La strategia israeliana e Gaza

Mentre perdura l’offensiva israeliana nella Striscia di Gaza, è utile fare il punto su alcuni dati di fatto che consentono una lettura degli avvenimenti in Terra Santa significativamente diversa rispetto a quanto media italiani e internazionali hanno raccontato e continuano a raccontare. Crediamo infatti che il solo modo per contribuire ad una pace giusta in Medio Oriente sia quello di favorire la comprensione della realtà, sfrondandola da propaganda e manipolazioni mediatiche.

Un aspetto fondamentale, emerso da varie convergenti testimonianze, fino ad essere oramai seriamente documentato, riguarda il presunto fallimento dell’intelligence israeliana nel prevedere il famigerato attacco terroristico dello scorso 7 ottobre. Una prima voce significativa è circolata quando l’americano New York Times, il 30 ottobre scorso, nel ricostruire la “sorpresa” che lo Shin Bet (servizio segreto militare israeliano) avrebbe subìto, evidenzia un fatto piuttosto singolare:

«l’Unità 8200, agenzia israeliana che si occupa di monitorare le comunicazioni radio nemiche, aveva smesso di intercettare quelle di Hamas un anno prima, poiché lo riteneva uno spreco di forze. Secondo tre funzionari della difesa israeliana, fino quasi all’inizio dell’attacco, nessuno ha ritenuto che la situazione fosse abbastanza grave da dover svegliare il primo ministro Benjamin Netanyahu».

La notizia passa ovviamente inosservata presso i media italiani, votati alla tutela ad ogni costo, soprattutto a quello della verità, dell’immagine dello Stato d’Israele presso la nostra opinione pubblica. Ma, ecco che, non molti giorni dopo, si aggiunge un’altra notizia ancora più sorprendente, riferita dal canale televisivo israeliano N12. Il 23 novembre, il Jerusalem Post riassume così il servizio dell’emittente:

«Una giovane ufficiale israeliana dell’Unità d’élite dei servizi segreti 8200 ha informato del piano di Hamas di infiltrazione di massa, ed è stata ignorata dai suoi comandanti, ha riferito N12 giovedì sera. L’ufficiale afferma di aver informato, negli ultimi dodici mesi, di uno scenario che prevedeva un’incursione di massa da parte di Hamas, prefigurando quanto accaduto il 7 ottobre. L’ufficiale si è rivolta ai suoi superiori, ma essi non hanno fatto nulla. “Te lo stai immaginando”, le avrebbero detto i suoi superiori, citati da N12.

La settimana scorsa, il programma Weekend News ha pubblicato nuove testimonianze di osservatori che hanno prestato servizio vicino al confine di Gaza. Nelle loro testimonianze, raccontano come per mesi abbiano ripetutamente messo in guardia sui cambiamenti che vedevano sul campo, che richiedevano un’attenzione speciale e rappresentavano dei segnali d’allarme. Secondo loro, avrebbero riferito ai superiori, c’erano sessioni di addestramento, anomalie e preparativi vicino al confine.

Tra le altre cose, hanno narrato che sempre più persone, che non avevano mai visitato questa zona, all’improvviso vi si recavano; contadini, che prima venivano ogni giorno a lavorare i campi, all’improvviso non venivano più sul posto, ed erano sostituiti da altri, e notavano soprattutto un’altra cosa, che ha fatto suonare un campanello d’allarme: quegli osservatori si rendono conto di non essere ascoltati, e che non si tiene alcun conto di quello che stavano vedendo.

C’è stato chi ha deciso di allertare uno degli alti comandanti del settore, e questa è la risposta che ha ricevuto: “Non voglio più sentire queste sciocchezze. Se mi seccate ancora con queste cose, mi farete finire sotto processo”».

Ce n’era abbastanza per cominciare a mettere in discussione la comoda teoria dell’impreparazione dei servizi israeliani – che fra l’altro ricorda molto da vicino quanto venne detto ai tempi dell’attacco dell’11 settembre 2001, a proposito dei servizi statunitensi: quando poi si è appreso che invece i terroristi, cui si è attribuito l’attacco alle Twin Towers, erano invece da tempo sotto controllo, e costantemente monitorati.

