150 anni: una Patria senza sovranità

Centocinquanta anni fa, proprio in questi giorni, tra il 17 ed il 24 luglio 1860, circa seimila garibaldini affrontavano vittoriosamente poco più di tremila soldati borbonici a Milazzo, una battaglia decisiva che avrebbe costretto i borbonici all’evacuazione della Sicilia, aprendo a Garibaldi la via della conquista del resto del Meridione e dunque del completamento dell’unificazione dell’Italia.
La ricorrenza di questi eventi decisivi per la storia unitaria del nostro Paese non viene solo tenuta in sordina per evidenti ragioni di opportunità politica, ma perché si colloca in un momento in cui la vita collettiva dell’Italia appare segnata da sintomi evidenti di polverizzazione.
Soffermiamoci un attimo sulle evidenze che sono davanti ai nostri occhi, evidenze, lo sottolineiamo, non di carattere giudiziario, ma di carattere appunto storico: è bene infatti insistere sul fatto che una diagnosi della condizione dell’Italia non può essere conseguente alle sentenze emesse dai tribunali, dato che la nostra storia nel suo corso complessivo fornisce da sola indicazioni la cui forza di verità può ormai tranquillamente prescindere dalle più o meno discusse pronunzie del potere giudiziario.
Qualche mese fa, purtroppo quasi inosservato, è stato pubblicato un clamoroso libro intervista al gen. Gianadelio Maletti, uno dei protagonisti della storia della “strategia della tensione”, dedicato principalmente ma non esclusivamente alla vicenda di Piazza Fontana, di cui lo scorso dicembre correva il quarantennale. Il libro (N. Palma, A. Sceresini e M.E. Scandagliato, Piazza Fontana. Noi sapevamo – Golpe e stragi di Stato. Le verità del generale Maletti, Aliberti Editore, 2009) è impressionante, al di là delle molte conferme di una nutrita serie di elementi fattuali più volte emersi in sede giudiziaria, per il fatto che un alto ufficiale italiano, che ha ricoperto a lungo funzioni essenziali negli apparati di sicurezza del nostro Paese, illustra con dovizia di particolari il fatto che in Italia le strutture della Nato hanno operato nella direzione diretta o indiretta delle principali attività terroristiche degli anni Settanta. Ancora più impressionante la circostanza che questi fatti fossero ben noti ai più alti livelli politici, militari e di intelligence del Paese – nonostante le dichiarazioni in senso contrario ribadite per anni nelle aule di giustizia dagli uomini che ricoprivano queste responsabilità.
In giugno, poi, nel corso di una trasmissione televisiva dedicata al terzo decennale dell’abbattimento dell’aereo di linea Itavia nel cielo di Ustica, un ex ministro degli esteri della Repubblica, Gianni De Michelis, ha sostenuto pubblicamente che la ricerca della verità su quell’evento, per altro ormai chiarito nelle sue linee sostanziali, sarebbe inutile per il fatto che la copertura di quanto accaduto troverebbe giustificazione nell’esigenza primaria di non turbare i rapporti internazionali dell’Italia: questo nonostante (o proprio per il fatto) che i dati emersi in sede giudiziaria rivelino uno scenario di vera e propria guerra aerea nei cieli del nostro Paese nel giugno 1980, fra l’altro alla vigilia del più sanguinoso attentato terroristico avvenuto in Italia, la strage alla stazione ferroviaria di Bologna.
È di qualche giorno fa, inoltre, la pesantissima sentenza di condanna in primo grado nei confronti di altissimi esponenti dell’Arma dei Carabinieri e dei servizi di sicurezza italiani, tuttora collocati in posizioni chiave, da parte di un tribunale della Repubblica, in relazione ad attività illecite nel campo del traffico di droga e di armi che per natura, durata ed estensione sollevano molti interrogativi – nel senso che, alla luce di quanto abbiamo detto poco fa, sembra limitativo comprenderle nella categoria, appunto, della “questione morale”, ma semmai delineano scenari che richiedono un’analisi politico-militare ben oltre quella puramente giudiziaria.
Il coinvolgimento dell’Arma dei Carabinieri e dei servizi di sicurezza italiani non è del resto cosa nuova alle cronache dei fatti più gravi della nostra storia contemporanea. Basti ricordare, nell’ambito del processo per l’attentato di Peteano di Sagrado, la sentenza del l6 maggio del 1991, con cui la Corte d’Assise di Appello di Venezia ha sanzionato la responsabilità del colonnello Mingarelli e del capitano Chirico per i reati di falso e soppressione di atti nel corso delle indagini da essi esplicate.
