G20 (o G2?) di Seul, un vertice per (non) cambiare

Il summit del G20 si è concluso senza offrire risposte convincenti sul futuro assetto degli equilibri finanziari. Un sistema alimentato dai suoi stessi paradossi. Usa e Cina, due paesi agli antipodi non solo in geografia. E la Cina si fa strada in Europa.

1. Concluso il vertice del G20 a Seul, la domanda che tutti si pongono è: in seguito a questo incontro, cambierà qualcosa nell’impianto della finanza mondiale? Possiamo già rispondere di no.
Lo si era capito già dall’inizio, quando il portavoce del comitato di presidenza, Kim Yoon-Kyung, aveva avvertito che "ogni paese è fermo sulle sue posizioni". Tradotto per i profani: la Cina non rivaluterà lo Yuan e non limiterà le esportazioni, e gli Stati Uniti continueranno a svalutare il dollaro.
Come era prevedibile, infatti, non è passata la proposta del segretario Usa al Tesoro, Timothy Geithner, di imporre un tetto massimo ai deficit di bilancio e agli avanzi commerciali in ogni Paese. I leader delle venti maggiori economie al mondo si sono lasciati con un salomonico impegno di vigilare sugli "eccessi di volatilità delle valute" e di lottare contro "le svalutazioni competitive", rimandando tutte le questioni insolute al 2011, quando la presidenza del G20 sarà affidata al francese Sarkozy. Dichiarazioni di principio, insomma, a fare da didascalia alla classica foto ricordo.
Non potevamo aspettarci una conclusione diversa. Troppo profonde erano le divergenze esistenti ad ogni lato del tavolo. Gli Stati Uniti chiedono da tempo la rivalutazione dello Yuan, legata al dollaro da un cambio fisso e secondo gli esperti sottostimata di almeno un 25%, ma Pechino non vuole cedere. Anzi, a Seul Pechino ha attaccato Washington, colpevole di voler svalutare il dollaro per limitare le importazioni. E alla Cina si è affiancata la Germania, altro paese che ha fatto dell’export il punto di forza della propria economia.

2. Nei primi di novembre il Governatore della Federal Reserve, Ben Bernanke, ha annunciato la decisione di stampare 600 miliardi di dollari nuovi di zecca per acquistare un lotto di titoli del Tesoro americano, notizia che ha fatto storcere il naso negli ambienti economici di tutto il mondo.
Nei paesi di Eurolandia, con il passaggio della politica monetaria dalla potestà dei singoli Stati alla gestione centralizzata della BCE, questo non è più possibile. Come non è più possibile, per ciascun governo, aprire una linea di credito presso la Banca centrale del proprio paese per finanziare il proprio deficit di bilancio. In pratica, questo significa che uno Stato contrae un debito con se stesso, il che non è meno grave di avere debiti con gli altri. Soprattutto per un paese, come gli Stati Uniti, il cui debito ha già superato tutta la ricchezza che produce in un anno.
I dati del Tesoro Usa affermano che il debito pubblico americano ammonta all’astronomica cifra di 14 trilioni di dollari (14 seguito da 12 zeri…). Ma ciò che fa impressione è il ritmo con cui è cresciuto negli ultimi anni: nel 2000, al termine della presidenza Clinton, ammontava a 5,6 trilioni. Poi cosa è successo?
In sintesi, negli anni della presidenza Clinton l’elevata pressione fiscale, in concorso con altri fattori, aveva garantito crescita e sviluppo, si erano creati 23 milioni di nuovi posti di lavoro e ogni mese il Tesoro registrava un surplus di bilancio. Con l’arrivo di Bush, in ragione della ideologia repubblicana (che sostiene l’idea reaganiana, smentita poi dagli economisti, che l’abbassamento delle tasse comporti una crescita dell’economia) fu deciso il più imponente taglio fiscale della storia americana: 1,35 trilioni di dollari, di cui il 33% a beneficio dell’1% della popolazione, in buona parte sovventrice della sua campagna elettorale. Negli anni, il crollo della New economy, l’11 settembre, le estenuanti guerre in Afghanistan e in Iraq, l’uragano Katrina e il prezzo del petrolio alle stelle avrebbero dimostrato quanto la scelta di Bush fosse stata infelice.
Di fronte all’improvviso calo di entrate, gli Usa si videro costretti a finanziarsi emettendo titoli di debito, in buona parte finiti nelle poco affidabili mani degli investitori asiatici. I cinesi, direttamente o tramite Hong Kong e Macao, detengono oltre un miliardo di dollari di titoli americani, il che limita il margine di manovra della Casa Bianca nei rapporti con il Dragone. Gli Stati Uniti sono così costretti ad acquistare merci prodotte dall’ex Impero di mezzo. Attualmente, gli Usa sono il primo importatore dei prodotti Made in China. Eppure lo Yuan non si apprezza: la moneta cinese è legata a quella americana da un rapporto fisso del 40%, un livello troppo basso secondo gli economisti, che affermano da tempo la necessità di una rivalutazione.
Ma Pechino da quell’orecchio non ci sente.

