La sfida totale, intervista a Daniele Scalea

È recentemente uscito per la Fuoco Edizioni il saggio "La sfida totale – Equilibri e strategie nel grande gioco delle potenze mondiali" di Daniele Scalea, giovane e talentuoso ricercatore già redattore della rivista di geopolitica Eurasia ed ora al suo primo libro. La sfida totale è una gemma rara, uno straordinario esempio di come la geopolitca, apparentemente una disciplina così complessa da essere materia riservata solo a grigi specialisti, riveli invece una freschezza e una ricchezza di riferimenti, intuizioni, fascinazioni, che servono ad interpretare la storia dei popoli così come la cronaca politica internazionale. Abbiamo incontrato l’autore per una chiacchierata di largo respiro sul suo libro e alcuni aspetti della odierna situazione mondiale.

Daniele Scalea, grazie per averci concesso la possibilità di questa intervista. Comincerei proprio dall’inizio. Il generale Fabio Mini ha scritto la prefazione al tuo volume, brevi note ma palpitanti e profonde. Un tuo commento.

Il generale Mini è una figura d’altri tempi. Un militare che, ad una vasta conoscenza pratica e teorica della sua professione, ha affiancato lo studio approfondito di varie tematiche, il tutto in un quadro di vasta cultura umanistica. Qualcosa di ben diverso dalla cultura superficiale, o al contrario dall’iper-specializzazione, che si sono ormai affermati nella società odierna. È stato dunque un piacere ed un onore che il mio primo libro potesse essere prefato da una persona simile.
Per quanto concerne i contenuti della prefazione stessa, non posso che concordare e fare mia l’appassionata difesa della validità della geopolitica, anche se dal generale Mini divergo a proposito del giudizio sulla geopolitica classica. Secondo il Generale la geopolitica classica, incentrata sull’interesse e l’azione dell’attore statuale, passerebbe oggi in secondo piano rispetto ad una nuova geopolitica, non ancora formalizzata, che dovrebbe riguardare i nuovi soggetti primari della politica internazionale: le compagnie multinazionali, i capitali finanziari transnazionali, ed in generale le varie «reti» che bucano ed oltrepassano gli angusti confini dello Stato.
Indubbiamente, oggi vi sono poteri "informali" che hanno acquisito un enorme peso decisionale. A mio giudizio, però, non è sufficiente per individuare un nuovo paradigma geopolitico. L’influenza di potentati "extra-democratici" non è una novità della nostra epoca, per quanto oggi abbia raggiunto il suo massimo. Come ha insegnato l’imprescindibile lezione della scuola elitista, troppo spesso dimenticata proprio perché mina le fondamenta ideologiche del regime attuale, tutti gli Stati d’ogni epoca e luogo sono sempre stati oligarchie, a prescindere dal loro ordinamento formale. Da sempre le minoranze organizzate riescono ad avere la meglio sulle maggioranze disorganiche, sulle masse, e da sempre lo fanno anche tramando ed agendo nell’ombra. È significativo che Karl Marx, autore quanto mai distante dagli elitisti, considerasse lo Stato come uno strumento di dominio e sfruttamento della classe dirigente su quella subalterna, e che Thomas More – lontano tanto da Marx quanto dagli elitisti – definisse lo Stato «una conventicola di ricchi che, sotto nome e pretesto di Stato, pensano a farsi gli affari loro». Da notare che si tratta di pensatori distanti non solo negli orientamenti ma anche nel tempo e nello spazio, eppure tutti convergono nella sostanza sul loro giudizio dello Stato.
Pur non disponendo di una documentazione "dietrologica" ricca come quella concernente le epoche più recenti, sappiamo per certo che i magnati di Roma antica ebbero un ruolo di primo piano nel definirne la politica estera contingente. Nel Seicento e Settecento la politica dei Paesi Bassi fu determinata soprattutto dalla sua oligarchia mercantile. Nel secolo scorso il Banco di Roma incitò Giolitti a conquistare la Libia. Non sono mancate, in questo quadro, le influenze di potentati transnazionali del tipo cui fa riferimento Mini. Tanto per fare un esempio, l’espansione africana della Gran Bretagna nell’Ottocento avvenne principalmente su impulso di Lord Rothschild, ma nello stesso periodo il ramo francese della famiglia Rotschild finanziava l’imperialismo francese in Africa Occidentale. Non è neppure necessario citare lo stretto intreccio tra la politica statunitense ed il "complesso militare-industriale".
Ma tutte queste "spinte", appena descritte, non sembrano essere state troppo divergenti dall’effettivo interesse nazionale degli Stati influenzati: Roma continuò ad espandersi attorno al Mediterraneo, rimanendo fedele alla natura geopolitica del suo impero; i Paesi Bassi cercarono di diventare la prima potenza marittima, coerentemente coi caratteri geografici del loro paese; l’Italia perseguiva la penetrazione nel Nordafrica e, in ottica di lungo periodo, l’egemonia mediterranea, logica politica di potenza per una penisola montuosa nel cuore dello stesso; infine, Francia e Gran Bretagna cercavano di crearsi propri imperi coloniali per sostenere il rafforzamento dell’apparato industriale, elemento imprescindibile della potenza statale.
Le oligarchie, com’è ovvio, concorrono in maniera non trascurabile a definire l’interesse nazionale, ma non possono ignorare del tutto quel che è l’interesse oggettivo, potremmo dire scientifico, della nazione: e quest’ultimo è fissato prima di tutto dalla geografia. Le nazioni in cui l’interesse soggettivo dell’oligarchia diverge da quello oggettivo della nazione, e s’impone su di esso, sono destinate al declino. Ma le nazioni in cui l’interesse oligarchico s’accorda e si fonde con quello nazionale hanno saputo raggiungere, storicamente, i vertici della potenza.
Se partiamo da questo presupposto – che nel corso della storia intera tutti gli Stati sono intimamente più o meno oligarchici, che tutte le oligarchie concorrono a fissare l’interesse nazionale, e che le oligarchie nazionali possono essere legate tra loro (nell’Età Moderna le dinastie regnanti erano tutte imparentate, ma ciò non impedì loro di combattersi incessantemente, così come i magnati finanziari ed industriali erano tutti in affari tra loro nella prima metà del Novecento, ma non di meno permisero due drammatiche guerre mondiali) – allora la dinamica giustamente sottolineata da Mini non ha però un peso talmente radicale da mutare il paradigma geopolitico stesso. Va tenuta in debito conto, ma non cancella la realtà geografica con cui le società umane debbono fare i conti.

