Indignato? Eppur si muove

Da quando, nel 1977, con le prime elezioni dopo la guerra civile del 1936-1939, è stata ufficialmente riammessa fra le democrazie, la Spagna ha avuto modo di sperimentare tutte le gioie e tutte le delusioni possibili del liberalismo occidentale: già solo per questo il movimento degli Indignati che in maggio ha presidiato le piazze di 166 città merita un’attenzione particolare.
Osservando le "rivoluzioni arancioni" degli ex-stati comunisti nell’est Europa o, da ultimo, le "rivoluzioni" nordafricane, sembra, almeno per ora, che nessun reale cambiamento sia stato conseguito in quei Paesi: sarà così anche per la protesta dei giovani di un ex caso di successo dell’Occidente capitalista?
A prescindere dal fatto che anche qui, come negli altri casi, si corrono rischi di manipolazioni e strumentalizzazioni, l’elemento nuovo e diverso è che qualcosa sembra dunque muoversi nella vecchia Europa e proprio laddove sembrava essersi definitivamente radicato il modello di vita, ispirato a quello americano, fondato su scientismo, consumismo e gruppi di pressione – ingredienti che ben conoscono gli Europei del secondo dopoguerra.
Segno che la crisi economico-finanziaria, che ha azzerato il benessere dei Paesi della periferia mediterranea europea, sta aprendo gli occhi, soprattutto dei più giovani, duramente colpiti dalla disoccupazione, sugli aspetti di fondo del sistema in cui vivono: troviamo infatti espressi in modo molto chiaro nel "Manifesto degli Indignati" molti elementi che rimandano a questioni davvero fondamentali.
Il primo è che quella che alla fine del XIX secolo si poneva alla coscienza degli uomini di buona volontà come questione sociale non è stata mai realmente superata, giacché per risolverla non è bastata la schiacciante vittoria delle potenze del capitalismo occidentale in ben due conflitti mondiali: i fatti dimostrano, per la terza o la quarta volta almeno nella sua storia, che il capitalismo porta con sé costituzionalmente semi di ingiustizia, violenza e oppressione che non sono una sua caratteristica puramente filosofica dato che riescono silenziosamente a colpire l’esistenza individuale di milioni di persone, soprattutto quando prendono il sopravvento le sue forze più potenti, quelle della finanza internazionalizzata.
Il secondo punto è che il capitalismo di conseguenza ammala la democrazia, perché traduce la propria debordante forza economica in condizionamento politico: questa è la ragione di fondo per cui i sistemi partitocratici delle democrazie occidentali, nella loro storia di più di un secolo, sono sempre stati nella rete del potere economico mondializzato, che li isola dagli interessi essenziali dei Paesi e determina una separazione netta fra istituzioni politiche ed esigenze reali dei popoli. Fenomeno che ciascuno di noi ormai sperimenta ogni giorno, in qualsivoglia nazione europea.
Questa oligarchia economico-politica oggi sovrana, indipendentemente dalle sigle in cui vorrebbe differenziarsi nei brevi periodi delle campagne elettorali, governa attraverso "comitati d’affari" che gestiscono, come fossero propri, i patrimoni collettivi fondamentali, dall’ambiente all’informazione, dall’istruzione alla giustizia.
"L’ansia e l’accumulazione di potere in poche mani crea disuguaglianza, tensione e ingiustizia, il che porta alla violenza, che noi respingiamo. L’obsoleto e innaturale modello economico vigente blocca la macchina sociale in una spirale che si consuma in se stessa, arricchendo i pochi e precipitando nella povertà e nella scarsità il resto. Fino al crollo". Così si legge nel Manifesto.
Gli Indignati evidenziano nel loro manifesto che "volontà e scopo del sistema è l’accumulazione del denaro, che ha la precedenza sull’efficienza e il benessere della società" e dunque che la focalizzazione della vita attuale sulla ricchezza è divenuta una distorsione strutturale delle nostre società.
In Europa qualcuno comincia quindi a comprendere che l’adesione alla logica del profitto è causa di asservimento dei nostri popoli e delle nostre esistenze individuali – e che la politica ha le chiavi di queste catene. Da qui la cosa sicuramente più significativa del manifesto: si chiede finalmente non una rivoluzione politica ma una Rivoluzione Etica. Merita le maiuscole ed il corsivo questa espressione, se diventerà ragione sostanziale del movimento spagnolo.
Infatti, nelle nostre società dal vigoroso individualismo la politica come medievale lotta per il potere, ha fatto definitivamente il suo tempo: se l’individuo non si rafforza interiormente sul piano morale, ogni ideale è finzione, ogni politica è compromesso. Ma l’etica non si scrive nelle leggi, ognuno la scrive e la vive in se stesso; perché essa diventi agire comune occorre che ogni individuo riesca a condividere nel proprio il sentire di altri, trovando unità nella libera appartenenza alla comunità di quel popolo, in quella Patria.
La Rivoluzione Etica non la fanno i partiti, ma non si fa nemmeno su Facebook, così come non si realizza solo con le riforme: la si pratica ogni giorno. Perché abbia effetti collettivi deve cominciare a produrre uomini sobri, disinteressati, animati da spirito di servizio, capaci di vivere il sentire comune e di agire con chiarezza, efficacia e attenzione alla missione che ogni popolo degno di questo nome porta nella storia dell’umanità, in modo differenziato ma coerente con essa.
La Rivoluzione Etica colloca i doveri prima dei diritti, definisce i compiti insieme alle aspirazioni, pone i sacrifici davanti alle soddisfazioni: l’etica non può essere etica della felicità ma etica del compiere ogni giorno quanto si considera giusto, senza curarsi di benefici e svantaggi personali. In una parola, deve essere un dono.
Se siamo davvero pronti a questo, la Rivoluzione Etica è cominciata, perché opera già nelle nostre coscienze. Se gli Indignati spagnoli lottano davvero per questo, siamo con loro.
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