Islam is a part of America

Con questa frase il presidente americano ha inteso lanciare al mondo islamico un messaggio di grande risonanza, impostando una strategia diplomatica che si vuole presentare come profondamente innovativa.
La domanda che quindi sorge spontanea leggendone il testo è se davvero questo storico documento rappresenti una svolta nella politica estera statunitense verso il Medio Oriente, l’Islam, l’Iran, il conflitto israelo-palestinese, il conflitto Afghano, l’Iraq, quel nodo di inestricabili problematiche politico-militari in cui gli Usa si sono ormai inseriti direttamente a partire dal 1991.
Obama ha espressamente affrontato sette problematiche.
Il tema dell’estremismo violento, identificato assai discutibilmente con Al Qaeda, gli ha dato modo di ribadire la propria determinazione a proseguire l’impegno americano alleato in Afghanistan e a confermare il disimpegno dall’Iraq. Sulla decisione di affrontare questo secondo conflitto, significativamente definito come una war of choice (una "guerra di scelta", mentre quella afghana sarebbe una guerra imposta agli Usa dall’11 settembre), Obama non ha tuttavia fornito nessuna interpretazione delle ragioni appunto di quella "scelta". Sarebbe stato interessante conoscere la sua opinione, per comprendere meglio quale sia oggi la prospettiva americana per sciogliere il nodo afghano-pakistano – giacché nel frattempo il conflitto ha germinato, estendendosi.
Sul secondo argomento, quello israelo-palestinese, il presidente Usa ha affermato che l’idea di due Stati è quella giusta ed ha dichiarato che "è giunto il momento per fermare gli insediamenti" israeliani in Cisgiordania. Una dichiarazione certamente importante, ma che, in assenza di una indicazione su quali potrebbero essere, in caso contrario, le reazioni americane, resta sospesa nel vuoto: proprio in questi giorni sappiamo che, in aperta sfida a questa posizione statunitense, gli Israeliani hanno ripreso la costruzione di insediamenti nella Valle del Giordano, cosa che non avveniva da un decennio almeno.
Sul terzo punto, quello delicatissimo dell’Iran, Obama ha semplicemente riaffermato l’esigenza che, per arrestare una proliferazione nucleare in Medio Oriente, "ogni nazione – incluso l’Iran, dovrebbe avere il diritto di accesso all’energia nucleare di pace purché adempia le condizioni del Trattato di Non Proliferazione Nucleare". Un’affermazione anche questa tutta teorica, giacché le amministrazioni americane sono da tempo al corrente del fatto che Israele dispone di un ragguardevole arsenale nucleare e non ha la minima intenzione di sottoscrivere quel trattato. E allora, cosa si sta proponendo concretamente all’Iran?
Col quarto, quinto e sesto tema, il presidente Usa ha ripreso i concetti di democrazia, libertà religiosa, diritti delle donne, in forme cui le amministrazione americane hanno da tempo immemorabile abituato il mondo. Anche qui si rimane tuttavia stupiti del fatto che, come buon esempio, venga espressamente citato il dialogo interreligioso promosso dal re saudita Abdullah, del monarca cioè di uno dei regimi più oscurantisti dell’intero Medio Oriente, di una monarchia confessionale che, con il costante supporto statunitense, ha fatto del wahabbismo, una delle visioni religiose più formalisticamente intolleranti della storia dell’Islam sannita, la forza traente del radicalismo islamico dalla Bosnia all’Indonesia, passando per il Sudan e l’Afghanistan. Utile per decenni all’anti-nazionalismo, all’anti-comunismo ed all’anti-sciismo dell’Occidente atlantico, ma certo non presentabile come un esempio di dialogo interculturale!
Obama ha poi concluso con un settimo punto, quello dello sviluppo economico, in cui è risuonato ancora una volta il messaggio dell’innovazione, della scienza e della cultura rivolte alla crescita, che sono una ben nota motivazione delle strategie di globalizzazione statunitensi, almeno dalla fine dell’Ottocento.
