Oltre Mirafiori: il lavoro non è merce

L’accordo di Mirafiori potrebbe essere occasione per parlare seriamente di economia, lavoro e organizzazione delle società post-industriali: ha quindi ragione Giuseppe Berta sul Sole 24 Ore di sabato a dire che, nel dibattito di queste settimane, è stata persa un’occasione "che avrebbe consentito di uscire dalle rappresentazione stereotipe del lavoro per riportare l’accento sull’organizzazione industriale e il suo cambiamento". Far questo seriamente, a dire il vero, significa però anche parlare del rapporto fra politica ed economia, fra proprietà privata e impresa, e fra capitale e lavoro, accantonando per ora la questione della moneta, di cui presto si dovrà pure tornare a parlare.
Un primo punto da cui partire è che con la Fiat siamo ben lontani oramai da quello che pensava Henry Ford: "il punto di inizio di ogni produzione manifatturiera è l’articolo stesso". Il settore automobilistico è un settore maturo nel quale la globalizzazione non ha fatto altro che esasperare il problema di fondo: si producono troppe auto, i loro costi di produzione lasciano basse marginalità e i consumatori si trovano di fronte a prezzi di acquisto e di mantenimento che il consumatore medio fa sempre più fatica a sostenere.
A fronte di questo dato oggettivo, che acuisce la competizione internazionale e favorisce la produzione asiatica che ha costi più bassi, sappiamo bene che la Fiat, per altro non sola fra le grandi multinazionali dell’auto, ha operato delle scelte assai miopi, invece di puntare su innovazioni spinte, come verso i carburanti alternativi, scelte che avrebbero trovato risposta fra i consumatori e forse anche a livello politico, se ad esempio ci avessero sottratto alla dittatura del petrolio. Nel caso specifico della Fiat sappiamo anche perché, si è semplicemente trattato della scelta più comoda, quella che eliminava i rischi sul medio periodo: prendiamo per tutti il caso dello stabilimento di Pomigliano. "Il patto implicito – scrive Pietro Reichlin, che ha consentito la nascita e la sopravvivenza dell’impianto di Pomigliano nel corso degli ultimi 30 anni consisteva nella disponibilità dei contribuenti a coprire le perdite dell’impresa, o quella dei consumatori a sopportare i costi delle svalutazioni valutarie. Questo patto ha permesso di contenere la conflittualità, ma ha avuto un costo elevato sia in termini di maggiori tasse e prezzi, sia perché ha disincentivato innovazione e conversione industriale a favore di attività più produttive".
Nell’accordo di Mirafiori, ben poco è cambiato: sappiamo infatti quante siano le perplessità sulla joint venture Fiat-Chrysler, se le promesse contenute nel famoso "Piano di rilancio per lo stabilimento di Mirafiori" del 26 novembre scorso, che è parte dell’accordo approvato dai lavoratori, potranno davvero essere mantenute; nonostante l’intesa fra le due multinazionali, che quindi mette in opera al massimo livello i meccanismi della globalizzazione, sia la sola ragione che ha permesso di creare un accordo contrattuale sui generis col sindacato, inclusa l’importante finzione "politica" di tenere momentaneamente fuori dal sistema confindustriale la nuova azienda.
Possiamo quindi dire che l’impresa automobilistica negli ultimi decenni non ha saputo fare la sua parte, almeno in una logica imprenditoriale come quella originaria di Henry Ford. Non è solo la Fiat a soffrire di questa lesa maestà nei confronti dei dettami del capitalismo dei grandi capitani d’industria, lo ha già detto benissimo uno studioso come il Chandler, che giustamente rilevava gli sviluppi pericolosi in corso nella grande industria fin dagli anni Ottanta: "dove sono incoraggiati guadagni di breve periodo – dove le decisioni e le azioni sono motivate dal desiderio di ottenere alti dividendi o profitti correnti – vengono ridotte o addirittura distrutte le capacità essenziali per competere in modo proficuo sui mercati nazionali e internazionali. La rapidità con la quale numerosi settori americani ad alta intensità di capitale – quelli che hanno guidato lo sviluppo industriale – perdono quote di mercato all’interno del Paese e all’estero, a partire dall’ondata di fusioni e acquisizioni degli anni Sessanta, suggerisce che almeno in quei settori gli investimenti di lungo periodo sono stati sacrificati ai guadagni a breve termine". Sappiamo che, in realtà, questo è uno dei nodi centrali della crisi attuale, ed è un nodo strutturale.