3. La Cina ha costruito la sua inarrestabile crescita sulle esportazioni. I bassi costi di manodopera, i massacranti turni di lavoro nelle fabbriche, la forza di un paese che è residenza di un quarto del genere umano hanno promosso ovunque il Made in China nel mondo. E i poderosi surplus di bilancio che Pechino registra ogni mese vengono poi reinvestiti in faraonici progetti, all’interno e all’estero, oppure vengono impiegati nell’acquisto di valute estere. Si stima che le riserve valutarie della Cina ammontino a quasi 2500 miliardi di dollari, di cui il 70% detenuti in biglietti verdi. In ottobre la bilancia commerciale cinese ha registrato il secondo miglior avanzo dell’anno, oltre 27 miliardi di dollari. C’è anche chi, come Robert Fogel, in un articolo comparso su Foreign Policy lo scorso gennaio e che ha fatto subito il giro del mondo, stima che il PIL cinese raggiungerà i 123.000 miliardi di dollari entro il 2040. Ormai è ripetitivo dire che mentre le economie occidentali annaspano, il Dragone viaggia a mille. Ma è davvero così?
Già in agosto, l’autorevole quotidiano CNNMoney aveva messo in luce che la che il boom edilizio e spesa delle famiglie, che attualmente stanno favorendo la straordinaria crescita del Pil, sono sostenute dai debiti. Nel 2009 le banche cinesi hanno raddoppiato il numero dei prestiti rispetto all’anno precedente e ormai l’indebitamento privato ha raggiunto il 29% del Pil, e i prezzi delle case stanno continuando a salire, nonostante oltre 65 milioni di nuove abitazioni siano rimaste vuote. La contrazione della domanda di greggio persiano, dunque, sarebbe un freno posto dal governo di Pechino per raffreddare un’economia sempre più surriscaldata. A ciò si aggiunge la decisione del governo, annunciata a fine ottobre, di ridurre le importazioni di petrolio dall’Iran, passando da 499.000 a 415.000 barili al giorno. C’è chi lo ritiene un avvertimento al paese islamico per indurlo a più miti consigli riguardo agli sviluppi del suo programma nucleare. E c’è chi, al contrario, sostiene che l’Iran non c’entri nulla ma sia il primo segnale che dopo Wall Street, Londra e Dubai, la prossima bolla economica a scoppiare sarà proprio quella di Pechino.
E’ difficile trarre delle conclusioni. Una cosa è certa: la Cina non ha ancora sviluppato un mercato interno pronto ad assorbire la colossale produzione delle sue fabbriche. L’economia di Pechino, dunque, dovrà affidarsi alle esportazioni ancora per qualche tempo. I bassi salari e la condizione di semischiavitù in cui opera la stragrande maggioranza della popolazione, se da un lato hanno fatto del Dragone l’opificio del mondo, dall’altro sono il principale freno ai consumi. E i recenti aumenti salariali decisi dalle autorità non cambieranno di molto le cose: il reddito pro capite cinese (3.600 dollari annui) è ancora meno di un decimo di quello americano (46.000 dollari).
La rivalutazione dello Yuan, dunque, è ancora lontana? Probabilmente si. Ma ogni medaglia ha il suo rovescio. La crisi ha messo in ginocchio un numero considerevole di aziende a stelle e strisce, ma quando la tempesta sarà passata alcune di queste avranno buone prospettive di ripresa. Oggi però, è possibile acquisirle a prezzi di saldo. E quanto più una moneta deprezzata aumenta il suo potere d’acquisto, riducendo il divario con quello del dollaro, tanto meno denaro sarà necessario per comprarle. E questo i cinesi lo sanno bene. Da qualche tempo Pechino ha diminuito i suoi investimenti nei buoni del Tesoro americani per diversificare gli acquisti in favore di azioni delle imprese Usa.
Quando (se?) la Cina deciderà la rivalutazione dello Yuan, non sarà certo per filantropia.

