilità.

Fu l’invasione alleata della Sicilia a mettere a nudo la precarietà dell’assetto politico del fascismo italiano, provocandone il crollo: si rivela così, in modo ancora oggi sorprendente, come ben pochi degli stessi massimi dirigenti fascisti avessero percepito la decisiva importanza dell’evento che si stava producendo nella guerra in corso, per la futura sopravvivenza dell’Italia come potenza europea e mediterranea, dotata di una propria piena sovranità. È interessante da questo punto di vista ripercorrere il dibattito che si svolse quella notte: è davvero singolare notare infatti che, alla domanda decisiva posta da Mussolini al Gran Consiglio, cioè che la decisione di fondo era se proseguire la guerra o cercare la pace, in verità nessuno dei diciannove firmatari dell’ordine del giorno Grandi, con cui si trasferiva la direzione politico-militare del Paese al re, rispose in maniera netta.

Questo impressionante deficit di lucidità politica è ciò che in definitiva rese possibile l’azione di un ristretto gruppo di vertice della vecchia classe liberale (non a caso furono essi stessi per primi a definirsi dei revenant): ritorno al potere che avvenne con modalità che, in violazione della stessa costituzione del Regno d’Italia, attraverso l’arresto di Mussolini nel pomeriggio della domenica 25 luglio, assunsero l’aspetto di un vero e proprio colpo di stato militare.

Giustamente ha quindi scritto la storica Elena Aga Rossi, «l’opposizione antifascista non ebbe alcun ruolo nel rovesciamento di Mussolini»1. Troppo spesso l’antifascismo italiano si è dimenticato, o ha fatto finta di dimenticarsene per mera comodità, di questa fondamentale caratteristica: furono ambienti elitari sabaudi (Pietro D’Acquarone), militari (Giuseppe Castellano, Vittorio Ambrosio, Pietro Badoglio) e delle forze dell’ordine (Carmine Senise) a ordire e gestire questa vera e propria congiura di palazzo, con la quale ci si liberò di un regime che non serviva più alla conservazione della dinastia e dell’ordine ed alla difesa degli interessi economici dei ceti dominanti. Una carenza di fondo dunque, anche dell’antifascismo italiano, prima schiacciato dal consenso che negli anni Trenta il regime era riuscito a consolidare; ora, nel luglio del ‘43, incapace di organizzarsi, nonostante l’andamento sempre più negativo della guerra, finché non glielo avesse consentito Badoglio.

Potremmo oggi aggiungere, e lo aggiungiamo, che in sostanza si trattò di un intervento di quelli che oggi è moda definire i poteri forti: monarchia, vaticano, massonerie, che di comune accordo, per diverse ragioni, difronte alla prospettiva di una sconfitta che avrebbe messo in pericolo il proprio consolidato potere, ritennero di dover fare a meno di Mussolini e di tutto ciò che egli aveva rappresentato fino a quel momento. Sono ben note e documentate al riguardo le posizioni di casa Savoia e dei vertici del Vaticano: meno noto, ma non meno esplicito è il manifesto del 20 luglio 1944, del Supremo Consiglio del Rito Scozzese Antico e Accettato, in appoggio alle truppe alleate giunte a Roma pochi giorni avanti, che al punto tre ricorda che «il colpo di Stato del 25 luglio 1943, che provocava la caduta del fascismo, fu determinato principalmente dall’attività per lunghi anni svolta in tutti i campi dai fratelli del Rito Scozzese»2. Nel momento decisivo in cui l’Italia stava scegliendo fra l’affermazione finale, anche se attraverso la sconfitta, di una sua piena sovranità, e la subordinazione alle forze interne ed internazionali che garantivano la continuità dei poteri forti nel nostro Paese, furono questi ultimi a decidere.

A questo fatto ben si presta un aspetto tipico, benché non sempre approfondito come richiederebbe, dello Stato-nazione come si era costituito fra Otto e Novecento: il cosiddetto Stato Permanente, in particolare attraverso quei suoi elementi operativi di forza che in Germania, negli anni Trenta del XX secolo, venivano sintetizzati nell’espressione OrdungsFaktor, il “fattore d’ordine”. Non a caso il governo Badoglio emanò ed applicò direttive di ordine pubblico quali mai il fascismo aveva adottato, che prevedevano il tiro ad alzo zero senza previa intimazione in presenza di qualsiasi possibile disordine: solo dal 26 al 30 luglio ‘43, ne furono vittime 83 persone, tra cui persino l’incauta consorte di un diplomatico turco, per tacere dei 308 feriti e degli oltre 1500 arrestati nello stesso torno di tempo. L’ultimo segretario del PNF, Carlo Scorza, pochi giorni prima del 25 luglio, aveva del resto amaramente constatato, in una sua relazione a Mussolini: «In tempo di guerra si è rivelato non fascista quello che avrebbe dovuto essere il più formidabile strumento dello Stato: l’Esercito con le altre forze armate»3.

Attraverso le vicende che portarono all’8 settembre 1943, si assicurava in tal modo la continuità dello Stato liberal-democratico ottocentesco, continuità nella quale i partiti antifascisti si integrarono, in taluni casi di buon grado, in altri forse senza averne piena coscienza. Si prolungò in tal modo la presa di quei poteri forti, in forme ovviamente modernizzate dal nuovo determinante fattore, risultato, più ancora che della sconfitta militare, della sanguinosa divisione della guerra civile: l’egemonia anglo-sassone, che da allora, lo stiamo constatando a distanza di Ottanta anni, domina con le sue scelte strategiche quelle di qualsivoglia governo in Italia, indipendentemente dalla sua sempre meno distintiva colorazione politica.

Proporre, con queste brevissime note, una lettura aggiornata del 25 luglio 1943, può quindi forse servire a prendere coscienza della sempre più ovvia inconsistenza delle categorie su cui l’antifascismo si è sempre più fossilizzato, in un quadro della storia italiana nel quale sempre più evidente è invece la scomparsa del fascismo quale specifico fenomeno politico. Una fine determinata, come appena si è visto, non dalle forze dell’antifascismo ma da quelle che oggi, forse con ancora maggior compattezza e pervasività di ottant’anni fa, rappresentano il potere reale.

Resta così ancora oggi inattuata la sovranità del popolo, fondamento di una vera democrazia.

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Note
  1. E. Aga Rossi, Una Nazione allo sbando, Il Mulino, Bologna, 1993, p. 71,
  2. M. Moramarco, Piazza del Gesù (1944-1968, documenti rari e inediti della tradizione massonica italiana, Centro Studi Albert Schweizer, Reggio Emilia, 1992, p. 39-49.
  3. D. Susmel, I Dieci mesi terribili, da El Alamein al 25 luglio 1943, Ciarrapico, Roma, 1981, p. 202.