L’ombra del TPL sul Libano

Il fantasma del Tribunale Penale per il Libano torna a minare la stabilità del Paese del Cedri attraverso una sentenza, attesa entro questo mese, che rischia di spaccare il Libano tra sostenitori (parte dei sunniti ed i drusi) di tale organismo internazionale e suoi avversari (sciiti e cristiani maroniti). Per conoscere pienamente la situazione attuale è utile riassumere brevemente la storia di tale istituto.

All’indomani dell’attentato al premier libanese Rafik Hariri, avvenuto il 14 febbraio 2005 e che causò la morte di 22 persone oltre al leader sunnita, venne istituita (caso unico nella storia delle Nazioni Unite, poiché riguardava l’assassinio di una sola persona e non crimini di guerra) una commissione d’inchiesta mista tra giuristi scelti dall’ONU e giuristi libanesi per indagare su mandanti ed esecutori della strage.
A presiedere tale commissione (che ancora non aveva il nome di tribunale penale per il Libano, assunto con delibera ONU il 30 maggio 2007) venne chiamato il giudice tedesco Detlev Mehlis, già sospettato di legami con la CIA e, all’inizio degli anni 2000, riccamente remunerato come ricercatore sia dal "Washington Institute for Near East Policy" (il think-tank della potentissima lobby degli ebrei americani AIPAC) che dalla Rand Corporation (complesso dell’industria militare statunitense).
Mehlis scelse come suo assistente un commissario di polizia, suo connazionale, di nome Gerhard Lehman, anch’egli collaboratore della CIA e riconosciuto da un testimone come partecipante al programma di "extraordinary renditions", voluto da Bush, per il sequestro, la tortura ed il trasferimento di presunti terroristi in carceri "sicure" in Paesi come Marocco, Giordania, Egitto e Polonia. Come i nostri lettori ricorderanno, a questo programma aderì anche l’Italia ed è tuttora in corso un processo per il rapimento dell’Imam di Varese in cui sono coinvolti ben 22 agenti americani (tutti scappati negli USA) ed i vertici dei nostri Servizi segreti, processo a cui è stato opposto il segreto di Stato tanto dal governo Berlusconi che da quello di Prodi del 2006-2008.
Le indagini della commissione per il Libano puntarono subito ad incriminare il Presidente siriano, Bashar Al Assad, e l’allora suo omologo libanese Emile Lahoud. Quattro alti ufficiali libanesi furono spediti in galera, su ordine di Mehlis, come partecipanti all’attentato. Peccato però che i cinque testimoni a carico dei detti ufficiali furono riconosciuti, qualche tempo dopo, assolutamente falsi, tanto da provocare, nel 2009, il rilascio per assoluta mancanza di prove dei quattro ufficiali detenuti, che però si erano già fatti quattro anni di galera.
Anche sul piano della tecnica delle indagini, Mehlis si distinse per una totale (e sospetta, data la sua esperienza) mancanza di professionalità.
Intanto la scena dell’attentato non fu immediatamente esaminata e repertata per stabilire la tecnica e la tipologia dell’attacco. Senza esami seri del terreno e dello stato dei cadaveri si optò per un attentato compiuto da un furgone carico di esplosivo tradizionale, mentre alcuni feriti gravi presentavano, oltre alle ustioni, anche segni di esposizione a materiali radioattivi; inoltre, guardando le fotografie del luogo dell’attentato, molti esperti obbiettarono che un cratere di tale ampiezza e profondità non poteva essere stato provocato da un veicolo che esplode a livello stradale, piuttosto la causa poteva essere stata una carica piazzata sotto il manto stradale e fatta esplodere da un telecomando. Ma il corteo di auto in cui viaggiava Rafik Hariri era provvisto di un sistema di disturbo elettromagnetico estremamente sofisticato fabbricato (curiosamente) in Israele; è molto improbabile che tale sistema non sia riuscito a bloccare un telefonino (o qualunque altro oggetto emettente onde radio) usato come telecomando.
Come ipotesi residua (mai cosiderata da Mehlis), a detta degli esperti, si poteva pensare ad un missile lanciato da un aereo senza pilota ed armato con esplosivi, estremamente potenti, contenenti materiali radioattivi. Ma chi era in grado di inviare droni sofisticati, con armi ancora più sofisticate? Forse la Siria? I servizi deviati libanesi? Altamente improbabile. Attentati del genere potevano benissimo essere messi in atto invece da Israele, che ha un esercito al top della tecnologia, forse ancora più sofisticato di quello USA. Per di più, Hassan Nassrallah, leader di Hezbollah, è venuto in possesso di parecchie fotografie scattate da droni israeliani sul luogo dell’attentato prima e dopo l’attentato stesso. Perché tanta attenzione su quei luoghi da parte di Israele?
 