Sono rimasto affascinato dalla concezione della geopolitica classica della divisione e contrapposizione tra potenze terrestri e marittime di cui parli nel primo capitolo del libro, e di come queste caratteristiche geografiche possano influenzare non solo le strutture economiche ma anche l’organizzazione statuale e la stessa antropologia dei cittadini. Ci puoi illustrare brevemente questi concetti?

È sempre stato un concetto tanto palese quanto contestato quello che la geografia influisse in maniera determinante o poco meno sulle sorti delle società umane. Ciò è infatti inaccettabile agli occhi di tutte le ideologie universaliste, si chiamino esse "cristianesimo" o "marxismo" o in altro modo ancora, le quali rientrano tutte nel solco del progressismo unilineare. La geografia è un elemento differenziante le società umane (gli habitat non sono uguali per ogni popolo) e come tale non può essere presa in considerazione tra i fattori determinanti se si vuol sostenere che le civiltà hanno tutte un comune destino ineluttabile. Se invece non si vuole partire da una premessa generale (che può essere il "Paradiso" così come il "Comunismo" o la "superiorità della razza ariana") e ricavare per deduzione tutto ciò che ne discende, ma al contrario si vuol partire dall’osservazione empirica della realtà per indurne delle regole generali, allora la geografia conquista un posto di primo piano nella definizione delle sorti delle società umane.
Charles Darwin ha spiegato in maniera abbastanza convincente come le specie viventi reagiscano all’ambiente circostante adattandovisi. Quest’adattamento non riguarda solo i caratteri fisici, ma anche i comportamenti. Oswald Spengler, ad esempio, spiegava con la geografia (e dunque con l’adattamento all’ambiente) le diverse attitudini di due popoli che, dal punto di vista biologico, sono decisamente simili: quello inglese e quello tedesco. I Tedeschi, trovandosi nel mezzo di una pianura aperta su più lati, esposti ad ogni tipo di pressione da parte dei vicini, hanno sviluppato un naturale senso di coesione e solidarietà di gruppo: il comunitarismo tedesco sarebbe un surrogato di confini naturali certi. Al contrario gl’Inglesi, protetti dal mare e dediti alle attività di navigazione, avrebbero perciò sviluppato il loro peculiare individualismo. Carl Schmitt, addirittura, individuava l’origine della speculazione finanziaria nella pesca, che a differenza dell’agricoltura non dà un prodotto necessariamente proporzionale al lavoro ma dipende dalla fortuna.
Non c’è bisogno di spingersi fino ad interpretazioni così stringenti e particolari per trovare esempi dell’influenza geografica sulla storia. È certo che solo in presenza di pianure fertili e corsi d’acqua si sono potute sviluppare le grandi civiltà stanziali, e che è proprio in queste civiltà che si sono create istituzioni statali e sociali più articolate (il sovrappiù alimentare permette la differenziazione delle attività). È certo che senza ingenti risorse di carbone la piccola Gran Bretagna non sarebbe stata così potente nell’Ottocento. È certo che senza la scoperta di rotte alternative verso l’Oriente (Capo di Buona Speranza, Stretto di Magellano) il ruolo economico dell’Italia non sarebbe declinato nel Cinquecento. Se il riso (che accelera lo svezzamento) non fosse stato originario della Cina e ivi coltivato già ottomila anni fa, difficilmente gli Han si sarebbero moltiplicati con tanta rapidità. Si potrebbero fare infiniti esempi su come la geografia sia stata determinante nella storia di ogni popolazione.
Sarebbe però un errore sfociare nel puro e semplice determinismo geografico. Non a caso, tra gli eserghi del mio libro ne ho scelto uno di Halford Mackinder (tra i padri nobili della geopolitica), il quale afferma che: «L’equilibrio di potenza è il prodotto delle condizioni geografiche e di fattori relativi, come il numero, la virilità, l’equipaggiamento e l’organizzazione dei popoli in competizione». L’uomo è un artefice del proprio destino, seppure non l’unico. Usando una metafora calcistica, sicuramente calzante in questi giorni, la geografia detta le regole del gioco, ma poi in campo ci scendono degli esseri umani, capaci tanto di errori quanto d’intuizioni geniali.