Ma l’esempio della condotta Fiat a Pomigliano evidenzia anche un altro aspetto ben noto, ampiamente documentato, quello del ruolo della politica, del rapporto di sudditanza interessata della politica dei partiti nei confronti del potere economico (grande industriale e finanziario): si sono riversate sui contribuenti-consumatori queste scelte miopi, perché questo è ciò che oggi si intende per "fare sistema", sostenendosi reciprocamente, dato che la politica clientelare ha bisogno di fabbriche localizzate sul territorio da cui prende voti, e di finanziamenti. Nessun politico avrebbe il coraggio di chiedere: "serve ancora produrre queste macchine?" Chi oserebbe farlo? L’industria, col suo potere di creare occupazione, è intoccabile per i partiti.
Eppure, se abbiamo letto bene le 36 cartelle dell’accordo, un punto di cui si è parlato veramente poco anche in questo caso, è il punto 7, leggiamolo testualmente:
"In relazione alla grave crisi che ha interessato e continua ad interessare il mercato automobilistico, alla situazione produttiva dello stabilimento Mirafiori Plant in essere e prevista, al fine di garantire ai lavoratori una misura di sostegno al reddito durante il periodo che precederà l’avvio produttivo della Joint Venture le Parti convengono sulla necessità di ricorrere, previo esperimento delle procedure di legge, alla cassa integrazione guadagni straordinaria per crisi aziendale per evento improvviso e imprevisto, per tutto il personale a partire dal 14 febbraio 2011 per la durata di un anno".
Stiamo parlando di un costo ingente che ricade sulla collettività, quindi, e per questo dovremmo capire meglio in cosa consiste l’evento improvviso e imprevisto cui si fa riferimento, dato che la crisi del settore automotive a livello mondiale dura almeno da un decennio: dunque, l’imprenditore che gestisce un’impresa come la Fiat non poteva non sapere da qualche lustro che era il caso assai prima di impostare nuove strategie, nuove linee di prodotto, oppure reperire nuovi partner, risorse, idee. Nonostante le molteplici delocalizzazioni produttive, invece, la Fiat assiste oggi impotente a un calo di ben il 17% dell’immatricolazione delle sue vetture in Europa nel 2010: in soldoni sono 210 mila auto in meno, una quota di mercato che scende dall’8,7 al 7,6 per cento.
Da qui, a rigore, dovremmo cominciare a sollevare la questione se all’impresa si possano applicare ancora tutti i dettami della proprietà privata. Siccome il comunismo fortunatamente non c’è più, a parte il comunismo capitalista cinese, la questione da porre diventa assai delicata, nonostante sia stata già sollevata proprio dai piccoli industriali, se ricordiamo bene del Veneto, qualche anno fa, in tema di successione aziendale, per il momento. Cosa si deve fare di un’impresa di valore ed impatto sociale, quando non viene più bene amministrata? Non dovrebbero esserci meccanismi, diversi da quelli per cui il costo degli errori degli imprenditori viene riversato sui contribuenti consumatori, per tutelare un patrimonio produttivo che ha un valore sociale? Non potremmo cominciare a ragionare negli stessi termini con cui si ragiona, per esempio, in materia di diritto d’autore, per cui, dopo un certo numero di anni, se l’impresa non è più ben gestita, può passare a chi dimostri di sapere cosa fare e lo faccia bene?
Non basta. L’accordo di Mirafiori ci sollecita ancora oltre. Leggiamo la dichiarazione con la quale il leader del sindacato americano dell’auto, Uaw, Bob King, lo commentava: "Va abbandonata la vecchia mentalità dello scontro. La nuova lotta di classe è nel lavorare insieme per ricostruire la nuova classe media globale". Certo, è un segno dei tempi: segno della borghesizzazione totale delle nostre società; segno della scomparsa del proletariato in senso marxiano; ripresa di un tema antico, quello della collaborazione fra capitale e lavoro, che, però, richiede oggi di essere anch’esso rivisto a fondo. Perché si continua a girare intorno ad un tema essenziale, che purtroppo i sindacati hanno perso completamente di vista, oppure l’hanno mantenuto nel solco marxiano, falsificandolo. Il nocciolo della questione sociale, infatti, è stato sempre uno: il lavoro non è una merce.
