Riflessioni sul fascismo (1922)

Ricorrono cento anni dall’ascesa alla guida dell’Italia del movimento fascista: attraverso un atto di forza, certo, la marcia su Roma, seguito però da una votazione parlamentare che affidava al movimento ed al suo capo il compito di riformare uno Stato liberale che attraversava una profonda crisi.

Il 16 novembre 1922, infatti, il governo Mussolini ottenne la fiducia in Parlamento, con 306 voti favorevoli (fra cui quelli dei liberali Bonomi, Giolitti, Orlando, Salandra; dei popolari De Gasperi e Gronchi), 116 furono i contrari.

Il 3 dicembre 1922 fu poi approvata la norma che dava al governo Mussolini, fino al 31 dicembre 1923, facoltà di emanare disposizioni aventi vigore di legge, per «riordinare il sistema tributario, allo scopo di semplificarlo, di adeguarlo alle necessità del bilancio o di meglio distribuire il carico delle imposte; per ridurre le funzioni dello Stato, riorganizzare i pubblici uffici ed istituti, renderne più agili le funzioni e diminuire le spese».

Ci sembra interessante, in occasione di questa data, offrire alla riflessione del lettore un’interpretazione del ruolo del fascismo nella storia italiana di un grande scrittore, poeta, giornalista italiano del Novecento, Vincenzo Cardarelli (1887-1959), in genere più conosciuto e frequentato per i suoi testi poetici che come prosatore, nonostante invece i suoi scritti di storia, estetica e letteratura si possano annoverare tra i più lucidi, anticonformisti ed ancora attuali del secolo scorso.

L’articolo, che proponiamo integralmente, pubblicato nel 1925, risente ovviamente del clima del Ventennio: non è certo qui riproposto per nostalgismo, tantomeno per apologia – ma più semplicemente per dare una voce, notevole per chiarezza, spessore e originalità, agli sconfitti della storia, che non necessariamente e non sempre sono anche i vinti del pensiero.

La distanza fra queste visioni ed il presente è poi tale per cui ci auguriamo che non si dolgano di questa pubblicazione gli antifascisti, che continuano affannosamente a cercare le tracce di un fascismo inesistente, essendo il fascismo perito nel sangue della primavera del 1945.

Così come siamo certi che non se ne imbarazzeranno gli uomini della destra attuale, oggi lieti del potere loro consegnato dal popolo italiano, che del fascismo di Cardarelli non recano più la benché minima traccia o eco sia pure lontana: essi sono appunto uomini della destra, fedeli servitori dei dominatori atlantici, difensori del mondo del mercato e del profitto, ispirati dagli ideali borghesi circoscritti alla proprietà e all’ordine.

 

Stato popolare. Riflessioni intorno al Fascismo

Vincenzo Cardarelli, Il Tevere, 31 dicembre 1925

Allo stesso modo che gli scienziati sono ancora discordi sulla vera natura e origine dei fenomeni vulcanici, coloro che si applicano a costruire una teoria del Fascismo danno il più delle volte l’impressione di non sapere che pesci pigliare. L’ignoranza appare grandissima negli oppositori, mentre in molti scrittori fascisti o amici del Fascismo si notano preoccupazioni di stabilire, secondo il partito dai quale provengono, meriti di precedenza politica che non hanno alcuna ragione di essere, oppure l’adozione d’un sistema d’indagine e di definizioni astratto, che è quanto mai ripugnante a un movimento così spregiudicatamente vivo e, per giunta, così italiano.

Tutto ciò, ripetiamolo, ha da vedere coi nostri ultimi venti anni di coltura teutonica i quali hanno messo la classe degli intelligenti in Italia in condizione di non capire più il proprio paese. «O Italiani, io vi esorto alle istorie!».