Sia come sia, la nefasta opera di Mehlis e Lheman terminò nel gennaio del 2006. A sostituirlo viene chiamato un magistrato belga di nome Serge Brammertz, il quale, appena arrivato, ripartì da zero con le indagini. Brammertz sembrò essere molto più trasparente e pulito di Mehlis, non facendosi influenzare più di tanto dai risultati della precedente gestione. Egli lasciò l’incarico due anni dopo, nel gennaio 2008, senza indicare però con certezza una nuova pista su cui cercare i colpevoli.
Nel frattempo, però, era avvenuto un fatto importantissimo nell’estate del 2006: il tentativo di invasione del Libano meridionale da parte di Israele, tentativo fallito per la strenua resistenza di Hezbollah. Occorreva trovare un nuovo colpevole: Bashar Al Assad non era più quello buono, anche perché si era avviata una fase di disgelo tra Siria e Stati Uniti, interessati a rompere i rapporti siriani con l’Iran. Chi era il nuovo colpevole? Naturalmente il "partito di Dio" Hezbollah, mai prima considerato nelle indagini di Mehlis, con cui Israele doveva chiudere i conti. Infatti Brammertz venne puntualmente sottoposto a forti pressioni dall’intelligence israeliana affinché l’incolpazione venisse revocata ai vertici politici siriani per passare ad Hezbollah, come rivela un articolo recentissimo di "Le Figaro". Brammertz si rifiutò fermamente e, forse anche per non subire ulteriori pressioni, si dimise.
 
Il TPL sembrò divenire, a partire dal 2008, una scatola vuota, una delle tante iniziative burocratiche dell’ONU destinate ad essere liquidate senza tanti clamori e senza aver ottenuto risultati concreti. Ma, evidentemente, qualcuno pensò bene di non rinunciare all’esistenza del tribunale: troppo comodo poter disporre di una clava da poter agitare sulla testa del Libano per destabilizzarlo…
Il colpo di grazia definitivo per il TPL sembrò arrivato nel giugno 2009, quando la coalizione filo occidentale "14 marzo", il cui leader Saad Hariri (figlio del defunto Rafik), attuale premier, vinse nettamente le elezioni (contro le previsioni della vigilia) per il nuovo Parlamento, battendo la coalizione Hezbollah-Cristiano maronita di Hassan Nassrallah e Michel Aoun.
A cosa sarebbe servito ancora un arnese vecchio ed inconcludente come il TPL, visto che il partito di Dio non aveva vinto le elezioni e che si era democraticamente piegato alla volontà degli elettori? Ancora una volta però qualcuno pensò bene che la clava sulla testa del Libano non dovesse essere rimossa.
 
Infatti, l’occasione per rimettere in moto la macchina processuale non è venuta a mancare. Nella seconda metà del 2010 vi è stato un progressivo avvicinamento tra Libano ed Iran; ad ottobre è arrivato Ahmadinejad in visita ufficiale accolto (soprattutto al sud) con una vera apoteosi di popolo; in novembre Saad Hariri ha restituito la visita a Teheran, dove ha ribadito la leale amicizia tra i due Paesi.
Ce n’era abbastanza per far entrare in allarme rosso chi manovra, dietro le quinte, il TPL, presieduto attualmente dal giurista Antonio Cassese, fervente partigiano della colonizzazione ebraica della Cisgiordania ed amico personale di Elie Wiesel.
Le indagini, in questi ultimi mesi, hanno decisamente ripreso la pista di Hezbollah, già rifiutata dal giudice Brammertz e cara ai servizi israeliani sempre in attesa di regolare i conti con Hezbollah, per cui si attende, prima della fine del mese, una sentenza di condanna sui vertici del partito di Dio, forse con relativo mandato d’arresto.
Si comprende come un tale evento farebbe deflagrare la fragile concordia faticosamente raggiunta in Libano, Paese in cui le maggiori cariche dello Stato sono ancora assegnate su base confessionale.
Saad Hariri, che da tempo vede il  tribunale che indaga sulla morte di suo padre più come un ostacolo alla pace piuttosto che come un mezzo di vendetta personale, sta disperatamente trattando dietro le quinte affinché, se Hezbollah verrà incolpato, siano personaggi di secondo piano, dichiarati "infedeli" alla linea ufficiale del partito sciita.
Hezbollah d’altro canto, attraverso il suo sito Al Manar, non fa mistero di aspettarsi il peggio e si sta potentemente armando, dichiarando di avere, oltre a decine di migliaia di razzi, 110 missili terra-terra estremamente precisi ed in grado di colpire facilmente Tel Aviv. Hassan Nassrallah dichiara che non farà mai la prima mossa aggressiva, ma se Antonio Cassese ordinasse il suo arresto e quello dei suoi collaboratori, ovvero se Israele tentasse di riprendersi la fascia di territorio libanese a nord del fiume Litani, cosa che non gli era riuscita nell’estate 2006, allora il conflitto armato potrebbe scoppiare ed estendersi in modo imprevedibile.
 
In tutto questa grave situazione brilla il fallimento della politica estera degli USA, che sembra abbiano delegato la gestione del Medioriente ad Israele. A riprova di ciò (anche se non correlato con la situazione libanese) spicca la notizia di questi giorni per cui Obama e la Clinton hanno abbandonato la richiesta di fermare le costruzioni ebraiche nei Territori occupati come precondizione per la ripresa dei colloqui di pace tra Abu Mazen e Nethanyaou.

Nota: per alcune ricostruzioni si è utilizzata come fonte l’articolo di Thierry Meyssan "Révélations sur l’assassinat de Rafiq Hariri", VoltaireNet, 29 novembre 2010

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