Ucraina: l’errore di fondo degli Stati Uniti

Rullano i tamburi intorno alla crisi dell’Ucraina. I mass media occidentali puntano il dito sulla Russia e sul suo spiegamento militare. Per il lettore medio, impossibile farsi una propria opinione fondata, dato che la memoria storica di tutti noi, se non coltivata, è a brevissimo raggio.

Per cercare di fornire un’informazione alternativa alla propaganda del mainstreaming, selezioniamo oggi per i lettori di clarissa.it un articolo comparso l’8 febbraio scorso su TomDispatch un giornale online che, senza ovviamente poterci paragonare ad esso, si definisce in un modo che sentiamo a noi molto vicino: a regular antidote to the mainstream media, in italiano, un “costante antidoto al mainstream dei media”. L’articolo, per la sua qualità e serenità, è stato poi anche ripreso dal periodico The Nation.

Ci permettiamo di pubblicarne la traduzione integrale italiana, fermo restando che i diritti sono dell’autore, il professor Rajan Menon, collaboratore fisso di TomDispatch, docente emerito Anne & Bernard Spitzer di relazioni internazionali presso la Powell School, City College of New York; direttore del Grand Strategy Program at Defense Priorities, e Senior Research Scholar presso il Saltzman Institute of War and Peace della Columbia University. Recentemente autore del volume The Conceit of Humanitarian Intervention.

Il testo originale inglese è qui.

Come siamo arrivati qui?

di Rajan Menon

Comprensibilmente, i commenti sulla crisi tra Russia e Occidente tendono a soffermarsi sull’Ucraina. Dopotutto, più di 100.000 soldati russi ed una spaventosa serie di armi sono stati piazzati attorno al confine ucraino. Tuttavia, una prospettiva così ristretta distoglie l’attenzione da un errore strategico americano che risale agli anni ’90 e che si fa ancora sentire.

Durante quel decennio, la Russia era in ginocchio. La sua economia si era ridotta di quasi il 40%, mentre la disoccupazione era in aumento e l’inflazione alle stelle (raggiunse un monumentale 86% nel 1999). L’esercito russo era in condizioni disastrose. Invece di cogliere l’opportunità di creare un nuovo ordine europeo che includesse la Russia, il presidente Bill Clinton e la sua squadra di politica estera l’hanno sprecata, decidendo di espandere minacciosamente la NATO verso i confini di quel paese. Una tale politica mal generata faceva sì che l’Europa sarebbe stata nuovamente divisa, mentre Washington creava un nuovo ordine che escludeva e progressivamente escludeva la Russia post-sovietica.

I russi erano perplessi, come era logico che fossero.

A quel tempo, Clinton e compagnia salutavano il presidente russo Boris Eltsin come un democratico, non importa se nel 1993 aveva fatto sparare proiettili di carri armati contro il suo stesso parlamento recalcitrante e, nel 1996, aveva prevalso in un’elezione falsa, favorita abbastanza stranamente da Washington. Lo elogiarono per aver lanciato una “transizione” verso un’economia di mercato, che, come il premio Nobel Svetlana Alexievich ha esposto in modo così toccante nel suo libro Second Hand Time, avrebbe fatto precipitare milioni di russi nella miseria “deregolando” i prezzi e tagliando i servizi sociali fino ad allora forniti dallo stato.

Perché, si chiedevano i russi, Washington avrebbe spinto ossessivamente un’alleanza NATO della Guerra Fredda sempre più vicino ai loro confini, sapendo che una Russia vacillante non era nella condizione di mettere in pericolo nessun paese europeo?

Un’alleanza salvata dall’oblio

Sfortunatamente, coloro che hanno guidato o influenzato la politica estera americana non hanno trovato il tempo per riflettere su una domanda così ovvia. Dopotutto, c’era un mondo là fuori pronto per essere guidato dall’unica superpotenza del pianeta e, se gli Stati Uniti avessero perso tempo nell’introspezione, “la giungla”, come ha detto l’influente pensatore neo-conservatore Robert Kagan, sarebbe ricresciuta e il mondo sarebbe stato “in pericolo”. Così, i Clintoniani ed i loro successori alla Casa Bianca trovarono nuove cause per promuovere l’impiego della potenza americana, una fissazione che avrebbe portato a campagne seriali di intervento militare e di ingegneria sociale.

L’espansione della NATO è stata una prima manifestazione di questa mentalità millenaria sulla quale il teologo Reinhold Niebuhr aveva messo in guardia nel suo classico testo L’ironia della storia americana. Ma chi a Washington stava prestando attenzione, quando il destino del mondo ed il futuro erano stati progettati da noi, e solo da noi, in quello che sul Washington Post Charles Krauthammer ha celebrato nel 1990 come l’ultimo “momento unipolare” – quello in cui, per il prima volta in assoluto, gli Stati Uniti avrebbero posseduto un potere senza pari?

