La guerra di Bush: IL VIZIO OSCURO DELL’OCCIDENTE

Relazione sull’incontro con Massimo Fini avvenuto a Fano il 13 marzo 2003 e organizzato dal CLAR per la presentazione del suo volume: Il vizio oscuro dell’Occidente, manifesto dell’antimodernità.

Massimo Fini: “Questo mio volume si chiama “il vizio oscuro dell’Occidente” e porta come sottotitolo: “manifesto dell’antimodernità”. Sono due concetti distinti ma che si legano intimamente.

Questo “vizio oscuro” è per me il totalitarismo concettuale, ideologico e culturale dell’Occidente, appunto, la sua convinzione di avere il migliore dei modelli possibili e l’urgenza di esportarlo in tutto il mondo. Ciò è oggi tanto più insidioso perché tale modello si dichiara in realtà democratico e liberale e perché questa convinzione è, in larga parte, in buona fede.

La tendenza di fondo è quella di giungere ad un unico stato, ad un unico governo, ad un’unica polizia, ad un unico mercato mondiale, ad un unico tipo di individuo: il grande consumatore. Questa tendenza si sta concretizzando in modo ancora incompleto, ma la superpotenza egemone, gli USA, hanno intrapreso la via dell’incarnare in sé tutte queste caratteristiche. Questo meccanismo concettuale ed ideologico è tanto più paradossale perché la nostra cultura, la cultura greca da cui la nostra civiltà deriva, è stata la prima a riconoscere “l’altro da sé”, per cui l’altro è accettabile e legittimato solo nella misura in cui lo si può distinguere da noi.

Il panorama che stiamo illustrando si lega indissolubilmente ad un processo economico, cioè all’esportazione del modello, alla continua conquista di nuovi mercati. Da qualche anno tutto ciò viene chiamato globalizzazione economica, la quale però non inizia oggi e nemmeno dieci anni fà, ha una origine che viene da lontano e che parte dalla rivoluzione industriale, momento cruciale in cui si può dire cominci la storia moderna. C’è infatti una differenza sostanziale tra quello che Marx chiamava capitalismo commerciale e quello che io chiamo industrialismo: il capitalismo commerciale si basava sull’esistente, si trasferivano da una parte all’altra beni che già c’erano; l’industrialismo dilata invece enormemente quelle che erano le produzioni artigianali, e poi, grazie alle scoperte della scienza e alla tecnologia applicata, inventa nuovi prodotti e nuovi bisogni di cui fino a quel momento nessuno aveva sentito la necessità. L’industrialismo ha un dinamismo straordinario che la vecchia economia non ha mai avuto: deve sia conquistare nuovi mercati che immettere sul mercato nuovi prodotti, espandendosi geograficamente dal luogo in cui è nata, l’Inghilterra del XVIII secolo. Alla fine del ‘700 Inghilterra e Francia avevano già un unico mercato nazionale che assorbiva tutti i mercati regionali, nel 1870 tutti i principali paesi europei più gli Stati Uniti avevano completato la loro trasformazione in economie di mercato, monetarie e di consumo. Da questo momento i tassi di crescita del commercio, per questi paesi, diventano esponenziali.

Oggi, col crollo dell’Unione Sovietica e l’inglobamento della Cina nel libero mercato, quella che chiamiamo globalizzazione economica può dirsi giunta a completa realizzazione. In questa globalizzazione sono compresi, anche se in qualche modo trascinati, i Paesi del Terzo Mondo, i cosiddetti paesi in via di sviluppo. Se guardiamo alla storia degli ultimi 30 anni, ci rendiamo conto di come questi paesi siano stati devastati, resi, da poveri che erano, miserabili. C’è anche qui una differenza tra il vecchio colonialismo classico e il nuovo colonialismo. Il colonialismo classico invadeva territori e rapinava materie prime, ma poiché le due comunità, quella degli occupanti e degli occupati, rimanevano distinte, gli autoctoni continuavano a vivere come avevano sempre fatto, con la loro socialità, economia e tradizioni. Il colonialismo economico ha invece il bisogno di omologare queste genti e assimilarle alla nostra way of life, ai nostri stili di vita, alle nostre istituzioni, ai costumi, e soprattutto ai nostri bisogni. Questi mondi e queste popolazioni perdono così i propri punti di riferimento, vivono alla periferia dell’Impero e sono come degli sradicati in casa propria. Ciò spiega perchè, e questo vale particolarmente per il mondo islamico, ci si aggrappi agli unici valori che possono ancora garantire una identità, e che tali valori vengano declinati in maniera fondamentalista ed integralista. Se non capiamo che la reazione di questi mondi deriva dalla pervasività del nostro modello, non capiamo cosa è successo l’11 settembre e cosa dobbiamo fare adesso. Se pensiamo che l’unica reazione possibile sia quella delle bombe e della violenza, noi fomenteremo necessariamente altra violenza. Bin Laden, o quello che lui rappresenta, è l’ombra dell’Occidente: è una risposta fondamentalista e totalitaria ad altrettanto fondamentalismo e totalitarismo.

Il modello economico non ha solo distrutto i paesi terzomondisti, ma comincia ad attaccare paesi che terzomondisti non sono: Argentina, Brasile, Venezuela, Messico, e comincia anche ad incidere su paesi industrializzati in senso proprio come l’Italia. La crisi della Fiat si riverberà presumibilmente sull’intero Paese, e sta a significare che l’Italia sta passando dai beneficiari della globalizzazione economica, ai paesi vittime di questa globalizzazione. Se del resto la competizione è mondiale, il destino finale non può essere che quello di un gruppo ristretto, ristrettissimo, di paesi ricchi circondati da paesi poveri. Si realizzerebbe in questo caso l’ipotesi che Marx aveva indicato per un solo paese. Marx diceva che il capitalismo avrebbe creato, in un solo stato, dei ricchi sempre meno numerosi, al punto che per cacciarli via non sarebbe stata più necessaria una rivoluzione ma sufficiente qualche pedata nel sedere… questa profezia è fallita perché nel frattempo si è creato un consistente ceto medio che ha fatto da cuscinetto, e si è creato perché il mondo industrializzato usufruiva di tutte le rendite che derivavano dallo sfruttamento del mondo altro, ma adesso proprio il ceto medio è attaccato dalla globalizzazione anche all’interno dei paesi industrializzati. Questi sono i termini di quella che viene chiamata globalizzazione economica.