Ancora una volta è il New York Times a ricevere, evidentemente da una fonte qualificata non convinta che la storia sia come la racconta il governo israeliano, informazioni che rendono ancora più evidente che le cose sono andate in modo completamente diverso rispetto alle ricostruzioni ufficiali.

Il 30 novembre, Ronen Bergman e Adam Goldman, giornalisti non sospettabili di atteggiamenti anti-semiti, a quanto pare non convinti della veridicità del racconto ufficiale dei fatti, pubblicano un lungo reportage. Da esso in sostanza apprendiamo che Israele conosceva da oltre un anno, in tutti i suoi dettagli, il piano di quaranta pagine di Hamas, denominato dagli israeliani Walls of Jericho (“Mura di Gerico”): piano che prefigura esattamente quello che poi è stato messo in atto da Hamas il 7 ottobre.

Non basta: tra i molti dettagli forniti dal giornale nordamericano, troviamo che già da molto tempo vi erano agli atti dei servizi dello Stato ebraico informative su possibili azioni di questo tipo progettate da Hamas. Lasciamo quindi ancora una volta la parola al quotidiano Usa.

«Nel settembre 2016, l’ufficio del ministro della Difesa ha compilato un memorandum top secret basato su una versione molto precedente del piano di attacco di Hamas. Il memorandum, firmato dall’allora ministro della Difesa, Avigdor Lieberman, affermava che un’invasione e la presa di ostaggi avrebbero “portato a gravi danni alla coscienza ed al morale dei cittadini di Israele”».

Questo memorandum, di cui il Times ha potuto prendere visione, afferma che Hamas aveva acquistato armi sofisticate, disturbatori GPS e droni. Inoltre, afferma che Hamas aveva aumentato la sua forza di combattimento a 27.000 uomini, una crescita di 6.000 uomini in due anni. Hamas sperava di raggiungere le 40.000 unità entro il 2020, si legge nella nota.

L’anno scorso, dopo che Israele ha ottenuto il documento sul piano Walls of Jericho, la divisione di Gaza ha redatto una propria valutazione di intelligence su quest’ultimo piano di invasione. Hamas aveva “deciso di pianificare un nuovo raid, senza precedenti per la sua portata”, hanno scritto gli analisti nella valutazione esaminata dal Times. Secondo questa valutazione, Hamas intendeva effettuare un’operazione di inganno seguita da una “operazione su larga scala”, con l’obiettivo di sopraffare la divisione. Ma la divisione di Gaza si riferiva al piano come a una “bussola”. In altre parole, sosteneva che Hamas sapeva dove voleva andare ma non ci era ancora arrivato».

Del resto, fin da prima, addirittura l’11 ottobre scorso, la BBC inglese aveva riportato notizie e commenti davvero significativi:

«Un funzionario dell’intelligence egiziana ha dichiarato all’agenzia di stampa Associated Press questa settimana che il Cairo aveva ripetutamente avvertito gli israeliani che da Gaza si stava pianificando “qualcosa di grosso”.

“Abbiamo avvertito che un’esplosione della situazione era in arrivo, e molto presto, e sarebbe stato qualcosa di grosso. Ma hanno sottovalutato questi avvertimenti”, ha detto il funzionario, che ha parlato in condizione di anonimato. Il funzionario del Cairo ha affermato che i funzionari israeliani hanno minimizzato la minaccia proveniente da Gaza, concentrandosi invece sulla Cisgiordania.

Sir Alex Younger, che è stato capo dell’agenzia di intelligence estera del Regno Unito tra il 2014 e il 2020, ha affermato che i combattenti di Hamas sono stati in grado di compiere l’attacco del 7 ottobre a causa della “compiacenza istituzionale” di Israele».

In sostanza i vertici dello Stato ebraico: a) da anni erano informati di un piano esecutivo quale quello poi messo in atto il 7 ottobre dall’ala militare di Hamas; b) nonostante queste dettagliate informazioni, l’unità 8200 sospende l’ascolto delle comunicazioni di Hamas proprio nell’ultimo anno; c) difronte a ulteriori evidenze sul campo, di preparativi cioè che corrispondono perfettamente al piano di cui sono già informati, alti ufficiali dei servizi di informazione militare non solo respingono come fantasiosa questa ipotesi, ma significativamente precisano, sostenendola, di temere per la propria carriera.

