Il Rowlatt Act britannico contro gli indipendentisti in India

Il dominio britannico in India (British Raj) datava ufficialmente dal 1858. Fu a seguito della grande Rivolta Indiana del 1857 (Rivolta dei Sepoys), dovuta in gran parte all’arrogante condotta della Compagnia delle Indie Orientali, che fino ad allora aveva governato il subcontinente, che questo divenne dominio diretto della Corona inglese, cosa che permise nel 1876 alla Regina Vittoria di essere proclamata imperatrice dell’India.

Il movimento nazionalista indiano

Sul finire dell’Ottocento, in India aveva preso forza il movimento nazionale guidato dal Congresso Nazionale, dominato dalla presenza indu, che richiedeva l’auto-governo del Paese (Swaraj), sia pure con posizioni molto diverse, più o meno gradualiste rispetto al rapporto con l’Impero inglese.

Il governo britannico, che gestiva la colonia attraverso un corpo di propri funzionari, lasciava pochissimo spazio alla presenza indiana, cercando spesso di utilizzare spregiudicatamente la minoritaria componente musulmana, essendo quest’ultima consapevole che l’adozione di un sistema rappresentativo di tipo occidentale avrebbe significato il prevalere degli Indu.

Alcuni componenti della classe dirigente inglese erano consapevoli della situazione esplosiva che andava montando nel Paese, soprattutto dopo la rivolta verificatasi nel 1905 contro la divisione della regione del Bengala operata da Lord Curzon senza tenere in alcun conto la realtà etnico-religiosa esistente: sarà quindi il ministro inglese John Morley (il solo che si opporrà alla guerra contro la Germania nel 1914) a presentare nel 1909 una riforma assai moderata, che non aveva certo lo scopo di favorire l’autonomia dell’India ma semplicemente di coinvolgere gli esponenti moderati indiani nell’amministrazione coloniale britannica.

L’India affianca la Gran Bretagna in guerra

Nonostante il crescente risentimento contro il dominio britannico, l’India si dimostrò fedele all’Impero inglese, testimoniando questa lealtà con gli oltre 800mila Indiani che prestarono servizio nelle forze armate alleate, e agli almeno altri 700mila civili che contribuirono direttamente allo sforzo bellico. Oltre 64mila furono i caduti, di cui molti nelle terribili battaglie di Ypres nel 1915, prove dopo le quali i reparti coloniali indiani furono spostati prevalentemente in Medio Oriente.

Ma il contributo dell’India non fu pagato solo col sangue, ma anche con l’oro: le rendite provenienti dall’India contribuirono per oltre 146 milioni di sterline allo sforzo bellico alleato, dopo avere già fornito, a parere di molti studiosi, le basi della ricchezza dell’impero inglese nel corso del XIX secolo.

Questo apporto finanziario si accompagnò ad enormi difficoltà economico-sociali conseguenti alla partecipazione alla guerra: crescita del 93% del costo dei cereali, del 60% dei beni di produzione locale e del 190% di quelli di importazione.  Questi fattori determinarono un ulteriore impoverimento nel paese, che si tradusse spesso in sommosse e atti violenti, accrescendo la preoccupazione del governo britannico, impressionato dagli eventi della Russia rivoluzionaria.

La richiesta di autogoverno

Nel 1916, poi, il Congresso Nazionale indiano chiese apertamente l’auto-governo, anche a seguito dell’accordo raggiunto coi musulmani, col cosiddetto patto di Lucknow. Ne usciva assai rafforzata la posizione del movimento nazionalista indiano, con la creazione di associazioni che invocavano oramai l’Home Rule, esattamente come era avvenuto e avveniva in Irlanda.

Una di esse venne promossa da una controversa ma importante figura del mondo anglo-sassone, tra i protagonisti del movimento teosofico in Occidente, Annie Besant, che subì l’internamento per questa sua azione in favore dell’indipendenza dell’India dalla cui spiritualità era rimasta affascinata.

Per un verso, il governo inglese, manifestò delle aperture, soprattutto quando, nel luglio 1917, Lord Ewin Montagu rilasciò una dichiarazione favorevole ad un “responsible government” indiano, che avrebbe preso poi forma nel dicembre 1918, con il cosiddetto piano Montagu. Una dichiarazione che faceva sperare, nel clima della celebrata auto-determinazione dei popoli, che le richieste di indipendenza potessero essere accolte in tempi brevi.

Il Rowlatt Act, strumento della repressione inglese

Per altro verso, però, la Gran Bretagna dimostrava di volersi preparare alla repressione, costituendo, fin dai primi mesi del 1917, un comitato di carattere poliziesco, che prese nome dal suo presidente, Sir Arthur Taylor Rowlatt, con la missione di indagare sulle “cospirazioni criminali connesse con i movimenti rivoluzionari in India”.

Così, al termine della guerra, che aveva portato con sé ora in India anche l’epidemia di spagnola (che avrebbe provocato ben 13 milioni di vittime), il governo britannico, mentre il piano Montagu restava sulla carta, mise a frutto i risultati del Rowlatt Committee, emanando il 18 marzo del 1919 il famigerato Rowlatt Act, una normativa di emergenza con la quale si prevedeva, fra l’altro: facoltà di arresto senza mandato; detenzione senza processo; processi con giudice monocratico, senza diritto di escutere i testimoni di accusa; arresti domicialiari per i sospetti; instaurazione di una stretta censura sulla stampa.

Questo provvedimento ebbe ovviamente un effetto disastroso sull’opinione pubblica indiana, spegnendo le speranze suscitate dal Quattordici Punti e dalla dichiarazione Montagu, rafforzando il nazionalismo indiano e creando le premesse per eventi drammatici che non tardarono infatti a verificarsi.

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