A fianco, corre parallelo un altro fenomeno chiamato mondialismo, un tema molto caro alla destra nei primi anni ’80, e che adesso è stato scippato dalla sinistra che cavalca il movimento no-global, tra l’altro in posizioni assolutamente contraddittorie. Il no-global internazionale è fondamentalmente antimodernista e antiprogressista, la sinistra è per definizione modernista e progressista… questo punto credo si dovrà chiarire negli anni a venire.

Il mondialismo può essere definito come la militarizzazione e la giuridicizzazione della globalizzazione economica, e su questo sono stati fatti passi avanti molto pesanti negli ultimi anni da quando è crollata l’Unione Sovietica: è cambiato in pratica il diritto internazionale vigente. Si è cominciato in Bosnia, a metà dei ‘90, stabilendo il principio inaudito (cioè letteralmente mai udito prima di allora) che i popoli non potevano più farsi le guerre da soli, ma doveva esistere una supervisione per giudicare se fossero legittime o meno e che decideva i vincitori e i vinti cambiando i verdetti sul campo. Si è proseguito con l’attacco alla Jugoslavia per il Kosovo, dove un gruppo di Paesi si è autoproclamato polizia internazionale e senza egida dell’Onu ma muovendosi come Nato (e contravvenendo anche a quel trattato perché la Nato è un’alleanza solo difensiva) ne ha aggredito un altro, violando tutti i principi internazionali della non ingerenza militare negli affari interni di un paese straniero. Il terzo passo è stato la guerra in Afghanistan, il quarto sarà questa guerra in Iraq (l’incontro è avvenuto una settimana prima dello scoppio della guerra, n.d.r.). Dunque è successa una cosa abbastanza straordinaria: noi occidentali che per decenni avevamo inalberato il pacifismo, dichiarato guerra alla guerra al punto tale che andavamo a fermarla un po’ ovunque, Somalia, Bosnia, Kosovo… una volta che siamo stati toccati con l’11 settembre, scopriamo che la guerra non è più il tabù dei tabù, non è più proibita e scomunicata, ma diventa necessaria, improrogabile, indefettibile. E addirittura il presidente del paese guida di questo modello, gli USA, elabora la teoria della cosiddetta guerra preventiva, che nella pur lunga e trafficata storia delle vicende umane non era ancora comparsa, poichè anche l’impero più espansivo e aggressivo dell’umanità, l’impero romano, aveva elaborato solo il concetto del “si vis pacem, para bellum” che non è ancora la guerra preventiva di Bush.

Questo, dunque, è lo stato delle carte per quanto riguarda l’espansione di questo straordinario modello di sviluppo. Il fatto è che il modello, presentato come il migliore di quelli possibili, non è affatto tale, anzi, è addirittura deleterio a giudicare da questi numeri: negli Stati Uniti, il paese di punta, il paese del benessere e della potenza, 566 cittadini su 1000 fanno uso abituale di psicofarmaci, cioè un americano su due non sta bene nel sistema in cui vive, non sta bene nella propria pelle. Se il suicidio è un indicatore di sofferenza non solo per la persona che lo pratica ma anche delle persone che gli stanno intorno, ebbene, riferendoci all’Europa pre-industriale del ‘600, vediamo che i suicidi erano 2,6 ogni 100mila abitanti, erano diventati 6,9 nel 1850, cioè ad un secolo dall’affermazione della rivoluzione industriale, oggi sono 20 ogni 100mila abitanti. Nevrosi ed ipertensione sono malattie che si diffondono a partire dall’800, la psicanalisi nasce solo agli inizi del ‘900 con la diffusione sociale di malattie come schizofrenia e paranoia.

Come mai il paese di Bengodi si è trasformato in questo incubo? Perché questo è un modello che si proietta ossessivamente verso il futuro, un modello così strutturato per cui non appena un obiettivo è raggiunto, bisogna inseguirne subito un altro, e poi un altro, e un altro ancora… all’infinito. Come i levrieri nel cinodromo che inseguono una lepre che non potranno mai raggiungere, così noi inseguiamo obiettivi irraggiungibili. L’essenza del modello è proprio questa: l’obiettivo serve solo per farci marciare. Von Mises, che è uno dei più eminenti e coerenti teorici del capital-industrialismo, lo dice chiaro: il garzone diventa operaio, l’operaio diventa capo-officina, il capo-officina diventa dirigente, il dirigente amministratore delegato, l’amministratore presidente, il presidente vuole essere quello che guadagna più milioni di dollari dell’altro… tutto ciò senza mai raggiungere un momento di pace o equilibrio. E questa non è una degenerazione del modello, questo “è” il modello. Facciamo un esempio banale: la nostra società tecnologica crea continuamente innumerevoli strumenti per guadagnare tempo… e non abbiamo mai tempo! E non lo abbiamo perché il tempo guadagnato lo impegniamo per creare nuovi strumenti che ci consentono di guadagnare altro tempo… allo stesso modo avrete sentito pronunciare tante volte da economisti, politici, sindacalisti, la frase: bisogna stimolare i consumi per aumentare la produzione. Se la guardate bene, questa frase è folle. Noi non produciamo più per consumare ma consumiamo per produrre, ormai il meccanismo non è più al nostro servizio ma siamo noi a servizio del meccanismo! Per lo scorso Natale, il nostro governo ha lanciato uno spot pubblicitario in cui si invitava ad acquistare per aiutare l’economia, come se noi dovessimo aiutare l’economia e non l’economia aiutare noi… E’ bene precisare che la critica che io la rivolgo all’industrialismo deve intendersi nel suo complesso, sia nella sua versione capitalista che nella sua versione marxista. Il mio pensiero è che queste sono due facce della stessa medaglia, sono figlie dello stesso fenomeno, la rivoluzione industriale, sono entrambe moderniste, progressiste, economiciste, hanno il mito del lavoro: per Marx il lavoro è l’essenza del valore, per i capitalisti è quel fattore che combinandosi col capitale produce il plusvalore. Prima della rivoluzione industriale il lavoro non era un valore, era una necessità: il nobile infatti non lavorava, l’artigiano e il contadino solo per quanto gli bastava, il resto era vita. In entrambe le versioni dell’industrialismo si ha una fiducia immensa nella scienza, nella tecnica: sarà l’industria, si pensa, a fare la felicità degli uomini, di tutti, secondo Marx, della maggioranza di essi, più realisticamente, secondo i capitalisti. Questo sogno orgiastico non si è mai avverato, né nell’una, né nell’altra versione. Io vedo capitalismo e marxismo come due arcate di un ponte che si sono sostenute insieme per un paio di secoli, e il crollo del marxismo prelude, non so in quali tempi, al crollo del capitalismo, se non altro per eccesso di espansione. Lo stesso Adam Smith, che pure era il capostipite del sistema liberale, si era reso conto del rischio di diventare schiavi del sistema produttivo, del resto il problema non sono certamente Marx o Smith, due geni, due menti che trovandosi di fronte a problemi nuovi, cercavano di capirli e interpretarli. Il problema è semmai che a secoli di distanza le loro analisi possono essere superate dai fatti… io dubito che se Smith o Marx vivessero nella nostra epoca, direbbero le stesso cose che dicono i loro epigoni attualmente…