Tre dati di fatto che portano a concludere che ai massimi livelli dello Stato d’Israele si è deciso di non sapere, di non vedere e di non provvedere: esattamente ciò che un alto grado dell’intelligence britannica, dunque uno dei massimi esperti occidentali, ha, come si è visto, eufemisticamente definito compiacenza istituzionale. Si tratta ora di capire perché.

Il parallelo, che viene fatto da numerosi commentatori, con lo scenario del 7 ottobre 1973, l’attacco dello Yom Kippur, può risultare utile. Ma per una ragione ben diversa dall’impreparazione dei servizi israeliani, cui si fa riferimento anche in quel caso. Sappiamo oggi infatti che in realtà Israele era stato anche in quel caso informato, da fonte al più alto livello del governo egiziano (il genero di Nasser, Ashraf Marwan), dell’imminenza dell’attacco: al punto che vi era stato un acceso dibattito fra Mossad, l’intelligence estera israeliana, cui era pervenuta la notizia, e Aman, i servizi d’informazione militari, che ritenevano invece la cosa improbabile.

Nonostante questo, a livello governativo si preferì aspettare e vedere, nonostante sin dal 25 settembre anche la Giordania avesse direttamente e segretamente informato il premier israeliano Golda Meyr dell’imminente attacco da parte di Egitto e Siria. La ragione venne esplicitata da Golda Meyr e da Moshe Dayan alle otto del mattino del 6 ottobre 1973: quando entrambi respinsero l’ipotesi di un attacco preventivo israeliano, attivando però la mobilitazione generale delle loro forze armate. Occorreva infatti, a parere dei due massimi decisori politici israeliani, che la colpa dello scoppio della guerra, ricadesse sui Paesi arabi attaccanti, per mantenere il rapporto privilegiato con gli Stati Uniti, erogatori di armi e finanziamenti a Israele, e per mobilitare l’opinione pubblica mondiale a favore dello Stato ebraico.

Il rischio corso fu grande, perché in realtà l’attacco dei Paesi arabi risultò molto più pericoloso di quanto fosse stato ritenuto possibile. Ma la decisione strategicamente risultò corretta, poiché gli Usa arrivarono a minacciare l’uso delle armi nucleari in difesa di Israele. Quel conflitto ha poi di fatto eliminato il pericolo più consistente per Israele, rappresentato dall’Egitto arabo-nazionalista.

Una decisione politica quindi, non certo un fallimento dell’intelligence israeliana, che era bene informata: un esempio che potrebbe calzare perfettamente anche per il governo di Netanyahu, tornato al potere fortunosamente a gennaio, e per gli alti gradi militari, di cui parleremo fra poco. Netanyahu è infatti un leader politico che si trovava sul viale del tramonto: con le spalle al muro dalla scorsa primavera, a causa di un Israele in rivolta contro la svolta autoritaria che il sionismo vuole oggi imporre al Paese.

Il premier ha quindi rinviato giusto di quattro mesi il pacchetto di riforme istituzionali contro le quali erano scesi in piazza almeno metà del Paese; si erano pronunciate pubblicamente contro gran parte delle comunità ebraiche nel mondo; oltre al fatto, particolarmente preoccupante per lo Stato ebraico, che a luglio più di diecimila riservisti israeliani avevano annunciato il loro disimpegno per protesta contro i piani del governo. Oggi Netanyahu, grazie allo stato di guerra causato dall’attacco di Hamas, dispone di quei poteri assoluti che erano l’obiettivo finale delle riforme oggetto delle proteste di massa contro il suo governo.