Il lavoro entra da fuori, cioè dall’essere umano, nel processo economico moderno, fatto invece di produzione, circolazione, consumo delle merci: per questo deve essere regolato dalla funzione giuridica, che deve operare sulla base dei rapporti fra uomo e uomo, fondati sull’equità e sulla parità di diritti. Ecco allora che la funzione politica, se la nostra fosse una comunità politica degna di questo nome, dovrebbe porre saldamente, tutelare e aggiornare progressivamente, i criteri regolatori essenziali.
Ma non basta, perché, se il lavoro non è merce, anche la questione del salario va rivista, e rivista a fondo, non certo con la semplice e spesso ottusa difesa di interessi costituiti, su cui si arrocca ormai da un trentennio il sindacato, raccogliendo così una serie ininterrotta di sconfitte, mentre la sua rappresentatività raggiunge a livello europeo punte negative impensabili, con meno del 20 per cento di lavoratori sindacalizzati, per cui oggi percentualmente sono assai più sindacalizzati gli imprenditori!
L’accordo di Mirafiori ha vinto per poco più di 400 voti (2.735 sì contro 2.325 no), per lo più, dicono gli analisti, grazie al voto dei cosiddetti "impiegati" che hanno massicciamente votato a favore del sì, con una proporzione del 95,5%: impiegati non proprio, perché in maggioranza sono tecnici specializzati che svolgono mansioni di coordinamento a livello di unità produttive di base, figure quindi chiave di un processo produttivo sempre più complesso da un punto di vista tecnologico. Al lavoratore, quindi, si richiederà sempre più, nel futuro della produzione, competenze specifiche e responsabilizzazione diretta, soprattutto nel caso di un accordo come quello di Mirafiori – accordo che, a leggerlo attentamente, è tutto da mettere in pratica, cosa difficile in caso di contrapposizione fra azienda e lavoratori e, ancora peggio, fra lavoratori e lavoratori, tentazione che ci auguriamo i resti del sindacalismo italiano vogliano accuratamente evitare, perché segnerebbe il loro definitivo affossamento.
La difesa del salario quindi è da superare, nella maniera più chiara: se il lavoro non è merce, si dovrà parlare di una suddivisione dei frutti del lavoro comune, ovverosia delle comune prestazioni, ovverosia suddivisione dei profitti della produzione. La strada da imboccare è questa, e non c’è più molto tempo per intraprenderla: circolano già tantissime formule, più o meno strumentali, sui meccanismi di partecipazione dei lavoratori all’impresa, e da qui si potrebbe partire, lavorando in modo serio e spregiudicato. Sarebbe fra l’altro la via maestra anche per affrontare i temi assai rischiosi della cosiddetta flexicurity con cui a livello europeo si cerca di scoprire come conciliare la flessibilità richiesta dalle moderne forme di organizzazione aziendale con le garanzie per il lavoratore. Sarebbe anche la via con cui fronteggiare, sul piano politico mondiale, il dibattito sul costo del lavoro, rispetto al quale l’Europa riceve concentrici attacchi dagli Usa come dalla Cina.
La strada per compiere l’emancipazione reale del lavoro passa per l’abbandono del salario (che paga il lavoro come merce), sostituendolo con la partecipazione del lavoratore al risultato della produzione cui collabora, e quindi anche alla gestione all’impresa: un lavoro de-mercificato, oltre a dare piena dignità al lavoratore, toglierebbe all’imprenditore il potere socialmente più pericoloso di cui dispone, quello di esercitare una pressione in nome dei posti di lavoro che può dare o togliere ad un territorio, allo stesso tempo responsabilizzando il lavoratore; all’impresa si deve chiedere di fare il suo mestiere, senza utilizzare i soldi pubblici per ristrutturarsi né l’internazionalizzazione come arma di ricatto, facilmente spuntando questo tipo di armi stabilendo che in questi casi si possa decidere, attraverso istituzioni economiche e non politiche, di affidare ad altri imprenditori l’impresa in crisi; dalla politica infine si deve esigere un quadro normativo di diritto del lavoro rinnovato che non risponda a logiche economiche ma a logiche di pura equità, prendendo in tal modo atto delle trasformazioni necessarie perché, ad esempio, taluni nostri fondamentali principi costituzionali siano realmente applicati.
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