Evidentemente, se l’economia è al centro del sistema, tutte le regole che la sorreggono sono valide, pertanto è valido il principio della produttività marginale del lavoro, ed è vero che se in un’azienda l’aumento di produzione è scarso o nullo, o i lavoratori in esubero vengono espulsi dall’azienda o l’azienda stessa si troverebbe espulsa dal mercato… ma cosa sarebbe successo in un periodo pre-industriale, se sul campo di una comunità di dieci persone si fossero resi conto che otto erano sufficienti per coltivarlo… avrebbero cacciato due membri della comunità perché “in esubero”, perché superflui? No, avrebbero ridotto proporzionalmente il lavoro e se lo sarebbero diviso, e il tempo così guadagnato lo avrebbero utilizzato per andare a corteggiare la futura sposa, per giocare a birilli o andare all’ostello… perché al centro di quelle società, com’è al centro di alcune società tradizionali che ancora non sono state devastate dal nostro modello, non c’era e non c’è l’economia, ma l’uomo! E c’era il complesso gruppo di elementi sentimentali, emotivi, religiosi e di altro tipo che componeva l’uomo, e di cui l’economia era solo una parte, tra l’altro marginale. E quindi, per farla breve, quello che dovremmo fare è una cosa semplice da dire ma difficilissima da fare, e cioè riportare l’uomo al centro della nostra vita, e rimettere economia e industria al posto marginale che loro spetta.”

DIBATTITO

Proponiamo alcuni stralci del dibattito che ha seguito l’intervento di Massimo Fini, e durante il quale lo stesso Fini ha risposto alle numerose e vivaci stimolazioni provenienti dal pubblico intervenuto alla serata.

Domanda dal pubblico: “Prima di tutto i miei sinceri complimenti per il suo libro e i suoi articoli. Volevo chiederle se il mondo che lei ha illustrato, un mondo dominato dal malessere, non sia nato con lo scientismo prima, si sia imposto con l’illuminismo e la rivoluzione francese, per poi continuare con la rivoluzione bolscevica. Io vedo in fondo a questi processi la stessa spasmodica ricerca della felicità, così come attestato dalla Costituzione degli Stati Uniti che garantisce addirittura il diritto alla felicità, e mi pare assurdo che un concetto impalpabile come la felicità possa diventare un precetto giuridico… allora mi chiedo se la via indicata dalla Chiesa cattolica, o almeno quella preconciliare, non abbia indicato una prospettiva migliore, poiché non prometteva la felicità su questa terra, e i singoli spazi di felicità che ognuno si poteva ritagliare erano qualcosa di certamente lieto ma “in più”. E allora qual è la risposta? Dobbiamo abolire la parola felicità dal nostro vocabolario, o quanto meno la felicità obbligatoria?”

Massimo Fini: “In effetti, uno dei più grandi errori psicologici commessi dagli illuministi fu quello di dichiarare, non tanto il diritto alla felicità, ma il diritto alla ricerca della felicità, anche se poi tale concetto presso l’opinione pubblica, allora come oggi, viene inteso prevalentemente come un vero e proprio “diritto” alla felicità. Dichiarare il diritto alla felicità, significa, ipso facto, decretare l’infelicità dell’uomo. È stato un grande errore. Certamente gli antichi erano stati più sapienti perché hanno sempre ammonito che la vita è soprattutto fatica e dolore, poi tutto ciò che viene in più è grasso che cola. Questo è stato quindi un errore dell’illuminismo. Tra l’altro, illuminismo e marxismo non sono gli iniziatori della vicenda, la vicenda è un meccanismo che si crea con la rivoluzione industriale, l’illuminismo la razionalizza, allo stesso modo il marxismo. Il dramma che stiamo vivendo oggi è che in realtà il meccanismo è sfuggito di mano anche a coloro che l’hanno innescato, a coloro che si illudono di controllarlo, è un meccanismo che va per conto suo, che noi non dominiamo per nulla. Anni fa per l’Europeo feci un’inchiesta su questo argomento: andai dal premio Nobel Carlo Rubbia per intervistarlo… lui non voleva sentir parlare di queste cose e mi dava del millenarista, però a un certo punto gli dissi: ma professore, se noi siamo costretti ad andare a questa velocità, e dobbiamo sempre accellerare, stiamo comunque accorciando il nostro futuro… lui allora divenne più morbido e disse questa frase che io ho poi spesso riutilizzato, e cioè che in effetti è vero: noi siamo su un treno a velocità folle e senza macchinista, non sappiamo se abbiamo già superato il punto di non ritorno, e anche qualora ci rendessimo conto che dobbiamo frenare, forse non saremmo più in tempo. Purtroppo è un meccanismo che ormai trascende il fattore umano: sarebbe bello che ci fosse una organizzazione tipo “Spectre” che tiene in vita tutta la faccenda, basterebbe un colpo di fucile sulla persona giusta e si risolverebbe… purtroppo non è così! Il meccanismo va avanti per conto suo… quelli che lo alimentano non sono spesso affatto convinti, soffrono quello che soffrono tutti gli altri, ma sono dentro il meccanismo e non ne possono sfuggire, o è comunque difficilissimo sfuggire. C’è una bella frase di Soros, uno delle più grandi menti finanziarie odierne, uno spregiudicato speculatore del mondo finanziario che ha abbattuto la lira all’epoca di Ciampi (e non ci voleva molto) ma ha fatto lo stesso anche con la sterlina, lui diceva: io ho un fondo e una ricchezza personale che sono tra le più alte al mondo, ma questo per me significa sempre più lavoro, sempre più stress, sempre più angoscia, allora mi sono chiesto se la ricchezza che avevo era al mio servizio… o non fosse piuttosto il contrario! D’altro canto, da quando Soros, rendendosi conto di questa follia, ha smesso di “correre”, ha perso milioni e milioni di dollari, perché o sei in pieno nel sistema o sparisci… Io credo che il mio libro abbia avuto successo, nei limiti in cui lo ha avuto, perché interpreta un disagio profondo che è in molti di noi. Un disagio che spesso non riusciamo a razionalizzare ma che sentiamo, che non riusciamo a capire fino in fondo, però lo sentiamo. Ci dicono che viviamo nel migliore dei mondi possibili, e noi non siamo felici, non siamo sereni… questo sentimento è trasversale, riguarda ceti abbienti e non, anzi, forse riguarda più i ceti abbienti, perché chi deve preoccuparsi della sussistenza ha altro a cui pensare… ricordo una vicenda che riguardava un pescatore esquimese, il quale viveva cacciando e pescando salmoni… scoprono il petrolio in quella zona, arrivano le multinazionali canadesi e americane, questo esquimese cambia vita e diventa impiegato in un supermarket nel settore surgelati. Ecco, quello è un uomo che ha perso ogni senso della sua esistenza, prima aveva una identità e i suoi atti avevano un senso, dei valori, poi diventa un esquimese che lavoro ad un banco di surgelati… è quanto meno grottesco! Altro esempio: nel mitico nord-est che io ho bazzicato abbastanza per lavoro, questo famoso disagio del nord-est deriva sì, dal fatto che le comunicazioni, le infrastrutture, non sono all’altezza, ma questa è la superficie del disagio… il malessere profondo è che lì lavorano 12-13 ore al giorno e non sono sereni… è appunto il tipo di vita che conduciamo a far sì che noi non siamo sereni anche quando stiamo nel benessere.