Da parte sua, Hamas, si è giocato il tutto per tutto: anch’esso con le spalle al muro, consapevole che gli “accordi di Abramo”, la crescente repressione militare israeliana dal gennaio 2022 sia in Cisgiordania che a Gaza, nonché la possibile svolta autoritaria dello Stato d’Israele, avrebbero significato il definitivo tramonto della causa palestinese. Consapevole anche che l’Iran, così come Hezbollah, possono fare ben poco per Gaza. È quindi una decisione disperata, non a caso sviluppata dall’ala militare del movimento, che da anni ha gradualmente soppiantato quella politica. Esponenti di quest’ultima, infatti, diranno più volte pubblicamente di non aver saputo nulla dell’operazione in corso, intorno a cui, a loro dire, sarebbe stato mantenuto il massimo segreto. A quanto pare una pericolosa illusione, come ora sappiamo, ed anche una prova del livello di infiltrazione di Israele, quanto meno nelle file militari di Hamas.

Ci sentiamo a questo punto di riprendere una formula cui clarissa.it ha nelle sue analisi ha fatto spesso riferimento, quando si parla delle tattiche delle potenze occidentali: l’arte di farsi attaccare. Ne abbiamo parlato a proposito degli Stati Uniti, da questi praticata in più occasioni, dallo scoppio della guerra ispano-americana del 1898, a Pearl Harbor (1941), all’incidente del Golfo del Tonchino (1965) – solo per ricordare i casi più conclamati. Si tratta in sostanza di obbligare il nemico al primo colpo, quando si vuole dare a lui la colpa di una guerra che è invece necessaria ai propri scopi ultimi, e alla quale però l’opinione pubblica interna è contraria o indisponibile.

Farsi attaccare, è il solo modo con cui una guerra diventa accettabile, se non addirittura indispensabile, per la propria opinione pubblica: soprattutto quando il Paese altrimenti non ne avrebbe voluto sapere. Così Netanyahu ha portato il Paese a ricompattarsi intorno al suo governo; ha rimandato sine die la discussione su quanto accaduto; spera di uscire vittorioso dal conflitto, per restare in sella. Tanto più la guerra sarà lunga e sanguinosa, tanto più a lungo spera di conservare il proprio potere.

In questa sua strategia, il premier israeliano ha probabilmente trovato un punto d’incontro determinante con la visione dei militari israeliani. Cerchiamo di chiarire questo punto partendo da un’analisi estremamente interessante, realizzata da un’organizzazione britannica senza scopo di lucro, Action on Armed Violence (AOAV), che ha utilizzato e analizzato informazioni provenienti dai più autorevoli media di lingua inglese: quindi certo non sospetti di nutrire pregiudizi contro il mainstreaming. AOAV si è concentrata in particolare sulle perdite di civili causate dall’impiego di attacchi aerei massicci da parte dello Stato di Israele contro la Striscia di Gaza, studiano i dati del solo ottobre 2023.

I risultati di questo studio, sono molto accurati: AOAV rileva infatti che, sui 299 bombardamenti aerei registrati dai media, condotti dall’aviazione israeliana nel solo mese di ottobre 2023, nel corso dell’operazione Swords of Iron, appunto contro la Striscia di Gaza, 276 hanno causato fra i civili Palestinesi 2.798 morti e 1.306 feriti: vale a dire una media di 10,1 vittime civili per ogni attacco effettuato. Sempre tenendo presente ovviamente che non tutti i bombardamenti aerei su obiettivi civili vengono registrati: per cui questi numeri sono certamente approssimati per difetto. Dal confronto con le cifre relative allo stesso tipo di vittime causate dalle precedenti incursioni israeliane nella Striscia di Gaza, l’attuale operazione appare mediamente oltre quattro volte più letale: Pillar of Defense (2012), media 1,3; Protective Edge (2014), media 2,5; Wall Guardian (2021), media 1,7.

Nella sua accurata analisi, AOAV, ricercando le ragioni di questo impressionante incremento di vittime civili, conclude che «questa impennata indica una potenziale escalation nelle tattiche militari, nella capacità di carico utile [quantità di materiale bellico portato sull’obiettivo, N.d.R.] ovvero un cambiamento nelle politiche di targeting [scelta degli obiettivi, N.d.R.] che sembrano aver ignorato la sicurezza e la vita della popolazione civile in misura maggiore rispetto alle operazioni precedenti».

