Hezbollah si ritira dal governo. Il Libano sprofonda nella crisi

La minaccia era nell’aria da tempo, ieri, 12 gennaio, Hezbollah è passato dalle parole ai fatti. I ministri del Partito di Dio e i loro alleati si ritirano dal governo di unità nazionale libanese e mettono di fatto in crisi l’esecutivo. L’annuncio è arrivato mentre il premier Saad Hariri si trovava in visita alla Casa Bianca, oggi sarà ricevuto a Parigi da Nicolas Sarkozy.
La crisi è scoppiata al rifiuto di Saad Hariri di disconoscere il Tribunale speciale per il Libano sulla morte di suo padre, Rafic Hariri, e dopo che era stato impedito al Consiglio dei ministri l’esame di un dossier relativo a presunti falsi testimoni utilizzati dal Tribunale. Undici ministri, sciiti e cristiani, hanno massicciamente rassegnato le dimissioni determinando l’automatica caduta del governo.
Questi sviluppi sono seguiti ad una serie di incontri "maratona" a New York e Washington a cui hanno partecipato il re saudita Abdallah, i presidenti Barack Obama e Nicolas Sarkozy, la segretario di Stato Hillary Clinton e lo stesso Saad Hariri.
A Beirut, quasi unanimemente stampa e commentatori politici ritengono che Washington abbia posto il veto ai tentativi siriano-sauditi che puntavano a trovare un accordo inter-libanese per far uscire il paese dalla crisi, disinnescando la bomba a tempo del Tribunale internazionale che da mesi sembra in procinto di incriminare i vertici di Hezbollah per l’omicidio di Rafic Hariri avvenuto nel febbraio 2005. Per gli Stati Uniti, al contrario, proprio l’azione del Tribunale è un fortissimo strumento di pressione contro Hezbollah ed i suoi sponsor, la Siria e l’Iran.
A questo punto l’interrogativo più pressante è comprendere come possa svilupparsi la crisi. Dal punto di vista istituzionale la prossima tappa sarà rappresentata dalle consultazioni parlamentari per la scelta di un nuovo primo ministro. L’esito appare quanto mai incerto poiché pare mancare una maggioranza solida in Parlamento, visto che dopo una parentesi filo-occidentale il leader druso Walid Jumblatt è tornato ad avvicinarsi alla Siria.
Se verrà rinnovato l’incarico a Saad Hariri, l’opposizione gli renderà la vita difficile. Gli saranno probabilmente necessari mesi per formare un nuovo governo, sempre ammesso che ci riesca, ma del resto nessun altro candidato sembra avere la necessaria legittimità democratica perché in ogni caso il nuovo premier avrà bisogno di almeno una parte dei voti sunniti ottenuti da Hariri alle scorse elezioni. Nel baratro della crisi una candela di speranza rimane accesa: finora nessun leader politico ha evocato lo spettro, sempre incombente in Libano, della guerra civile.

Il timore di vedere la crisi politica libanese degenerare in conflitto è vivo nella Comunità internazionale e nei paesi della regione.
Israele "vigila con estrema attenzione" la situazione in Libano, ha dichiarato il portavoce del ministro della Difesa di Tel Aviv Ehud Barack. Lo stato ebraico è il nemico giurato di Hezbollah che ha il controllo del suo confine nord. Nel 2006 tra Israele e Libano scoppiò la cosiddetta guerra dei trentatré giorni, durante la quale il tentativo di invasione del Libano del sud fu respinto dalla capacità militare delle milizie sciite.
Per il capo della Lega araba, Amr Moussa, la situazione è quanto mai "pericolosa" e si chiamano tutte le parti a perseguire ogni possibile soluzione pur di evitare un confronto immediato. Moussa esprime l’inquietudine di vedere nuovamente il Libano sprofondare nel caos, come nel 2008, quando il paese arrivò vicino alla guerra civile.
L’Egitto, dal canto suo, chiama alla moderazione a afferma di star conducendo contatti con altri paesi per tentare di portare un aiuto al Libano. Ma ormai i giochi paiono fatti. La mediazione siriano-saudita, fallita l’11 gennaio, sembrava l’unica in grado di permettere al governo libanese di superare l’odierna crisi.

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