Libertà senza i “liberatori”

Non abbiamo quasi finito di parlare di lui, a proposito delle "rivoluzioni senza rivoluzionari " (parlavamo del Nord Africa, naturalmente), ed ecco uscire prontamente la prima traduzione italiana del classico libro di Gene Sharp, From Dictatorship to Democracy (del 1993), col titolo di Come abbattere un regime e sottotitolo "Manuale di liberazione non violenta", per i tipi di Chiarelettere, preceduto da una fulminea quanto anonima prefazione che, senza porsi troppi problemi, definisce Sharp come lo "stratega delle rivolte civili nonviolente", precisando che la faccia di Sharp "compare in un video di propaganda iraniano che lo definisce un agente della Cia". Insieme alla fascetta gialla con la citazione dal New York Times, "il libro che ha ispirato le rivolte in Tunisia, Egitto e Libia", abbiamo quindi tutti gli ingredienti perché questo volumetto circoli come la prossima bibbia del libertario italiano.
Troppo complicato spiegare che al "filosofo" Sharp si è affiancato da tempo un ex ufficiale delle forze speciali americane, Robert Helvey, che così racconta l’inizio del loro sodalizio: "Presentò il suo discorso con queste parole: "La lotta strategica non violenta mira a impadronirsi del potere politico o ad impedire ad altri di farlo. Non ha niente a che vedere con il pacifismo o con convinzioni morali o religiose". Queste parole attrassero la mia attenzione, dal momento che la mia opinione sulla non violenza era invece legata all’epoca del Vietnam, dei figli dei fiori, dei raduni per la pace e dagli obiettori di coscienza".
Ancora più complesso spiegare che queste tecniche sono oggi diventate lo strumento in mano a personaggi come Peter Ackerman, un finanziere d’assalto di quelli che hanno inchiodato al debito popoli interi, che ha poi fatto di queste "rivolte civili non-violente" lo strumento di colonizzazione delle coscienze in tutti quei Paesi dove prima il comunismo ha annientato la libertà individuale e poi il capitalismo finanziario ha preso il controllo delle loro risorse economiche; oppure di quei regimi che l’Occidente ha sostenuto da sempre, per doverli oggi "riorganizzare" in vista dei futuri equilibri mediorientali. Il tutto operando attraverso istituzioni ed organizzazioni stabilmente legate al governo degli Stati Uniti ed a quello di Israele, come ho già avuto modo di spiegare altrove.
La prima domanda che sorge quindi spontanea è se personaggi come questi possano davvero presentarsi al mondo come i portatori della libertà e della democrazia nel mondo; allo stesso modo con cui, dopo oltre un secolo di conflitti, è lecito chiedersi se gli Stati Uniti possano ancora presentarsi al mondo come l’incarnazione della democrazia, come i corifei della libertà politica – non fosse altro che per il fatto che decine di dittature contemporanee hanno avuto ed hanno il loro supporto. Così come risulta oggi ben chiaro all’analisi storica che le ragioni per cui gli Usa combatterono la Germania di Hitler e l’Italia di Mussolini non erano affatto legate alla loro natura di sistemi totalitari, ma alla seria minaccia che essi arrecavano sul piano strategico al predominio imperiale anglo-sassone in Europa e nel Mediterraneo.
Se poi leggiamo quest’agile teorizzazione della political defiance, con l’elenco delle sue 198 tecniche di destabilizzazione dei sistemi politici, può sorprenderci il fatto che Sharp affronta il tema come se si trattasse di un manuale tecnico di comunicazione o di progettazione ingegneristica. Ma davvero i mutamenti politici avvengono semplicemente grazie a delle buone pianificazioni strategiche? È davvero solo una questione di metodo? Le idee, la natura dei popoli, il modo di pensare degli uomini, le loro aspirazioni – non sono questi i fattori che producono il mutamento storico? E poi, in definitiva, siamo sicuri che sia sufficiente rovesciare un regime per avere introdotto nelle coscienze delle persone la libertà? Oppure la libertà è il frutto di un processo di evoluzione prima di tutto interiore degli individui, prima che dei popoli; un processo che non possiamo quindi considerare concluso, raggiunto una volta per sempre, nemmeno in Occidente, tanto meno negli Stati Uniti?
Se queste obiezioni sono valide, allora attenzione a questi maestri della liberazione non-violenta: se accettiamo come maestro Gandhi, con il rispetto che merita una grande anima che tutto ha offerto alla libertà del suo popolo, non crediamo invece a maestri come questi, che pretendono di insegnare agli altri quello che loro in realtà non hanno mai nemmeno tentato. Prima, infatti, dovrebbero liberare gli Stati Uniti dalle oligarchie finanziarie che controllano la ricchezza di milioni di uomini, nel loro Paese e nel mondo; dovrebbero liberare gli Stati Uniti dal condizionamento che queste oligarchie esercitano sul sistema politico; dovrebbero liberare centinaia di migliaia di americani dall’incertezza sulla casa, sul lavoro, sull’assistenza medica, sul diritto allo studio, che quelle oligarchie hanno prodotto negli ultimi trent’anni di storia.
Ai lettori italiani consigliamo quindi di leggere con attenzione questo volumetto, come documento dei nostri tempi e come possibile sintomo del fatto che qualcuno stia cominciando a pensare che anche l’Italia necessita di una "rivoluzione senza rivoluzionari": una rivoluzione, cioè, che serva a mantenere il nostro Paese saldamente allineato alle politiche dell’Occidente anglosassone, nonostante esse si dimostrino ogni giorno di più tanto rozze ed inefficaci quanto contrarie ai veri interessi dell’Italia, dall’Iraq alla Libia, dal Libano all’Afghanistan. Se come popolo abbiamo senza dubbio bisogno di una liberazione politica che ci sottragga all’odierna avvilente dittatura dei partiti, una volta di più non saranno davvero questi i nostri liberatori.

G. Sharp, Come abbattere un regime, manuale di liberazione nonviolenta, Chiarelettere, Milano, 2011

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