Per quanto riguarda il riferimento che lei faceva alla Chiesa cattolica… non so… io non sono cattolico, non sono religioso, quindi ne parlo da storico… ma mi pare che la Chiesa abbia fatto negli ultimi venti anni, e soprattutto col papato di Wojtila, degli errori clamorosi, e cioè invece di proporsi come luogo del sacro, ed è ciò di cui si sente la mancanza e l’esigenza, si è proposto come luogo della politica, e non è questo ciò che si cerca in una chiesa… per questo poi la gente si rovescia su fenomeni ben più poveri culturalmente (la fenomenologia dei vari maghi, oroscopi…), questo Papa, che pure ha una serie di valori forti, è riuscito a farli passare proprio per la loro parte più politica, e per l’utilizzo a tappeto dei metodi comunicativi tecnologici moderni, e questo fa sì che il messaggio più spirituale si veda poco o scompaia. In più devo dire che l’ecumenismo di Wojtila è funzionale e omologo alla globalizzazione economica, quindi non lo vedo assolutamente come un avversario di questo sistema.”

Domanda dal pubblico: “Mi chiedevo, visto che lei ha evidenziato la necessità di tornare all’uomo, di tornare a mettere l’uomo al centro dell’esistenza, come è possibile, di fatto, agire nel nostro tempo, e con quali strumenti?”

Massimo Fini: ”Io partirei col dire qualcosa sulla parola “sviluppo” che noi spesso colleghiamo a “economia” in una accezione prevalentemente positiva. Non sempre lo sviluppo è “positivo”… se ci pensiamo bene, anche un cancro è una forma di sviluppo… il problema è come se ne esce, e questa è la domanda più difficile alla quale non mi sottraggo anche se forse non sarebbe mio compito (come giornalista) fornire una risposta. Nel mio libro dico che quello che sorprende nella cultura occidentale, una cultura gloriosa dal punto di vista del pensiero, che ha prodotto pensatori straordinari da Eraclito a Platone, da Hegel a Nietzsche (è inutile che vi faccia un elenco), ebbene, sorprende che non ci sia più un pensiero che pensi la modernità, un pensiero che pensi se stesso. E questo a sua volta è un prodotto del tipo di vita che produciamo, un tipo di vita tale per cui non c’è più lo spazio per il pensiero. Nelle culture africane, alcune delle quali raffinatissime, checchè se ne pensi, il valore primario è il silenzio, in quanto permette il contatto profondo con se stessi e dunque portatore di pensiero, mentre noi siamo dentro a un meccanismo che non pensa più. Noi non siamo più in grado di reggere il silenzio, ormai applaudiamo anche i nostri morti quando escono le bare dalle chiese, una cosa che lascia esterrefatto chi come me ha qualche anno e soprattutto ricordi di altre cose… io ricordo i funerali di Fausto Coppi… e ricordo un italiano completamente diverso, estremamente dignitoso, belle facce, intense, e insomma… non si applaudono i morti, è un non senso!

Detto questo, certo, qualcosa in circolazione c’è, ci sono filoni di pensiero filosofico, soprattutto americani, poiché essendo l’America la guida del modello, è anche la prima a creare gli anti-corpi, poi anche alcune correnti di pensiero scandinave… hanno elaborato alcuni modelli alternativi che passano per un ritorno graduale e ragionato a forme di autoproduzione e autoconsumo, che a loro volta passano per un recupero sostanziale del rapporto con la terra. Faccio riferimento al bioregionalismo, ad esempio, che significa mettere insieme ecologismo e localismo, o al comunitarismo, una sorta di ritorno alle comunità, una sorta di feudalesimo senza feudatari. Naturalmente sono correnti marginali, e sono convinto che, anche se possono avere ragione alla lunga, non ci sarà tempo… noi corriamo ad una velocità tale che quello che succederà, non voglio essere pessimista a oltranza, sarà una implosione del sistema su se stesso… o perché si sarà impadronito di tutto e come l’impero romano giunto al massimo della sua espansione si disintegrerà, oppure per questioni ecologiche, perché i danni profondi provocati da questo modello sono tali da intaccare e sconvolgere i nuclei profondi del nostro esistere, oppure ancora, e ne stiamo vedendo lo svolgimento in queste settimane, in questi mesi, per una sorta di impazzimento del nostro delirio di onnipotenza.”