Tuttavia, perché sfruttare questa opportunità per espandere la NATO, che era stata creata nel 1949 per dissuadere il Patto di Varsavia a guida sovietica dall’entrare nell’Europa occidentale, dato che sia l’Unione Sovietica che la sua alleanza erano ormai scomparse? Non era come ridare vita a una mummia?

Per questa domanda, gli artefici dell’espansione della NATO avevano pronte risposte standard, che i loro discepoli degli ultimi giorni ancora recitano. Le neonate democrazie post-sovietiche dell’Europa centrale e orientale, così come di altre parti del continente, potrebbero essere ”rafforzate“ dalla stabilità che solo la NATO avrebbe fornito, una volta inserite nei suoi ranghi. Naturalmente, non è mai stato spiegato esattamente come un’alleanza militare avrebbe dovuto promuovere la democrazia, soprattutto considerando un record di alleanze globali americane, che avevano incluso personaggi del calibro dell’uomo forte filippino Ferdinand Marcos, la Grecia governata dai militari così come la Turchia.

E, naturalmente, se gli abitanti dell’ex Unione Sovietica ora avessero voluto entrare anche loro nel club, a che titolo avrebbero potuto essere respinti? Non importava che Clinton e il suo team di politica estera non avessero escogitato in che modo rispondere ad una pressante richiesta da quella parte del mondo. Al contrario, consideravano il loro approccio analogamente, in ambito strategico, alla legge di Say in economia: abbiamo progettato un prodotto, la domanda seguirà.

La politica interna ha anche influenzato la decisione di spingere la NATO verso est. Il presidente Clinton aveva un peso sulle sue spalle, la sua mancanza di credenziali militari. Come molti presidenti americani (31 per la precisione), non aveva infatti prestato servizio militare, mentre il suo avversario alle elezioni del 1996, il senatore Bob Dole, era stato gravemente ferito combattendo nella seconda guerra mondiale. Peggio ancora, la sua esenzione dalla leva al tempo della guerra del Vietnam era stata evidenziata dai suoi critici, per cui si sentiva in dovere di dimostrare ai mediatori del potere di Washington che aveva il fegato ed il temperamento per salvaguardare la leadership globale americana e la sua preponderanza militare.

In realtà, poiché la maggior parte degli elettori non era interessata alla politica estera, nemmeno Clinton lo era, e questo ha effettivamente dato un vantaggio a coloro nella sua amministrazione che erano profondamente impegnati nell’espansione della NATO. Dal 1993, quando sono iniziate sul serio le discussioni a riguardo, non c’era nessuno di rilievo che gli si opponesse.

Peggio ancora, il presidente, un politico esperto, ha intuito che il progetto avrebbe persino potuto aiutarlo ad attirare elettori alle elezioni presidenziali del 1996, specialmente nel Midwest, patria di milioni di americani con radici dell’Europa orientale e centrale.

Inoltre, dato il supporto che la NATO aveva acquisito nel corso di una generazione nel sistema dell’industria bellica e della difesa nazionale di Washington, abbandonare quell’idea era impensabile, poiché era considerata essenziale per la continuità della leadership globale americana. Servire da protettore per eccellenza, ha dato agli Stati Uniti un’enorme influenza sui principali centri mondiali del potere economico dell’epoca. Funzionari, studiosi, accademici e giornalisti – tutti esercitavano un’influenza molto maggiore sulla politica estera e se ne occupavano molto più del resto della popolazione – hanno trovato lusinghiero essere ricevuti nei luoghi del potere come rappresentanti della politica estera mondiale della potenza egemone.

Date le circostanze, le obiezioni di Eltsin al fatto che la NATO che si allargasse verso est (nonostante le promesse verbali in contrario fatte all’ultimo capo dell’Unione Sovietica, Mikhail Gorbachev) potevano essere facilmente ignorate. Dopotutto, la Russia era troppo debole per avere importanza. E in quegli ultimi momenti della Guerra Fredda, nessuno avrebbe immaginato una tale espansione della NATO. Quindi, tradimento? Neanche per sogno! Non conta il fatto che Gorbaciov abbia fermamente denunciato tali mosse, e lo abbia fatto di nuovo lo scorso dicembre.