È quindi documentato in modo inoppugnabile che Israele ha deciso di non tener conto del costo umano delle proprie attività militari, in termini di vittime civili. Volontà di vendetta? Non è questo in realtà l’elemento determinante, col quale i mass media italiani finiscono per giustificare il massacro israeliano a Gaza: vi è in realtà un’impostazione strategica, che ci può illuminare non solo sulle ragioni per cui siamo oggi giunti a superare le 20mila vittime civili a Gaza. Un bilancio davvero altissimo: basti considerare che l’offensiva aerea tedesca contro l’Inghilterra nella seconda guerra mondiale provocò 44mila vittime civili, colpendo fra l’altro un’area geografica enormemente più vasta della Striscia di Gaza.

L’elemento decisivo è quindi il sistema di guerra adottato dalle forze armate israeliane. Da pochi anni, infatti, gli strateghi israeliani sono giunti alla conclusione, solo apparentemente ovvia, che Israele deve vincere le prossime guerre. Cosa significa? Significa molto semplicemente che Israele deve risolvere una volta per tutte il conflitto in cui si trova impantanato dal 1948. È una constatazione che va ben meditata, poiché significa che tutti i conflitti che pure Israele ha condotto vittoriosamente, sconfiggendo regolarmente i propri nemici, in realtà non hanno mai risolto il problema di fondo. Significa cioè che tutte le sue guerre non hanno mai portato né la pace né la sicurezza per lo Stato ebraico, ma sono state solo premessa di altri conflitti.

Invece di riflettere sul fallimento strategico dell’uso sistematico della forza, che dovrebbe quindi spingere i governi israeliani alla ricerca di una soluzione politica, Israele ha semplicemente elaborato un nuovo modello di soluzione militare: è la strategia, teorizzata sotto il nome di Momentum (in inglese qualcosa come “impeto, slancio”), che postula l’annientamento definitivo del nemico attraverso la completa integrazione, fino al livello di unità elementari (battaglione), di informazioni, elettronica, munizioni sofisticate, big data, vettori di ultimissima generazione. Questa impostazione strategica dell’IDF, definita nel 2020, punta quindi, nelle parole dell’allora Capo di Stato Maggiore israeliano, gen. Aviv Kohavi, alla “rapida distruzione delle capacità nemiche”.

«Tre sono gli sforzi principali che guidano il programma Momentum – si legge in un’analisi specialistica – di potenziamento delle forze militari. Il primo, una capacità di manovra terrestre multi-dominio, il che significa che le unità sul campo dell’IDF saranno in grado di operare simultaneamente sul terreno, nel sottosuolo, nell’aria, nello spettro elettromagnetico e nel dominio cibernetico. Un secondo asse si basa sul potenziamento della potenza di fuoco israeliana. Un terzo asse è progettato per incrementare le difese sul fronte interno israeliano. Sono stati inoltre definiti otto fattori abilitanti (detti moltiplicatori di forza), tra cui la superiorità aerea, la superiorità dell’intelligence e la funzionalità continua sotto il fuoco».

Risulta evidente quindi che l’altissimo rateo di perdite civili riscontrato in questi mesi a Gaza, non è che l’attuazione del secondo elemento essenziale di Momentum: non è quindi frutto di scelte dettate dall’emotività, ma l’applicazione in campo di un modello di guerra di annientamento che Israele ha programmaticamente adottato, senza alcuna considerazione per gli “effetti collaterali” che questo modello comporta quando si opera all’interno di aree densamente popolate e prive di alcuna protezione internazionale: in aperta, consapevole violazione delle regole del cosiddetto diritto umanitario.

L’attuale conflitto in Terra Santa, alla luce di queste nostre considerazioni, assume quindi aspetti ben diversi da come viene propinato alla nostra opinione pubblica. Se l’analisi che proponiamo ai nostri lettori è corretta, riteniamo ragionevole supporre che le operazioni militari contro Gaza dureranno, come più volte del resto affermato dallo stesso capo del governo israeliano, a lungo, e non terranno in alcun conto i richiami, più o meno ipocriti, a tregue, trattative, interventi umanitari.

Dobbiamo semmai soltanto augurarci che nella pianificazione strategica israeliana questo conflitto non preveda un riassetto definitivo dell’intero Medio Oriente secondo i desiderata israeliani, fra i quali in primo luogo è presente la soluzione finale della questione palestinese, considerata da sempre un problema militare e non politico.

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