Gaetano Sinatti, consigliere del CLAR, tra i promotori dell’incontro: “Sono rimasto molto colpito da questi suoi riferimenti al problema del pensiero, credo che questa sia la chiave affinchè dall’antimodernismo si possa arrivare ad un superamento della modernità. Volevo però riportare il tema alle questioni su cui il CLAR si sta confrontando da mesi, cioè all’attualità collegata all’aspetto storico-politico e all’imminenza di questa situazione bellica che pesa in maniera abbastanza forte su tutti. In un lavoro svolto dal CLAR che ha dato luogo ad un incontro abbastanza significativo (si fa riferimento al convegno “100 anni di globalizzazione”, gli atti sono pubblicati su questo sito nella sezione “Conferenze” n.d.r.), non fosse altro perché avvenuto pochi giorni prima l’11 settembre (specifico: in modo del tutto casuale!), parlando di globalizzazione ci siamo posti il problema di quanto in realtà si possa parlare in maniera unitaria di “occidente”. Noi abbiamo la presunzione di ritenere che in realtà il vessillo dell’occidente in quanto tale, anche nei suoi aspetti devastanti, anche sul piano interiore a cui lei faceva riferimento, è piuttosto una caratteristica del mondo anglosassone, e che quindi anche in questo momento sia importante cercare di capire il ruolo specifico che ha svolto e che svolge in questo senso il mondo anglosassone. E da questo ci siamo posti una domanda, che in qualche modo riporto al nostro oratore, e cioè se in qualche modo anche l’Italia debba necessariamente essere ricondotta ad un concetto di “occidente”. Io, personalmente, su questo credo che, ragionando, si possa in qualche modo intravedere, non direi delle vie di fuga, ma sicuramente della alternative possibili. Vorrei essere più ottimista di quanto non sia stato Fini, anche perché credo ci sia bisogno di dare delle indicazioni su quelle che sono delle strade percorribili. Sarebbe fondamentale suscitare un dibattito nel Paese, proprio sul fatto di quanto e fino a che punto l’Italia possa essere considerata storicamente appartenente all’occidente. In una ipotesi di suddivisione culturale dell’Europa, la zona atlantica è quella che attraverso le imprese coloniali, la industrializzazione, le grandi rivoluzioni borghesi, ha creato l’Occidente come noi lo conosciamo con i suoi connotati militari ed economici, e dall’altra parte c’è un Oriente in qualche modo segnato da una continuità con l’Impero bizantino e, quindi, anche con una certa visione religiosa dei rapporti statali. Io credo che questa fascia centro-europea che va dal nord Europa fino all’Italia, e che peraltro ha anche delle connotazioni comuni, per quanto anche grosse differenze, sia difficilmente riconducibile all’occidente in senso proprio. Questo è interessante perché, devo dire, mi sta colpendo molto la situazione attuale: non credo sinceramente che la posizione di Francia o Russia possa realmente fermare la macchina americana (ci si riferisce allo scontro diplomatico prima dello scoppio della guerra in Iraq, n.d.r.), ma quello che colpisce di questi giorni è che forse per la prima volta assistiamo alla effettiva rottura e all’effettivo superamento di quegli equilibri storici venuti fuori dalla seconda guerra mondiale. Paradossalmente, all’apice del “one world”, che era una delle aspirazioni dei vari Roosevelt, se ricordo bene, nel momento in cui si era arrivati quasi vicini al suo compimento, l’Occidente rischia in qualche modo di frammentarsi. E questa contrapposizione tra Francia e Gran Bretagna è una tipica dinamica della globalizzazione a partire dalla guerra dei sette anni, ed è, secondo me, un elemento di superamento della seconda guerra mondiale molto più della caduta del muro di Berlino. In questa direzione si potrebbe ripensare un ruolo dell’Italia come non appartenente all’occidente, e piuttosto come una civiltà alternativa, un modello che si ricolleghi al mondo rinascimentale e, se vogliamo, al mondo neoplatonico, modelli in cui era fondamentale la centralità del pensiero e dell’essere umano. Non è un caso che il trionfo politico dell’occidente sull’Atlantico abbia schiacciato politicamente, anche se fatto rivivere formalmente, questo tipo di cultura. Ecco, per concludere, la domanda è se l’Italia, nonostante la sua debolezza intrinseca e i suoi limiti, se ripensasse con quella forza di pensiero che ci viene richiesta in maniera molto esigente dai tempi, non possa avere ancora qualcosa da dire al futuro del mondo.”

Massimo Fini: “Sì, io dividerei la risposta in due parti, da un punto di vista economico strutturale e da un punto di vista politico. Per il primo aspetto, non c’è nessuna differenza tra l’Europa, l’Italia e gli Stati Uniti, viviamo nello stesso modello di sviluppo e facciamo le stesse cose. Quando le nostre aziende vanno in Africa, piuttosto che altrove, fanno le stesse cose che fanno gli altri: da questo punto di vista il modello è omogeneo in tutto il mondo industrializzato.

Dal punto di vista politico, invece, sono molto d’accordo con lei: già dalla caduta del Muro di Berlino, l’Europa avrebbe dovuto rendersi conto che l’alleanza con gli Stati Uniti non era più necessaria. Poteva avere senso per un deterrente atomico che servisse a contrastare eventuali pretese egemoniche dell’Unione Sovietica, ma oggi l’Urss non c’è più, il nemico è diversissimo e non si può combattere con l’atomica, a meno di rischiare di tirarsela tra i piedi, quindi la Nato e l’alleanza atlantica hanno perso di attualità e questo nodo doveva essere affrontato già nel ‘91.

Le guerre, come questa annunciata, avranno anche degli aspetti di chiarificazione (aldilà del fatto che poi si giocano sulla pelle di migliaia di bambini iracheni) sotto alcuni aspetti: primariamente è che la Nato non ha più alcuna ragion d’essere; secondariamente che l’Europa, per la prima volta, attraverso due Stati importanti come Francia e Germania, rialzi la testa. Naturalmente si è detto che questi due hanno i loro interessi particolari… è fuori di discussione, anche gli Usa ce li hanno, ma c’è una bella differenza: da una parte ci sono interessi che spingono verso la pace, dall’altra interessi che spingono alla guerra… non mi pare la stessa cosa! Eppoi, il problema è un altro, e cioè che Francia e Germania si sono accorte che se lasciano agli Usa altre rendite di posizione, questi diventano i padroni del “monopoli” e non ci sarà assolutamente più spazio in futuro per una autonomia europea. È estremamente miope oggi, per ragioni campanilistiche o altre più sciocche, essere contro questa alzata di testa dei francesi.