La definizione che più corre, perché più semplice, è quella che si riferisce allo Stato forte. Certo che lo Stato vuol essere forte, ma, ad ascoltare i teorici del pugno di ferro parrebbe che il Fascismo sia destinato a fondare in Italia una specie di Stato prussiano. Devo confessare che questo senso non si riceve mai dai discorsi del Duce, il quale rifugge dalle formule dottrinarie, non si esprime per dogmi, sorride della sua fama di tiranno come di coloro che rimpiangono la libertà perduta, ed ama uscirsene, di tratto in tratto, in certe sue brave e franche dichiarazioni che tagliano la testa al toro. Egli è forse l’unico uomo che potrebbe scrivere un libro sul Fascismo. Ma ha altro da fare. Non potendo egli essere giudice di un movimento di cui è magna pars, occorrerebbe che qualcuno si dedicasse ad illustrare il suo pensiero che traspare limpidissimo dalle sue orazioni. Giacché pochi uomini di Stato furono scortati da una maggiore coscienza storica la quale arriva fino al fastidio. Egli non parla ormai più che per esprimere iI disgusto delle parole.

Nessuno può negare che l’Italia abbia bisogno d’un regime ferreo, adeguato ai suoi strabocchevoli fermenti di vita e di fecondazione. Un’aristocrazia è necessaria a questo popolo destinato a crescere e a moltiplicarsi, Dio lo benedica, e che, come i grandi fiumi, esige potenti opere d’arginatura. Ma si tratta d’intendersi sull’origine e la qualità di quest’aristocrazia, che è ormai in cammino e, per conseguenza, sulle sue finalità ultime. Io credo che verrà presto il giorno in cui bisognerà riformare anche il nostro vecchio vocabolario politico e si riconoscerà al Fascismo, più che il merito di aver instaurato, in tempi eccezionali, un regime di forza, la gloria d’aver dato all’Italia un ordinamento conforme alla sua indole e alle sue tradizioni. Dico quello che penso: si riconosceranno nel Fascismo i lineamenti fondamentali d’un vero e proprio stato popolare.

Ora, in un sistema politico dove il popolo assurge a dignità di nazione e la nazione è lo Stato, può sembrare superfluo ragionare di forza o di debolezza, di libertà o di tirannia: simili distinzioni presuppongono uno Stato in cui sussistano vincitori e vinti, dominatori e dominati, uno Stato, per intenderci, oligarchico, come fu fino a ieri, in effetti, Io stato liberale. Ma noi vediamo che il Fascismo, erede di tutti i movimenti popolari che si sono seguiti in Italia negli ultimi cinquant’anni, s’avvia a mettere la nazione italiana sopra un piano di parità assoluta, e tale è il suo destino. Se esso ha confermato, e si potrebbe anche dire restaurato, la Monarchia nel cuore del popolo, lo spirito civile delle sue riforme è repubblicano. Niente paura. La storia italiana conosce già questo temperamento fra le istituzioni monarchiche e l’insopprimibile tradizione repubblicana popolare che risale, oltre i Comuni e oltre Roma, ai tempi della misteriosa Etruria e che certo ha da vedere colle nostre origini cittadine. Si pensi al secolo d’Augusto e a quello delle Signorie. Se dunque tutto questo è vero, se Mussolini, dopo aver conquistato il popolo alla Terza Italia, fu dichiarato nemico della patria come Giulio Cesare, se la grande originalità del Fascismo consiste nell’essere venuto per conciliare i contrari e per ridurre l’Italia tutta a un campanile, lo Stato fascista non può essere che uno Stato popolare. La legge sui sindacati, che fu definita legge fascista per eccellenza, potrebbe costituirne una riprova, ma mille altri fatti, di ogni natura, si possono citare a conforto della nostra tesi. Rivive nel Fascismo, più o meno espresso e consapevole, quello spirito nobilmente popolare che armò le repubbliche e fece fiorire e sparse per il mondo la civiltà dei nostri primi comuni. Non s’era mai inteso, dalla costituzione del regno d’Italia in poi, un Presidente del Consiglio chiamar popolo l’Italia e professarsi suo servitore, come fa Mussolini. Nel linguaggio dei ministri piemontesi ancien régime parlando del popolo si diceva «le classi povere»; in quello dei deputati liberali del Mezzogiorno «le disgraziate popolazioni». Occorreva una rivoluzione perché al popolo italiano fosse restituita almeno la dignità del suo nome.

Sembrano piccolezze. Eppure il nuovo spirito del Fascismo è tutto qui, nel riconoscimento civile del popolo che trascende e precede di gran lunga quello dei sindacati. Si ricordi anche quanto erano caratteristiche, sotto i regimi della vecchia Italia, le oltraggiose espressioni «carne da cannone» e «gregge elettorale», mentre, dal canto suo, il popolo aveva preso i passi avanti con quel famoso suo detto: «Povera Italia!»

