Assalto al bastione di Assad. Siria, una nuova Libia?

Presentiamo due articoli tratti da La Repubblica e Il Giornale di oggi, 31 gennaio 2012, sugli sviluppi drammatici della situazione in Siria. Il primo, a firma di Alberto Stabile, è intitolato: "Damasco, assedio al bastione di Assad. Contro di noi il grande gioco degli Usa". Il secondo, di Gian Micalessin: "Il piano della Clinton: trasformare la Siria nella Libia".

Damasco, assedio al bastione di Assad."Contro di noi il grande gioco degli Usa"
ALBERTO STABILE, la Repubblica, 31 Gennaio 2012, pagg. 18-19.

DAMASCO – «Ma chi sono questi soldati del Libero esercito siriano?», si chiede Khadri Jamil, il segretario del vecchio partito comunista siriano, un tempo in rotta con il regime degli Assad, messo fuorilegge, ma oggi fautore di opposizione dialogante e di una transizione morbida alla democrazia. «Sono come i Contras -risponde sdegnato-. Denaro e sostegni dall´esterno. Pronti a innescare una guerra civile che è un progetto degli Stati Uniti, dopo che due mesi fa ci avevano dato garanzie che non avrebbero subito interferenze straniere».
E così, dopo aver liquidato i militari che hanno voltato le spalle all´esercito siriano per unirsi alla protesta contro Bashar Al Assad, paragonandoli ai controrivoluzionari che combatterono contro il governo sandinista del Nicaragua al soldo degli Stati Uniti, Jamil si dice pronto a giurare che «non andranno da nessuna parte perché non hanno l´appoggio né della gente, né dei Comitati di resistenza popolare". Le ultime notizie dal fronte interno, però, lo smentiscono.
Mai i disertori del Libero esercito avevano osato tanto come nella scorsa settimana. Partiti dalle province al confine con la Turchia, dove è basato il loro quartier generale, guidato dal colonnello Riad Al Asaad, sfruttando la loro mobilità e l´evidente simpatia di alcuni settori del popolo degli insorti, i soldati ribelli si sono rapidamente avvicinati a Damasco, il santuario e al tempo stesso il principale bastione a difesa del regime, da quando, oltre dieci mesi fa è esplosa la protesta.
Prima Duma, 20 chilometri dalla capitale, poi Amourieh, 8 chilometri da Damasco. Quindi Saqba. Alla fine, per riprender in mano la situazione l´esercito siriano è dovuto ricorrere ai carri armati, in violazione del piano di pace della Lega araba.
Intendiamoci, la capitale non sembra risentire di questo avanzamento del fronte dei combattimenti. Come ogni venerdì, anche alla vigilia di questo fine settimana i fedelissimi del Presidente si sono dati convegno nella centralissima piazza Saba Bakrat, per gridare slogan e cantare canzoni a sostegno del regime. Ma non tanti come all´inizio della protesta. «Perché – mi dice Fahad, traduttore e amico – la gente comincia ad avere paura degli attentati e delle sparatorie». Borghesia, burocrati, rampolli di famiglie benestanti con le loro jeep nere dalle cromature scintillanti e con la bandiera nazionale. Ma Damasco ha perso anche il suo spirito. I ristoranti sono aperti, ma vuoti. Il traffico è intenso soltanto nelle ore diurne, all´imbrunire le strade si svuotano. I commercianti lamentano un´impressionante caduta degli affari.
E in questo clima che evoca pericoli sempre più immediati e stringenti (secondo le organizzazioni umanitarie le vittime della tenaglia protesta-repressione hanno superato quota seimila, un dato che il governo siriano contesta, preferendo sottolineare la perdita di oltre duemila tra soldati e agenti degli apparati di sicurezza) il sangue reale che scorre per le strade della Siria si confonde con le battaglie virtuali della guerra mediatica.
Alla categoria delle false notizie date di proposito in pasto alla folla degli internauti, e dunque destinata a moltiplicare geometricamente i suoi effetti, a prescindere dalla realtà, appartiene la storia delle presunta fuga della moglie di Assad, Asma, con i loro figli e, in seconda battuta, dello stesso presidente, fuga interrotta proprio dagli uomini del Libero esercito, sulla strada dalla capitale all´aeroporto di Damasco. "Una bufala", come l´ha definita lo stesso twitter che l´aveva propagata. Una "bufala" evidente sin dall´inizio perché se le forze lealiste avessero perso il controllo dell´aeroporto, per il regime sarebbe già suonata la campana a morto. Ma non è così.
Non le voci incontrollate che circolano sui social forum, ma l´inarrestabile deterioramento della situazione (nelle ultime 48 ore i morti sarebbero stati più di 60 in tutto il Paese) sembra aver riscosso dal lungo sonno la diplomazia internazionale. Fermamente decisa a rispettare il suo patto d´onore con gli Assad, ma sentendosi al tempo stesso scomoda nella posizione di protettore ad oltranza del regime siriano contro le decisioni che possono sortire dal Consiglio di sicurezza dell´Onu che si riunisce oggi, la Russia ha deciso di giocare la carta del dialogo contro l´ipotesi di un intervento esterno di tipo militare.
Ma se Damasco ha risposto prontamente e positivamente all´invito dei governanti russi, il Consiglio nazionale siriano, una delle maggiori organizzazioni della rivolta, quella che raccoglie soprattutto i dissidenti all´estero, ha respinto al mittente la richiesta di intavolare trattative. E senza il Consiglio nazionale siriano non c´è negoziato che tenga. La prospettiva, quindi, è che davanti all´attivismo della Francia decisa ad ottenere la condanna della Siria per "gravi delitti contro l´umanità", la Russia non potrà che far valere il suo potere di veto.
«Le grandi potenze occidentali stanno sbagliando tutto», commenta Khadi Jamil, sicuro di sé. «Non ci potrà essere nessun cambiamento di regime se non ci sarà prima una pacificazione fra il popolo siriano. A meno che gli Stati Uniti, la Francia e Israele non vogliano fare della Siria un´altra Libia».