Altra cosa che chiarirà questa guerra è la posizione dell’Inghilterra e quindi dell’Unione europea. Cioè, se l’Inghilterra rimane quella che è da 40 anni, l’alleato inossidabile degli Usa, l’Europa unita politicamente non potrà mai esistere effettivamente, e questo finchè gli inglesi manterranno i piedi su due staffe. Anche questa partita però non è persa del tutto, l’atteggiamento americano di questi tempi è estremamente aggressivo al punto da fargli dire di poter attaccare l’Iraq anche senza di loro. Questo potrebbe convincerli anche (visto che tra l’altro gli è rimasto sul gozzo che in altri tempi, quando inglesi e francesi volevano mantenere il controllo del canale di Suez, intervenne l’America a dirgli: no, non se ne fa niente) a entrare realmente in Europa. E allora la cosa potrebbe farsi interessante perché la Gran Bretagna è un grande paese ed è atomicamente armato.

La mia formula, da tempo, per quello che vale, è, in merito a ciò che si può fare qui ed ora: Europa unita, neutrale, armata nuclearmente, autarchica. Naturalmente nuclearmente armata non per offendere ma per non dover dipendere da altri per la nostra difesa. Quello che a me interessa molto rispetto a quanto si diceva anche precedentemente, è il concetto di Europa autarchica: questo concetto ovviamente non potrebbe rifarsi a vecchi concetti autarchici, come quelli di Mussolini, per intenderci, quell’autarchia oggi non è più immaginabile. Però d’altro canto l’Europa ha capacità, know how, demografia, risorse sufficienti per poter essere tale. Naturalmente questo avrà dei prezzi, soprattutto per i ceti medio-alti, nel senso che alcuni beni che adesso si hanno, non sarebbero più raggiungibili. Però, si avrebbero dei vantaggi: se per effetto della globalizzazione un operaio di Taiwan viene pagato con un piatto di riso anche un operaio di qui dovrebbe essere pagato con l’equivalente, o se gli Stati Uniti non hanno il welfare, anche gli europei lo devono smantellare, o sei i giapponesi per loro cultura samurai lavorano 20 ore al giorno, allora anche noi dobbiamo fare altrettanto… ecco, l’autarchia farebbe saltare tutti questi meccanismi, e badate bene, non è la luna, non è qualcosa di utopico e irraggiungibile, ma è un discorso politico praticabile da subito.

Detto questo… diciamo qualcosa anche dell’Italia, di questo governo, perché sono riusciti a cancellare nel giro di due/tre settimane, due vocazioni storiche dell’Italia: la vocazione mediterranea ed europea. Per quanto riguarda la prima… io sono stato antidemocristiano tutta la vita, ma bisogna ammettere che quei governi erano riusciti, pur in una condizione di alleanze internazionali difficilissima, a fare una politica di amicizia e buone relazioni con i paesi arabi e musulmani. E per una ragione molto semplice: questi popoli noi li abbiamo sull’uscio di casa, non a 10mila chilometri come gli americani. Questa vocazione è stata cancellata.

Per quanto riguarda l’altra, l’idea di Europa nasce da tre paesi: la Germania di Adenauer, la Francia di Monnet e Schuman, l’Italia di De Gasperi. Noi ci stiamo mettendo contro Francia e Germania, il ruolo che sta recitando adesso l’Italia è un ruolo, aimè, contrario alla sua storia e autolesionista. Per la verità non è la prima volta, la guerra che la sinistra (con l’entusiastico appoggio della destra) è andata a fare contro la Jugoslavia, era una guerra contro l’Europa e in particolare contro l’Italia. Possiamo anche citare i profondi legami che abbiamo con la Serbia, che risalgono all’alleanza della prima guerra mondiale, a rapporti politici e storici per cui a Belgrado si pubblicava un giornale chiamato Piemonte, come omaggio alla lotta di indipendenza italiana in cui vedevano un modello per la loro. Noi non abbiamo mai avuto contenziosi con i serbi, semmai con i croati… eppoi è autolesionista per una ragione molto semplice, la Jugoslavia forte era un gendarme nei Balcani. Ora, essendo ridotta ai minimi termini, sgangherata, occupata di fatto, crescono tutta una serie di organizzazioni criminali che si mescolano a entità parastatali (si chiamino Bosnia o Montenegro o Kosovo o Albania) e che vanno a fare traffici e affari con il loro paese vicino più ricco: l’Italia! Noi abbiamo fatto una guerra contro noi stessi, e in generale, l’Europa ha fatto una guerra contro se stessa, col pretesto dell’ingerenza umanitaria. Ecco, io però credo che questa fase sia finita, perché la gente alla fine le vede queste cose, gli ultimi dieci anni sono stati una sequela di guerre: Golfo, Somalia, Bosnia, Jugoslavia, Afghanistan, Iraq… anche se Saddam Hussein è il più antipatico di quelli citati… alla fine la gente capisce! Del resto vorrei sapere come gli intellettuali giudicherebbero Saddam se lui avesse: messo 250mila uomini al confine di un altro stato, dichiarato di volerlo invadere, “bombardicchiato” un giorno sì e l’altro pure da dieci anni, preteso che si disarmasse nel momento stesso in cui si accinge ad attaccarlo, tirasse bombe dimostrative di potenza mostruosa (tra parentesi le hanno usate in Afghanistan per catturare un uomo, come sparare ad una mosca con un cannone, e poi non lo hanno nemmeno preso)… ebbene si direbbe che questo è un pazzo e un criminale! Invece di Bush questo non si dice ovviamente… le guerre per lo meno servono a mutare percezioni, a far capire cose che prima sfuggivano.

Domanda dal pubblico: “Non pensa che l’11 settembre possa essere accomunato a Pearl Harbor, quando gli americani sapevano dell’attacco anticipatamente e non fecero nulla, per avere poi un pretesto ed entrare nella seconda guerra mondiale?”