Ma sono da tempo emersi anche scenari di intrecci operativi fra le istituzioni di sicurezza dello Stato e i cosiddetti contro-poteri criminali, nell’ambito delle molte inchieste sulla mafia, basti pensare alla condanna inflitta all’alto funzionario dei servizi Bruno Contrada. Ulteriori elementi in questo senso sono stati recentemente ben documentati, nello stringato linguaggio delle deposizioni in aula, in un altro meritevole volume uscito lo scorso maggio (Maurizio Torrealta, La trattativa, Rizzoli, 2010): alcuni nomi che riemergono in questa nutrita documentazione sono anch’essi ben noti alla storia “segreta” italiana dagli anni Settanta, evidenziando un altro elemento fondamentale, cioè la singolare continuità di queste strategie occulte, indipendentemente dai mutamenti politici apparenti e dall’evolversi degli scenari interni e internazionali.
Continuità che trova oggi ulteriore conferma su di un ulteriore fronte giudiziario, che ha preso corpo negli ultimi giorni, col quale tornano anche qui in evidenza vecchi protagonisti di alcune delle più clamorose e oscure vicende italiane, quale il caso Ambrosiano, anche in questo caso strettamente collegate a contesti internazionali di alto livello, quali la destabilizzazione della Polonia o le attività dei gruppi contras nell’America Centrale, nel corso degli anni Ottanta, alla vigilia del crollo del sistema comunista.
È dunque evidente che la storia del secondo dopoguerra italiano è attraversata da un fil rouge che rivela la dipendenza del nostro Paese da condizionamenti profondi dei suoi assetti politici, strategico-militari ed economico-finanziari, ad opera delle grandi forze traenti del mondo occidentale atlantico. Quella “sovranità limitata” di cui si è parlato fatti alla mano almeno a partire dagli anni Novanta e che oggi andrebbe meglio interpretata sul piano storico come una vera e propria etero-direzione del nostro Paese, sottratta a qualsiasi controllo democratico e guidata a colpi di mano, che hanno sparso il sangue di decine di concittadini inconsapevoli, innocenti ed inermi.
Certamente è oggi utile il confronto con le nostre origini risorgimentali: è vero infatti che fin da allora il nostro Paese ha subito influenze e condizionamenti soprattutto da parte delle grandi nazioni dell’Occidente del capitalismo colonialista, Gran Bretagna e Francia, e delle forze ad esse associate, in particolare l’alta finanza internazionalizzata, alla quale si legarono infatti quasi tutti gli esponenti dell’establishment unitario, da Cavour alla monarchia sabauda. Sappiamo anche che i fenomeni di trasformismo e clientelismo, di patologica commistione fra interessi economici e politici, i patti con le diverse mafie italiane, la pressione occulta della massoneria e della Chiesa Cattolica – tutti questi sono stati dalle origini elementi che hanno fortemente ridotto la capacità di libera azione dell’Italia nello scenario mondiale.
Ma è altrettanto vero che questi fenomeni sono stati a tratti vigorosamente contrastati da forze che avevano chiara coscienza dell’importanza del ruolo dell’Italia per un più giusto assetto internazionale in Europa, nel Mediterraneo e nel mondo, forze che dovremmo cominciare a studiare meglio anche da questo punto di vista: nella prima metà del Novecento, tali forze hanno infatti dato al nostro Paese, pur con tutti i limiti della loro azione, un’oggettiva capacità di svolgere un ruolo autonomo sul piano europeo, mediterraneo ed internazionale. Uno sforzo per completare il processo dell’indipendenza italiana che ha avuto però termine l’8 settembre del 1943, allorché la disgregazione della nazione italiana, la “morte della patria”, come è stata definita, provocando una sanguinosa guerra civile in parallelo alla sconfitta militare del Paese, ha condotto alla rinuncia definitiva a quell’indipendenza, pur così faticosamente conquistata.
Se questa prospettiva d’insieme è corretta, non dobbiamo sorprenderci non solo di quanto accaduto nel nostro Paese negli ultimi sessant’anni, ma ancor meno di dovere assistere oggi al silenzioso maturare di una nuova fase: la messa in discussione della stessa unità nazionale, con la progressiva enucleazione di tre Italie, grosso modo riconducibili all’Italia del nord, a quella centrale e a quella meridionale. Una suddivisione che ricalca in buona parte sia le divisioni della guerra civile che quelle della nostra storia pre-unitaria.