Il piano della Clinton: trasformare la Siria nella Libia
di Gian Micalessin, Il Giornale, 31 gennaio 2012, pag. 17

Sbagliare è umano, perseverare è diabolico. Ma Hillary Clinton e gli alleati di Londra e Parigi non sembrano averlo capito. E allora rieccoli ai blocchi di partenza pronti a scatenare un altro disastro in stile libico. Lo scenario è lo stesso. Come pure le approssimazioni, errori e superficialità. S’incomincia anche stavolta dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Oggi il Segretario di Stato americano ci va di persona per tenere a battesimo la messa ai voti di una bozza di risoluzione. A scriverla c’han pensato, anche stavolta, gli alleati di Londra e Parigi. Solo che stavolta il rischio è molto più grosso. L’impresa di Libia, alla fin dei conti, ha condannato al caos e alla divisione un solo Paese.
L’intervento in Siria rischia di trascinare verso l’instabilità e la conflittualità permanente l’intera regione mediorientale. Già le premesse non sono incoraggianti. La bozza di risoluzione scritta da Londra e Parigi si basa sul piano dalla Lega Araba che chiede le dimissioni del presidente Bashar Assad e la formazione di un governo provvisorio. Ma per capire quanto valgano i piani della Lega basta dare un’occhiata a com’è finito l’invio di osservatori sponsorizzato dai Paesi arabi. Anzich´ favorire l’avvio di un negoziato ha fomentato le velleitarie iniziative di un’opposizione armata illusasi di poter approfittare degli osservatori per lanciare l’affondo finale contro il regime. Il risultato è sotto gli occhi di tutti. I rivoltosi rischiano di venir fatti a pezzi prim’ancora che il Consiglio di Sicurezza riesca a mettere ai voti uno straccio di risoluzione. Il fermento insurrezionale ha inoltre inasprito le differenze tra le varie fazioni. Il Consiglio Nazionale Siriano, controllato dai Fratelli Musulmani, sogna di poter usufruire, come in Libia dell’appoggio della Nato e del Qatar. Le forze laiche e moderate rappresentate dal Comitato di Coordinamento Nazionale vedono come fumo negli occhi un intervento straniero che favorirebbe solo i Fratelli Musulmani.
A render tutto più complesso e pericoloso contribuisce l’incognita iraniana. Il regime alawita di Bashar Assad è, da 30 anni, il perno geografico di quell’asse sciita che garantisce ai pasdaran il controllo della milizia libanese di Hezbollah e di quella palestinese di Hamas. Votare una mozione che preveda surrettiziamente un intervento militare basato su una «no fly zone» in stile libico o sulla creazione di «aree di sicurezza» significa giustificare l’intervento aperto dei Guardiani della Rivoluzione e delle milizie di Hezbollah. Come dire scatenare una guerra regionale. Per fortuna prima di riuscire a legittimare un qualsiasi tipo d’intervento la Clinton e i suoi alleati devono evitare i veti di Russia e Cina. Un anno fa buggerarono Mosca giurando che la «no fly zone» non prevedeva un cambio di regime. Stavolta Mosca non è disponibile a farsi fregare di nuovo. Anche perch´ appoggiare la caduta del tradizionale alleato siriano significherebbe rinunciare al porto di Tartus, ovvero all’ultima base della marina militare russa nel Mediterraneo. La caduta di Bashar segnerebbe, inoltre, la definitiva marginalizzazione di Mosca nell’ambito delle politiche Mediorientali. Un declassamento che la potenza russa non è certo disposta ad accettare. Dunque almeno per quest’oggi la migliore difesa di Bashar non saranno le armate di casa o quelle degli alleati di Teheran, ma i veti incrociati di Mosca e Pechino.

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