Massimo Fini: “Mi sembra che lei stia proponendo l’ipotesi che gli americani si sono fatti l’11 settembre da soli… no, io non lo penso, e comunque non ho elementi per avvalorare questa tesi. Piuttosto sposterei l’obiettivo dalle ricostruzione più o meno dietrologiche per parlare di alcuni dati di fatto, e cioè su come gli americani hanno vissuto gli attentati dell’11 settembre. Ebbene, l’opinione pubblica e gli intellettuali, avevano due tipi di risposte possibili. Da un lato porsi la domanda, e questo è accaduto per una minoranza, “ma perché ci odiano così tanto?” per cominciare così una profonda riflessione critica su se stessi e sul rapporto della superpotenza americana col resto del mondo. Purtroppo la risposta della stragrande maggioranza è stata quella di cavalcare l’onda emotiva derivante dall’attacco per portare avanti questo delirio di onnipotenza che ha condotto alla guerra in Afghanistan, che sta portando la guerra in Iraq, poi in Iran, e Siria e chissà dove… i temi di fondo di queste campagne belliche sono identici: la conquista, il petrolio, il riposizionamento nel Medio Oriente… insomma, per dirla semplicemente: una politica di potenza. Dal mio punto di vista, ciò che più mi ripugna dell’intera vicenda, è una tragica ipocrisia di fondo. Mentre un tempo esisteva la politica delle potenze e delle cannoniere, per cui le potenze portavano le loro corazzate e dicevano chiaramente ai riottosi: o fate come diciamo noi, o vi spacchiamo in quattro… adesso invece politiche di pura potenza sono mascherate dietro questioni etiche, di diritto, o presupponendo che da una parte ci sia il bene e dall’altra il male. Questo a me particolarmente ripugna: l’ipocrisia, il doppio pesismo continuo e costante. Questo alla fine l’opinione pubblica lo sente, perché è un continuo violentare la logica, la nostra stessa logica. Poi, il conquistare il petrolio o altro, si lega al discorso di fondo che io faccio, cioè che, se noi continuiamo con questo modello, abbiamo necessariamente bisogno di aggredire in qualche modo gli altri paesi, e forse riducendo il nostro modello non avremmo più questa necessità. Tanto più che non è sempre vero che gli altri vogliono il nostro modello, non tutti lo trovano così attraente. Per farvi un esempio, quando anni fà esisteva ancora il G7, in contemporanea ad esso si riunivano anche i sette Paesi più poveri del mondo, e stilavano un comunicato in cui dicevano: per favore, non aiutateci più! Insomma si erano resi conto che i nostri aiuti sono dannosi anche quando sono fatti in buona fede, sono tali da disgregare la loro storia, la loro economia, la loro società.”

Domanda dal pubblico: “Sono rimasto colpito dal suo auspicio per uno sviluppo autarchico delle future società. Non crede che questo sarebbe un ostacolo per il benessere e un freno per la naturale propensione dell’uomo a migliorare la propria esistenza come ha sempre cercato di fare nel corso di tutta la sua storia? E poi un’altra questione: lei dice che Italia e GB hanno diviso l’Europa, non potrebbe dirsi con la stessa convinzione che sono state la Francia e la Germania a dividerla? La questione potrebbe leggersi in entrambi le direzioni…”

Massimo Fini: “La domanda è molto interessante… cominciamo dalla prima parte. Se si ragiona in termini prettamente economicistici, lei ha perfettamente ragione, se il fatto economico è quello determinante, può essere che i benefici e i costi si equivalgono… anche se ciò non è vero all’interno di tutti i paesi terzomondisti, qualsiasi funzionario della cooperazione internazionale potrebbe dirle che l’Africa è stata distrutta proprio da questo modello di sviluppo economicista, l’Africa stava molto meglio quando si aiutava da sola. Ma lasciamo perdere il Terzo Mondo… parliamo del nostro. In fondo si potrebbe dire che un “quantum” di infelicità c’è sempre stato e noi lo addebitiamo adesso a questo modello, ma in realtà è cosa di sempre: c’è del vero in questo. Però c’è dell’altro. Von Mises, interpretando il capitalismo dice: non è bene accontentarsi di ciò che si ha. Come lei diceva, in fondo l’uomo è sempre stato portato a questo, ma non sempre è stato così. Precedentemente l’uomo aveva il concetto di una società in equilibrio piuttosto che in espansione. E lei mi darà atto che nel momento in cui l’uomo non si accontenta di ciò che ha, crea di fatto una grossa insoddisfazione: se ciò che non si ha è sempre davanti a noi, noi non raggiungiamo mai la soddisfazione. È vero: la scienza, la conoscenza, sono insite nell’uomo, l’uomo è natura e cultura. La conoscenza però non sempre è andata nella direzione di conoscenza acquisitiva di “beni”, per secoli la conoscenza è stata tutt’altra cosa, magari anche conquista e viaggi, ma non è stata sempre l’accumulo di beni e di cose. Una società che si organizza intorno al libero mercato, cioè allo scambio di oggetti, secondo me non è in grado di produrre valori. I valori sono importanti, non per la loro oggettiva esistenza, in fondo sono illusione anche essi, ma “anche le illusioni sono realtà”. L’uomo ha bisogno di illusioni, cioè di valori. Purtroppo il laicismo, l’illuminismo, il pensiero nato dalla rivoluzione industriale, non ha prodotto valori, ha prodotto un metodo, la democrazia, ma non ha saputo riempirlo di valori. Senza valori, noi non riusciamo a sfangare questa fatica di vivere… si è visto molto bene nell’ultima guerra, quella afghana: da una parte c’erano uomini con i loro valori, giusti o sbagliati che fossero, che potevano essere quelli dei Talebani o degli uomini di Massud, dall’altro noi proponevamo il nulla, in Occidente non c’è più nessuno disposto a sacrificarsi per qualcosa per cui valga la pena. Posto che una parte di vero c’è nella sua domanda, noi abbiamo creato una società in cui l’esistenza dell’individuo è molto più difficile e alienata. Le società preindustriali erano sicuramente più dure dal punto di vista della fatica fisica, ma erano anche più armoniche. Sono concezioni molto diverse di cui noi facciamo fatica a cogliere le differenze perché siamo costantemente proiettati verso l’economia. Ma non è sempre stato così né qui né altrove. Un aneddoto che mi riguarda personalmente: anni fa ero in Nuova Guinea per l’Europeo, e mi ero fatto ospitare da un padre missionario, una bravissima persona. Lui stava presso una tribù, e il suo problema in quel momento era di dare loro una mietitrebbia che questa popolazione non voleva. Lui non riusciva a capacitarsi di come questo fosse possibile, non capiva come questi rifiutassero uno strumento che faceva in due ore il lavoro che una famiglia avrebbe fatto in due settimane. In realtà il capo della tribù gli diceva: per noi le cose vanno bene quando sono in equilibrio… la tua mietitrebbia rompe questo equilibrio e noi non la vogliamo. Lei capisce che sono due visioni del mondo completamente diverse. Ora io non dico che la nostra sia da buttare. Dico prima di tutto che non è da applicare con la coerenza omicida con cui si è fatto finora, e poi che elementi di dubbio sul nostro modello dovremmo averli anche tenendo conto delle obiezioni di fondo che lei ci ha presentato.