Tale, era dunque la figura del popolo nel quadro ridente delle istituzioni liberali. Ma come queste istituzioni nascondano, sotto le frasche dell’utopia, una vero e proprio sistema di privilegi di casta e giovino ai fini esclusivi di una classe antipopolare per eccellenza, che si dice dirigente o altrimenti aristocrazia dell’ingegno o del danaro, è stato chiarito abbondantemente e basterebbe rammentare la storia del parlamentarismo per convincersene; oltre che ci sono dei cinici che se ne compiacciono. Il diritto di voto, crudamente ristretto in principio e concesso per lunghissimo tempo a guisa di privilegio, fu reso universale soltanto il giorno che quella tal classe, specializzatasi ormai nell’esercizio del mandato parlamentare e sicura di possedere in esso uno strumento di dominio e di corruzione, stimò di non aver più niente da temere. Ma proprio quel giorno le istituzioni parlamentari cominciarono ad andare in rovina. Da noi il Parlamento fu sempre una burletta, e in questa mancanza di serietà parlamentare del popolo italiano taluni credono di ravvisare un segno della sua decadenza civile. Il contrario! Come avrebbe potuto entusiasmarsi per il Parlamentarismo un paese abituato a non conoscere mezzi termini né finzioni elettorali in fatto di sovranità popolare? E ciò fin dai tempi dei Gracchi. Lo stesso si dica per quelli che lamentano che l’Italia non abbia avuto una Riforma, presupposto indispensabile, a quel che pare, per una civiltà parlamentare ideale. Tanto meglio se non l’abbiamo avuta. I sostenitori di questa tesi non s’accorgono di darsi la zappa sui piedi allorché si fanno paladini in Italia di un sistema politico a cui mancherebbero le basi morali necessarie. Ma come avremmo potuto avere una Riforma, dove trovarne i motivi? Noi abbiamo toccato il vertice della libertà libertà civile e morale più volte. Non abbiamo conosciuto, si può dire, il feudalesimo. Se è esistito al mondo un popolo padrone del suo destino e artefice della sua storia, questo fu il popolo italiano. Dominato politicamente, in talune epoche, da principi, indigeni e forestieri, non fu mai spiritualmente servo di nessuno. Anzi la forza delle sue tradizioni e la civiltà dei suoi focolari furono tali, in ogni tempo, che anche le tirannie dovettero essere popolari in Italia, farsi una anima popolare, parlare il linguaggio del popolo, vestirne i costumi. Sicché i dominatori furono in sostanza dominati, cosa della quale si tien troppo poco conto quando si parla dei lunghi secoli di servitù italiana. Dove trovare in tutto questo gli appigli per una Riforma, la quale presuppone una storia barbara, una plebe servile e un lungo, troppo lungo Medioevo? Ma pare che l’Italia, in fatto di dignità civile, abbia molto da imparare da quel mondo di parvenus e di schiavi rivoltati che ci vengono dipingendo i panegiristi della religione riformata e delle idee liberali. Senza pensare che entrambi questi movimenti, protestantesimo e liberalismo, furono principalmente rivolti contro Roma e perciò contro l’Italia e il genio popolare italiano, e che la loro supina accettazione equivarrebbe, per parte nostra, come la storia della Terza Italia dimostra ad usura, a un suicidio politico e morale.

Non soltanto per rispetto alla verità, ma anche per una buona ragione polemica, è utile ricordare che il Fascismo, distruggendo il sistema politico parlamentare di fatto se non di diritto, ha agito in funzione di liberatore del popolo italiano. Ed è strano che si siano cambiate le carte in tavola fino al punto da lasciar creare la leggenda d’un Fascismo reazionario e, per converso, d’un’Italia liberale che avrebbe rappresentato il secolo d’oro delle libertà popolari, quando forse mai come in cotesto periodo il popolo fu più storicamente sopraffatto, altezzosamente disprezzato e bandito dalla vita civile. E chi si faccia a considerare le vicende del nostro paese nell’ultimo cinquantennio, le vede come quelle d’un popolo profugo lungamente, che soltanto nel Fascismo si riconcilia colla madre Italia e ci si ritrova.

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