Sappiamo, da alcuni almeno dei testi che abbiamo citato, in particolare da quello di Torrealta, che questo è un obiettivo auspicato da sempre dai contro-poteri mafiosi, così come, almeno da un ventennio, dalle stesse forze che hanno gestito in profondità la strategia della tensione italiana – fatto questo che deve essere sottolineato con sicurezza ed energia, in quanto è logicamente dipendente dal fatto che un’Italia autonoma e forte è ovviamente percepita da queste entità come un pericolo per i propri interessi. E questo vale per i contro-poteri ma anche per quelle forze egemoniche che, impegnate in una politica di potenza, auspicano di poter continuare a condizionare la politica italiana, in particolare in ambito mediterraneo, gli Stati Uniti ed Israele in primo luogo.
Ci stiamo quindi avvicinando ad una condizione effettiva di perdita dell’unità nazionale anche se non necessariamente esplicitata da atti costituzionali o diplomatici; può essere agevolmente raggiunta semplicemente ricorrendo a interpretazioni ad hoc di strumenti come il federalismo o la sussidiarietà così come definita nell’ambito di talune politiche dell’Unione Europea.
Di tutto questo, la classe politica attuale è puro elemento di schermo, dal momento che nella storia del secondo dopoguerra il sistema dei partiti è stato comunque assoggettato alla logica dell’etero-direzione dovendo fornire specifiche garanzie ai poteri globali della continuità della collocazione italiana; oggi questo sistema dimostra di essersi addirittura ridotto ad un insieme disarticolato ed intercambiabile di gruppi di potere, cordate affaristiche, strutture di pressione, distribuite sul territorio secondo geometrie variabili, pertanto ancora più facilmente orientabili.
La condizione primaria per un’inversione di tendenza, quindi, risiede nella presa di coscienza diffusa che la questione di fondo è di nuovo quella dell’indipendenza dell’Italia, per cui la vera celebrazione dell’unità del Paese implica, per avere senso oggi, la vera e propria riattualizzazione dell’idea di indipendenza nazionale, per valutare con chiarezza quello che oggi essa richiede in una prospettiva risorgimentale.
In secondo luogo, è da dire con estrema decisione che in tale prospettiva si deve confluire con assoluta indipendenza di idee, prescindendo non solo dai partiti, ma anche dai vecchi schieramenti ideologici che hanno segnato la storia del Novecento: giacché questo è il senso della percezione comune da parte dei cittadini nella vita di tutti i giorni che le destre, le sinistre e i centri di oggi sono tutte “emiplegie dello spirito”, secondo un adagio dell’originaria ma sempre attuale polemica anti-parlamentaristica. Ma, perché questo sia vero, occorre soprattutto abbandonare categorie di esclusione, come i vari anti-comunismi e anti-fascismi cui ancora qualcuno ritualmente si richiama per salvaguardare così la propria comodità mentale e la propria superficialità di analisi storica.
In terzo luogo, chi ha a cuore la nostra indipendenza ha davanti a sé un lavoro di generazioni, un lavoro che non può quindi preoccuparsi della ricerca del potere immediato e della “conquista dello Stato”: se ci si pone in questa ultima, ridotta prospettiva, infatti, si presta immediatamente il fianco alle lucide operazioni di strumentalizzazione e condizionamento nelle quali sono assai esperti gli uomini dello “Stato profondo”, in Italia e nel mondo.
In questo senso, ma solo in questo senso più alto, è il caso di sottolinearlo, la prospettiva storica si pone come questione morale, superando però sia la dimensione giudiziaria che quella politica, entrambi in qualche modo parte di un’idea piccolo borghese di nazione: ora invece si tratta infatti propriamente di prosciugare lo spazio che hanno acquisito nelle coscienze i poteri forti contemporanei – ricostituendo la libertà interiore come sola premessa per la resurrezione della Patria.
Questo non significa consegnarsi all’utopia, significa al contrario lavorare ovunque sia possibile, in modo continuativo e concreto, per ricreare nel nostro Paese forze ideali, vale a dire pensieri, sentimenti e volontà che muovano nella direzione della libertà un’Italia che non a caso proprio in questa prospettiva emerse centocinquanta anni fa, faticosamente e con le armi in pugno, tra le grandi Patrie europee.
La missione intrapresa allora infatti era soltanto un inizio: ora occorre soltanto proseguire.
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