Se si deve trovare, nel leggere questo messaggio, un’impressione, essa è di uno specifico déja vu: pare di rileggere, adattati al contesto odierno, i famosi Quattordici Punti di Woodrow Wilson, un presidente che ha segnato la politica internazionale americana al punto che ad essa si sono ispirati e si continuano ad ispirare protagonisti diversissimi della storia americana, da Kissinger a Bush. Il wilsonismo si respira quindi anche a pieni polmoni nel discorso di Obama.
Ma l’Europa sa bene cosa sia il wilsonismo in quanto lo ha misurato a fondo sulla propria pelle. Basta leggere le memorie di qualche diplomatico italiano che fu presente a Versailles (per esempio il notevole L. Aldovrandi Marescotti, Guerra diplomatica: ricordi e frammenti di diario 1914-1919, A. Mondadori, Milano, 1940) per cogliere quanto questo colto e attento gentiluomo restasse inorridito dinanzi alla supponente arroganza con cui il presidente americano moralisticamente tracciava il quadro dell’Europa dopo l’"inutile strage" del 1914-18; spesso abilmente celando, dietro questo atteggiamento professorale, concreti interessi di carattere economico-politico. Sappiamo poi che siffatta riorganizzazione wilsoniana dell’Europa del 1919 è stata una delle non ultime cause del secondo terribile conflitto mondiale che ha travolto l’Europa ed il mondo nemmeno trent’anni dopo.
Anche dal discorso al Cairo di Obama si ricava l’impressione che gli artefici della potenza americana attraversino la nostra storia perfettamente consapevoli delle necessità e degli obiettivi del loro grande Paese, ma volutamente o involontariamente inconsapevoli di ciò cui gli altri popoli e le altre culture disperatamente anelano. Pur continuando a proclamare loro di essere portatori della libertà, della giustizia e della pace cui tutti aspirano.
È quindi sottilmente inquietante il fatto che questo presidente americano, che tanta aspettativa di cambiamento suscita nel mondo, sembri credere che basti il fatto di chiamarsi Barak Hussein Obama (quale pessimo gusto nel ricordare il nome dell’Hussein martire sciita, ma anche nel richiamare quel Saddam Hussein appeso per il collo davanti a un manipolo di telecamere come esempio di una condivisa giustizia arabo-americana…!), a stabilire una particolare fraternità con i popoli islamici, prescindendo da tutto quello che è accaduto nell’ultimo mezzo secolo di storia fra Occidente e Medio Oriente.
Ma ancora più sottilmente inquietante questa breve frase, questo slogan lanciato nel bel mezzo di un lungo excursus che, partendo dalla discussa teoria della modernizzazione dialettico-tecnologica che l’Islam avrebbe promosso in Europa agli albori del Rinascimento, giunge a vedere nel melting pot americano un esempio di eccellenza nell’integrazione culturale.
Islam is a part of America…
A questa stregua, dunque, anche l’Europa è una parte dell’America. Chiunque vi abbia inviato emigranti, spinti dalla miseria e dalla mancanza di alternative, potrebbe esserlo. L’interculturalità, la fratellanza e la pace saranno dunque possibili solo quando tutti saranno finalmente diventati, per scelta o per disperazione, "una parte dell’America"?
Nemmeno questa, dunque, è una grande novità: è il wilsonismo più puro e ruggente, che da un secolo ha mosso grandi passi nel mondo, portando gli Stati Uniti al trionfo, ma lasciando dietro di sé conflitti insolubili, fratture incomponibili, frontiere che dilaniano i popoli, prospettive di nuove povertà che si aggiungono alle antiche.
Non sappiamo se l’Islam sia disponibile a sentirsi una parte dell’America.
L’Europa è sicuramente molto ma molto di più. Ci auguriamo che, grazie al grande discorso di Obama, essa ne diventi oggi più consapevole.

Print Friendly, PDF & Email