Chi semina raccoglie

Il presidente russo Vladimir Putin ora sta respingendo con forza questa strategia. Avendo trasformato l’esercito russo in una forza formidabile, si è fatto i muscoli che mancavano a Eltsin. Ma resta il consenso all’interno della Washington che conta sul fatto che le sue lamentele sull’espansione della NATO non sono altro che uno stratagemma rivolto a nascondere la sua vera preoccupazione: un’Ucraina democratica. È un’interpretazione che assolve opportunamente gli Stati Uniti da ogni responsabilità per gli eventi in corso.

Oggi, a Washington, non importa che le obiezioni di Mosca abbiano preceduto di molto l’elezione di Putin alla presidenza nel 2000, o che, una volta, non fossero solo i leader russi a non apprezzare l’idea. Negli anni ’90, diversi eminenti americani si opposero, ed erano tutt’altro che di sinistra. Tra loro c’erano membri dell’establishment con credenziali impeccabili della Guerra Fredda: George Kennan, il padre della dottrina del containment; Paul Nitze, un falco che ha servito nell’amministrazione Reagan; l’esperto di storia russa ad Harvard, Richard Pipes, un altro intransigente; il senatore Sam Nunn, una delle voci più influenti sulla sicurezza nazionale al Congresso; il senatore Daniel Patrick Moynihan, un tempo ambasciatore degli Stati Uniti presso le Nazioni Unite; e Robert McNamara, Segretario alla Difesa di Lyndon Johnson. I loro avvertimenti erano tutti straordinariamente simili: l’espansione della NATO avrebbe avvelenato le relazioni con la Russia, contribuendo nel contempo a promuovere al suo interno forze autoritarie e nazionaliste.

L’amministrazione Clinton era pienamente consapevole dell’opposizione russa. Nell’ottobre 1993, ad esempio, James Collins, incaricato d’affari presso l’ambasciata statunitense in Russia, inviava un telegramma al Segretario di Stato, Warren Christopher, proprio mentre stava per recarsi a Mosca per incontrare Eltsin, avvertendolo che l’allargamento della NATO era “una questione nevralgica per i russi” perché, ai loro occhi, avrebbe diviso l’Europa e li avrebbe esclusi. Avvertiva che l’estensione dell’alleanza nell’Europa centrale e orientale sarebbe stata “universalmente interpretata a Mosca come diretta solo alla Russia e alla Russia” e quindi considerata come neo-containment.

Nello stesso anno, Eltsin inviò una lettera a Clinton (e ai leader di Regno Unito, Francia e Germania) opponendosi duramente all’espansione della NATO, se ciò avesse comportato l’ammissione nell’alleanza gli Stati ex-sovietici, escludendo la Russia. Ciò, predisse, avrebbe effettivamente “minato la sicurezza dell’Europa”. L’anno seguente, si scontrò pubblicamente con Clinton, avvertendo che tale espansione avrebbe “seminato i semi della sfiducia” e “precipitato l’Europa del dopo Guerra Fredda in una pace fredda”. Il presidente americano respinse le sue obiezioni: la decisione di offrire, nella sua prima ondata di espansione nel 1999, l’adesione alla NATO a Stati un tempo ricompresi nell’Unione Sovietica, era già stata presa.

I difensori dell’alleanza ora affermano che la Russia ha accettato quell’allargamento firmando il NATO-Russia Founding Act del 1997. Ma Mosca non aveva davvero scelta, dipendendo allora da miliardi di dollari di prestiti del Fondo Monetario Internazionale (possibile solo con l’approvazione degli Stati Uniti, il membro più influente di quell’organizzazione). Quindi, ha fatto di necessità virtù. Quel documento, è vero, sottolinea la democrazia ed il rispetto per l’integrità territoriale dei paesi europei, principi che Putin ha fatto tutt’altro che difendere. Tuttavia, fa riferimento anche alla sicurezza “inclusiva”” nell’“area euro-atlantica” ed al “processo decisionale congiunto”, parole che a malapena descrivono la decisione della NATO di espandersi dai 16 paesi al culmine della Guerra Fredda ai 30 di oggi.

Quando la NATO tenne un vertice nella capitale della Romania, Bucarest, nel 2008, gli stati baltici erano diventati membri e l’alleanza rinnovata aveva effettivamente raggiunto il confine con la Russia. La dichiarazione finale del vertice elogiava le “aspirazioni di adesione di Ucraina e Georgia”, aggiungendo “oggi abbiamo convenuto che questi paesi diventeranno membri della NATO”. L’amministrazione del presidente George W. Bush non avrebbe potuto credere che Mosca avrebbe accettato l’ingresso dell’Ucraina nell’alleanza passivamente. L’ambasciatore americano in Russia, William Burns, ora capo della CIA, aveva avvertito in un cablogramma di due mesi prima che i leader russi consideravano quella possibilità come una grave minaccia alla loro sicurezza. Quel cablogramma, ora divenuto pubblico, prevedeva quasi un disastro come quello cui stiamo assistendo.

