In Africa a caccia di terra

In Kenya aumentano le preoccupazioni riguardo una presunta operazione del governo che vorrebbe cedere a investitori del Qatar una vasta area di terreni coltivabili, i cui prodotti sarebbero così destinati all’esportazione.
Secondo alcuni attivisti, si tratterebbe di 40.000 ettari di terra fertile in una zona ricca di acqua, intorno al delta del fiume Tana, circa 150 km a nord di Mombasa. In cambio, il governo del Qatar si sarebbe impegnato a costruire un porto da 2,5 miliardi di dollari nella città di Lamu, sull’isola omonima, che così diverrebbe il secondo porto più grande del paese, dopo Mombasa.
Alcuni potrebbero interpretare la mossa come un tentativo di attrarre i tanto auspicati investimenti stranieri, in linea con il piano di sviluppo del Kenya, denominato Vision 2030, che mira a raggiungere una crescita economica annuale del 10%. In effetti, la costruzione del porto a Lamu rappresenterebbe un ottimo incentivo allo sviluppo in una zona del paese ancora piuttosto arretrata.
Tuttavia, secondo gli attivisti, i terreni fertili dovrebbero servire ad aumentare le riserve di cibo del paese, da tempo in declino. "Non avremmo problemi se il cibo fosse prodotto per il Kenya. Ma non siamo arrivati al culmine della sconsideratezza nelle decisioni se il governo dà via terreni al Qatar mentre il Kenya non ha una stabilità alimentare e dipende dagli aiuti umanitari? Dov’è la logica?", si chiede Odenda Lumumba, coordinatore della Kenya Land Alliance, che comprende diverse organizzazioni per la difesa dei diritti della terra.
Un terzo dei 34 milioni di abitanti del Kenya soffre la fame. Qualche mese fa, il presidente Mwai Kibaki definì la situazione "un disastro nazionale", implorando aiuti alimentari ai vari donatori internazionali. I sostenitori dell’accordo col Qatar, alcuni dei quali sono al governo, hanno difeso l’operazione, che secondo loro creerà nuovi posti di lavoro e stimolerà lo sviluppo.
Ma si teme che gli abitanti delle zone interessate, circa 150.000 agricoltori e allevatori che vivono dei prodotti del delta del Tana, saranno costretti a lasciare le terre dove hanno vissuto per anni. Proprio per questo la comunità locale ha già minacciato di portare la questione in tribunale, sostenendo che l’accordo è stato preso senza consultare i cittadini direttamente interessati.
In ogni caso, secondo gli studiosi del fenomeno "land grabbing", i piccoli proprietari costretti a lasciare i propri terreni non hanno le conoscenze necessarie a negoziare accordi vantaggiosi con i potenti interlocutori nazionali e stranieri, né tantomeno la forza per far rispettare gli accordi se gli investitori non dovessero mantenere le promesse di assistenza e di nuovi posti di lavoro.
Le prime voci di questo accordo tra Kenya e Qatar si diffusero lo scorso novembre, quando il presidente Kibaki si recò a Doha per partecipare a una conferenza sullo sviluppo. Ma Isaiah Kabira, addetto stampa del governo, ha sgonfiato la questione: "Si è trattato solo di una proposta, ancora non è stato firmato niente. Il progetto è ancora allo stadio iniziale, i leader dei due paesi ne hanno parlato solo una volta." Anche il Ministero del Territorio ha fatto sapere che non è stata avviata nessuna operazione del genere.
Ma tanto scetticismo per un accordo ancora in alto mare non deve sorprendere, perché il Kenya ha un precedente negativo molto recente. Nel 2004, infatti, la statunitense Dominion Farms Limited ottenne in concessione per 25 anni un’area di 2.300 ettari, nella zona paludosa del fiume Yala, che di ettari ne misura 21.800. Nonostante l’accordo, firmato dalla compagnia, dal consiglio di contea e dal ministero del territorio, limitasse chiaramente le operazioni degli investitori nei 2.300 ettari, la Dominion Farms da allora ha esteso le sue attività e pare che ora sfrutti il 65% dell’intera palude. Inoltre, la costruzione di una centrale idroelettrica sul fiume Yala da parte degli americani avrebbe provocato continue inondazioni sui terreni della popolazione locale, con conseguente perdita del bestiame e abbandono forzato delle proprie case. Il governo ha negato ogni responsabilità, dichiarando che la compagnia statunitense ha trattato con proprietari terrieri privati.
Questi scenari, secondo gli analisti, rendono necessaria la stipulazione di linee guida, di un codice di comportamento per gli investitori stranieri che definisca chiaramente le procedure da seguire e le sanzioni da prendere contro chi danneggia le popolazioni locali. Le leggi attuali, in vigore dal 2005, hanno fallito nella regolamentazione di questi aspetti, così le compagnie straniere sono ricorse a scappatoie ed hanno imposto la legge del più forte, del più ricco, del più furbo.
In Kenya, la situazione potrebbe migliorare con l’imminente approvazione della National Land Policy, che, tra le altre cose, regolamenta l’accesso degli investitori stranieri ai terreni, controlla il loro impatto sull’ambiente e si assicura che le concessioni di aree coltivabili beneficino prima di tutto e soprattutto le popolazioni locali. E’ stata posta molta attenzione anche sulla trasparenza: ad esempio, l’assegnazione delle terre non coinvolgerà più l’esecutivo, ma sarà gestita interamente da un nuovo organo, la National Land Commission.

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