4. Il forum del G20 si è dimostrato un valido strumento per fronteggiare la crisi, ma a Seul ha palesato tutti i suoi limiti, ora che si tratta di mettere nero su bianco le nuove regole per ripartire. Questo non significa che la crisi sia finita: secondo l’Onu nel mondo si contano ancora 210 milioni di disoccupati, circa 30 milioni più rispetto al 2007. Disoccupazione che della crisi è il lascito più pesante. Lo sa bene Obama, il cui carisma non basta più ad emozionare un paese sempre più depresso per una stagnazione che sembra ancora lontana dal finire.
Il G20, a dirla tutta, non è che il contorno del G2, la vera assemblea dei grandi del pianeta: Usa e Cina (in attesa che India, Brasile e forse Russia conquistino i requisiti per sedere a quello stesso tavolo), ed è la ragione per cui era opportuno concentrare questa analisi su tali paesi. E con due soggetti così diversi è difficile formulare previsioni senza farle precedere ad una riflessione approfondita. Restano due considerazioni.
La prima è che il sistema finanziario mondiale è fondato su due palesi contraddizioni: l’economia americana è in declino sia in termini assoluti che in relazione ai Paesi emergenti, ma la moneta di base del commercio internazionale resta sempre il dollaro. E l’Euro, che negli ultimi anni ha in parte sostituito il ruolo guida del dollaro, ha la contraddizione di essere una moneta a cui non corrisponde alcuno Stato che la garantisca. Un paradosso esploso in tutta la sua virulenza in occasione della crisi greca. La garanzia di tutti è la garanzia di nessuno.
La seconda è che ad ostacolare ogni forma di accordo internazionale non ci sono soltanto le rispettive posizioni di ciascuno, perlopiù divergenti e attualmente inconciliabili, quanto la circostanza che in Occidente ogni governo ha un’opinione pubblica interna alla quale riferire le decisioni prese all’estero. E l’impotenza di ogni esecutivo davanti all’opposizione nazionale si è dimostrata un ostacolo troppo grande per affrontare le sfide internazionali. Pensiamo ad Angela Merkel, la cui indecisione sul da farsi di fronte alla crisi greca, in vista delle elezioni interne in Renania, ha finito per aggravare la crisi stessa. La Cina, al contrario, non ha un’opinione interna a cui rendere conto, non ha un’opposizione pronta ad infiammarsi non appena il governo muove un passo. Per questo la rivista Forbes ha collocato il presidente cinese Hu Jintao al primo posto nella classifica degli uomini più potenti del mondo: l’uomo forte di Pechino può prendere ogni genere di decisione ed eseguirla puntualmente, e senza incontrare quegli ostacoli, tipici dei governi nelle nostre latitudini, che riassumiamo sotto la voce "democrazia".
E mentre l’Occidente non sa ancora cosa offrire al Dragone per rabbonirlo, quest’ultimo sa bene quali carte giocare per acquistare consensi dal lato opposto del mondo. Prima di partecipare al summit di Seul, il presidente cinese Hu Jintao si era recato in Portogallo, in visita di stato, promettendo "aiuti concreti" per sostenere il debito pubblico lusitano. Tra febbraio e marzo, infatti, la Cina avrebbe già acquistato il 25% del debito sovrano portoghese. Una scelta suicida, secondo alcuni esperti. Acquistare il debito di un paese, vuol dire di fatto acquistare il paese; e per il Dragone vuol dire entrare in Europa attraverso una porta lasciata aperta, anzi tre: a breve, anche il debito spagnolo e quello greco saranno oggetto di acquisto. Con tre cavalli di Troia al suo interno, sarà più difficile per l’Europa adottare decisioni comuni nei propri rapporti con Pechino, come sarà più difficile alzare la voce quando il dibattito verterà sul rispetto dei diritti umani.
La conquista è appena iniziata.

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