Ma è stata la guerra Russia-Georgia – con rare eccezioni erroneamente presentata come un attacco non provocato, iniziato da Mosca – a fornire il primo segnale che Vladimir Putin aveva oltrepassato il punto di limitarsi a lanciare proteste. La sua annessione della Crimea nel 2014, a seguito di un referendum illegale, e la creazione di due “repubbliche” nel Donbas, a loro volta parte dell’Ucraina, sono state le mosse molto più drammatiche che hanno effettivamente avviato una seconda Guerra Fredda.

Evitare il disastro

Ed ora eccoci qui. Un’Europa divisa, una crescente instabilità tra le minacce militari delle potenze nucleari e l’incombente possibilità di una guerra, poiché la Russia di Putin, le sue truppe e gli armamenti ammassati intorno all’Ucraina, chiedono che l’espansione della NATO cessi, che l’Ucraina sia esclusa dall’alleanza, e che gli Stati Uniti ed i suoi alleati prendano finalmente sul serio le obiezioni della Russia all’ordine internazionale del dopo Guerra Fredda.

Tra i tanti ostacoli che si pongono all’evitare la guerra, uno è particolarmente degno di nota: la diffusa affermazione che le preoccupazioni di Putin sulla NATO siano una cortina fumogena che oscura la sua vera paura: la democrazia, in particolare in Ucraina. La Russia, infatti, si è ripetutamente opposta alla marcia verso est della NATO anche quando il Paese veniva ancora salutato in Occidente come una democrazia, e molto prima che Putin diventasse presidente, nel 2000. Inoltre, l’Ucraina è diventata una democrazia (per quanto tumultuosa) da quando è diventata indipendente nel 1991.

Allora perché lo schieramento russo ora?

Vladimir Putin è tutt’altro che un democratico. Tuttavia, questa crisi è inimmaginabile senza il continuo parlare dell’ammissione un giorno dell’Ucraina nella NATO e dell’intensificazione della cooperazione militare con l’Occidente, in particolare con gli Stati Uniti. Mosca vede entrambi come segni che l’Ucraina alla fine si unirà all’alleanza, che non è la democrazia in Ucraina la più grande paura di Putin.

Ora la notizia incoraggiante: il disastro incombente ha finalmente dato energia alla diplomazia. Sappiamo che i falchi di Washington deploreranno qualsiasi soluzione politica che comporti un compromesso con la Russia per evitare la guerra. Paragoneranno il presidente Biden a Neville Chamberlain, il primo ministro britannico che, nel 1938, diede via libera a Hitler a Monaco. Alcuni di loro sostengono un “massiccio trasporto aereo di armi” in Ucraina, come a Berlino all’inizio della Guerra Fredda. Altri vanno oltre, esortando Biden a raccogliere una “coalizione internazionale di forze militari volenterose e preparate a scoraggiare Putin e, se necessario, a prepararsi alla guerra”.

La sanità mentale, tuttavia, può ancora prevalere attraverso un compromesso. La Russia potrebbe accontentarsi di una moratoria sull’adesione dell’Ucraina alla NATO per, diciamo, due decenni, qualcosa che l’alleanza dovrebbe essere in grado di accettare, perché non ha comunque in programma di accelerare l’adesione di Kiev. Per ottenere l’assenso dell’Ucraina, le verrebbe garantita la libertà di procurarsi armi per l’autodifesa e, per soddisfare Mosca, Kiev acconsentirebbe a non accogliere mai basi NATO aeree o missilistiche in grado di colpire la Russia sul suo territorio.

L’accordo dovrebbe estendersi oltre l’Ucraina, se si vogliono scongiurare crisi e guerre in Europa. Gli Stati Uniti e la Russia dovrebbero trovare la volontà di discutere del controllo degli armamenti in tutta Europa, inclusa forse una versione migliorata del Trattato sulle forze nucleari a raggio intermedio del 1987, che il presidente Trump ha abbandonato nel 2019.

Dovrebbero anche cercare misure di rafforzamento della fiducia, come l’esclusione di truppe e armamenti da aree designate lungo le aree di confine NATO-Russia, e misure per prevenire incontri ravvicinati tra aerei e navi da guerra americani e russi, che potrebbero andare fuori controllo.

Tocca ai diplomatici. Auguriamogli buona fortuna.

Copyright 2022, Rajan Menon

(tr. it. di Gaetano Colonna)

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