Sulla spaccatura dell’Europa… vede, stare a giudicare sul chi abbia spaccato prima o dopo… in fondo conta poco (anche se personalmente ritengo che il primo strappo è stato fatto dagli inglesi), aldilà di questo io noto che sono due spaccature completamente diverse: la Spagna e la Gran Bretagna l’hanno spaccata per inginocchiarsi davanti agli Stati Uniti, la Francia e la Germania per dichiarare una autonomia europea, quindi aldilà di chi è stato il primo, è una cosa molto diversa.”

Domanda dal pubblico: “Lei non crede che questo modello di sviluppo, grazie alla tecnologia, al progresso, possa creare gli anticorpi per riparare i danni fatti? Poi, io ho sempre davanti agli occhi l’immagine della statua della libertà, un simbolo di valori occidentali che ci appartengono profondamente, e in nome dei quali gli americani sono venuti a liberarci dalla tirannia. Se non lo avessero fatto loro… chi lo avrebbe fatto? I russi, i cinesi?”

Massimo Fini: “Io non ho fiducia nella tecnologia… ogni problema che risolve ne apre altri dieci… è una progressione esponenziale a cui non mi affiderei mai, se non altro per il semplice fatto che le crescite esponenziali esistono nei modelli matematici ma non si danno in natura. Guardate che questo lo sanno bene anche i nostri governanti, fanno solo finta di non saperlo, tanto la cosa non li riguarda, se la vedranno i posteri… del resto diceva Oscar Wilde: chi se ne frega dei posteri, cos’hanno mai fatto per noi? Il problema è che stiamo andando ad una velocità tale che i posteri stiamo diventando noi stessi! È una cosa che non toccherà l’umanità tra cento anni, è una cosa che ci tocca già, qui e ora. Vede, io, come dicevo, penso che l’uomo sia natura e cultura, insieme, e non si tratta assolutamente di abbattere la parte “culturale” dell’uomo, al contrario, si tratta di ritrovare un equilibrio armonico tra questi due poli, entrambi fondamentali nell’essere umano. Attualmente la parte artefatta, artificiale, chiamiamola culturale, cioè la protesi che ci siamo creati con invenzioni e creazioni meravigliose, è troppo espansa rispetto la parte naturale e quindi schiaccia questa parte ed è all’origine della nostra sofferenza.

Per quanto riguarda la statua della libertà… mi scusi ma poteva risparmiarmela, perché, che noi si debba ancora stare qui a pagare il fatto che gli americani sono venuti in Europa a salvare la nostra libertà, e non è affatto vero perché sono venuti per i loro propri stralegittimi interessi, ma che noi dopo 50 anni… le risponderò con le parole della Littizzetto: ma quando scade il mutuo??? Basta! Sicuramente bisogna avere una memoria storica, di questo come dell’olocausto, ma insomma, i problemi oggi sono altri, i nazisti se ci sono, sono altri, i dittatori sono altri. Che gli Stati Uniti siano, per sole ragioni obiettive, un paese imperialista non si può negarlo, così come fa offesa all’intelligenza di chiunque pensare che l’Iraq di Saddam Hussein sia un pericolo per la pace e la sicurezza del mondo e dell’Occidente. Insomma… la statua della libertà sarà una bellissima cosa ma pure noi abbiamo diritto alla nostra libertà!”

Domanda dal pubblico: “Esiste ancora un ruolo per gli “intellettuali” in questa società? e cosa ne pensa di quelli italiani?”

Massimo Fini: “Ma di chi vuole che le parli… Panebianco? Galli della Loggia? …forse è meglio lasciar perdere… guardi, non è un fatto solo italiano, mi creda, forse gli intellettuali italiani (parlo in generale, ovviamente) sono più vili e opportunisti di altri, ma è un fatto europeo, occidentale: sono sparite le grandi figure che danno gli orientamenti. Anticamente questo ruolo era detenuto dai Padri della Chiesa, dai grandi filosofi, in epoca più recente questo ruolo è stato incarnato dai cosiddetti “maestri pensatori”, possiamo citare Thomas Mann in Germania, Croce in Italia, Bertrand Russell in Gran Bretagna, Sartre e Camus in Francia… l’ultimo da noi credo sia stato Pierpaolo Pasolini. Poi questa figura scompare. Non tanto, io credo, per sua colpa, per colpa o debolezza caratteriale di alcuni personaggi, scompare in realtà perché ha perso la sua funzione: una uscita di Alba Parietti ha oggi più potere di qualunque produzione di Norberto Bobbio o di altri, il potere della televisione fa sì che oggi, chi dà le categorie non sono certo gli intellettuali ma la genìa dei vari Costanzo, Santoro, Vespa… la quale, con tutto il rispetto, non ha grandi orizzonti. Costanzo è uno straordinario battutista (almeno fin quando è rimasto in vita…), ma il suo orizzonte culturale, diciamolo, non supera la Garbatella… la potenza del mezzo televisivo è tale da imporre la presenza di queste tipologie… anche se ci fossero intellettuali che lavorano seriamente (e magari in qualche enclave o retrobottega ne rimane qualcuno) questi non avrebbero la possibilità di uscire dal ghetto. Prendiamo un settore “puro” come quello della poesia, puro nel senso che in questo ambito praticamente non esiste il commercio, ebbene, in Italia ci sono grandi poeti, ma chi li conosce? Non contano nulla purtroppo!”

Massimo Fini: Il vizio oscuro dell’Occidente. Manifesto dell’Antimodernità, Marsilio, Venezia 2002, pagg.69, € 6,00

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