Le sanzioni all’Iran: un disastro per l’Italia

A novembre 2011, già in campagna elettorale per le elezioni 2012, Barack Obama ha dato il via all’ennesima campagna avente lo scopo di un "regime changing" in Iran.
Prendendo a pretesto una dichiarazione dell’AIEA che evidenziava "preoccupazioni" per la raggiunta capacità dell’Iran di raffinare l’uranio con un contenuto dell’isotopo U235 (quello utile) sino ad un 20% del totale (capacità, peraltro, annunciata precedentemente dal governo iraniano che ha invitato la stessa AIEA a controllare il ciclo di arricchimento), Obama ha prima cercato di portare la questione di nuove sanzioni economiche al Consiglio di Sicurezza ma, di fronte al netto rifiuto della Russia che ha definito le "preoccupazioni" della AIEA assolutamente prive di fondamento, ha dovuto ripiegare su sanzioni unilaterali. E’ così partita una asfissiante campagna di pressing sull’Europa sul Giappone, sulla Corea e sull’Australia affinché cessino qualsiasi importazione di petrolio dall’Iran, anche su contratti già stipulati. Tutti i Paesi contattati, pur tentando di spiegare agli americani le enormi difficoltà che loro causerebbe una cessazione di forniture iraniane che coprono rilevanti quote del loro fabbisogno energetico, hanno dovuto chinare il capo alle pretese di Obama, data la loro stretta dipendenza geopolitica dal gigante USA ed anche perché l’Arabia saudita (primo Paese produttore) si è offerta di coprire il fabbisogno mancante, per quei Paesi che aderiranno all’embargo, aumentando al massimo le loro capacità di estrazione.
L’Iran ha avuto un iniziale momento di panico, temendo per la sua economia, ed ha minacciato addirittura la chiusura dello stretto di Hormuz, via di mare da cui passa il 40% delle forniture mondiali di petrolio. Era proprio quello che Obama si aspettava, poiché avrebbe fornito il pretesto all’esercito americano, di stanza negli Emirati e nel Qatar, per iniziare quella campagna di bombardamenti tanto bramata sia dagli USA che, ancora di più, da Israele. L’atteggiamento iraniano è però radicalmente cambiato quando ci si è resi conto che molti altri Paesi (tra cui India, Pakistan, Cina e, ovviamente, Russia) avrebbero mantenuto e addirittura incrementato le loro quote di importazione di petrolio dall’Iran; così Ahmadi Nejad ha fatto sfumare la minaccia di blocco marittimo ed ha assunto un cauto atteggiamento attendista, tipico di chi non sente più il coltello alla gola.

I beneficiari maggiori di questa situazione sarebbero infatti, secondo alcuni economisti di Wall Street, proprio Cina e Russia, quest’ultima secondo produttore (l’Iran è il terzo) mondiale di petrolio. L’Iran, stretto dall’embargo degli USA e dei suoi satelliti, dirotterebbe gran parte del petrolio invenduto verso la Cina (sempre affamata d’energia) e verso la Russia, ma a prezzi molto inferiori di quelli praticati alla borsa di New York; la Russia, in particolare, userebbe il petrolio iraniano non tanto per consumi interni (non ne ha certo bisogno), ma per rivenderlo sul mercato internazionale a prezzi di borsa.
Gli scambi con Cina Russia, ma anche con l’India, non sarebbero più regolati in dollari, bensì attraverso un mix di valute locali dei Paesi compratori e di valuta iraniana.
Gli stessi economisti prevedono poi grandi turbolenze a rialzo del prezzo del greggio, a causa del fatto che non è affatto sicuro che l’Arabia saudita riesca a colmare in tempi rapidi la carenza di greggio sul mercato internazionale, mentre è sicuro che, nel caso di insufficienza, altri Paesi dell’OPEC (come l’Algeria, la Nigeria ed il Venezuela, non appartenenti alla sfera di influenza di Washington) si rifiuterebbero di incrementare le loro quote di estrazione. Ciò provocherebbe inevitabilmente una fiammata speculativa al rialzo sui mercati internazionali del petrolio.
Per ultimo, dato che sin dal 1973 gli scambi di petrolio prodotto dall’OPEC vengono regolati soltanto in dollari (fu una grande conquista di Henry Kissinger, ai tempi della presidenza Nixon), per gli americani il vedersi regolare una cospicua parte di tali scambi in monete diverse dal dollaro sarebbe uno smacco per l’egemonia mondiale della loro moneta.

Particolarmente delicata appare poi la posizione dell’Italia, a causa di questo embargo non voluto ed impostoci dagli americani. La quasi certa impennata dei prezzi del greggio si rifletterà certamente su tutta la catena dei trasporti e quindi sui prezzi dei prodotti finiti, inasprendo una situazione di conflittualità sociale già arrivata a livelli di guardia.
Altrettanto precaria appare la situazione dell’ENI, grande gruppo petrolchimico di proprietà pubblica, il quale vanta ben 2 miliardi di dollari di crediti pregressi verso l’Iran, con pagamenti da effettuarsi ratealmente attraverso forniture di petrolio ai prezzi correnti di mercato, mentre ha in corso nuovi contratti (già firmati da ambedue le parti) per la fornitura di greggio iraniano. Ebbene, l’accordo raggiunto con gli inviati americani da parte del nostro governo prevede che l’Eni rompa unilateralmente i nuovi accordi di fornitura, pretendendo però che gli iraniani continuino a pagare le rate del debito pregresso di 2 miliardi di dollari, come se nulla fosse accaduto. Ciò è semplicemente ridicolo.
Paolo Scaroni, a.d. del gruppo ENI, ha già messo le mani avanti con il governo dicendo che vi saranno "difficoltà" nel recuperare i 2 miliardi di dollari di crediti vantati verso l’Iran. E’ facile prevedere le conseguenze di questo terremoto sui conti dell’ENI: caduta del valore azionario in borsa e "downgrading" dell’affidabilità del gruppo petrolifero da parte delle famigerate agenzie di rating.
In conclusione: la "fedeltà", senza se e senza ma, al nostro alleato americano rischia di costarci molto, molto cara.

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