Nel tuo volume dai ampio spazio alla figura ed al pensiero geopolitico di Zbigniew Brzezinski. Nonostante sia considerato un mentore del presidente Obama, a me pare che la sua visione strategica (contenimento dell’Eurasia con la Russia suo elemento centrale; transizione di Ucraina ed Iran nel campo occidentale) non sia prevalente nell’attuale politica americana. Concordi? Quali sono attualmente i principali antagonisti della dottrina Brzezinski?

Brzezinski è mentore di Obama, che l’ha definito «uno dei maggiori pensatori» degli USA contemporanei. Bisogna però considerare che Obama, diventando presidente, si è trovato davanti una situazione particolare. Dal predecessore ha ereditato un debito pubblico fuori controllo, due guerre in corso e dall’andamento non positivo, cattivi rapporti con mezzo mondo e, anche se questo non si può addebitare a Bush jr. (o almeno non a lui principalmente), una grave crisi economica. È normale che in tali condizioni non si possa fare tutto quel che si vorrebbe.
In ogni caso, la politica di Obama è ostile alla Russia almeno quanto quella del predecessore. Al di là della retorica del "reset nelle relazioni bilaterali", si può osservare che: lo scudo antimissili balistici non è stato abbandonato, ma solo ristrutturato (postazioni mobili anziché fisse, che sarebbero vulnerabili agli Iskander russi piazzati nell’exclave di Kaliningrad) ed infine ampliato (si progettano componenti anche in Romania e Bulgaria); Washington si è accordata con Mosca per sanzioni condivise contro l’Iràn, e subito dopo – contro la volontà russa – ne ha varate unilateralmente di ulteriori; recentemente la segretaria di Stato Hillary Clinton ha svolto un tour per i paesi ex sovietici, rassicurandoli sul sostegno degli USA contro il rischio di ritornare entro la sfera d’influenza moscovita.
Alla luce di quanto appena detto, ritengo che Brzezinski continui a fare scuola a Washington. Tuttavia, la sua influenza diminuisce sensibilmente quando ci si sposta nel Vicino Oriente, perché la voce più forte diviene quella della lobby sionista.


L’amministrazione Obama sta cambiando in qualche modo il contesto geopolitico americano? È già possibile delineare un carattere "obamiano" della attuale politica estera Usa?

Anche i più feroci critici di Obama gli riconoscono sempre almeno un pregio: è un bravo oratore. Credo che proprio nelle parole stia la maggiore innovazione apportata da Obama alla politica estera statunitense. Bush abbaiava e mordeva. Obama continua a mordere ma cerca di non abbaiare, perché capita che una parola di troppo, in diplomazia, faccia più danni di una bomba. Ho appena citato il caso dei rapporti con la Russia: Obama sorride e stringe la mano a Medvedev, ma poi appena il Presidente russo si distrae, inanella una serie di misure antimoscovite che farebbero invidia ai tempi della Guerra Fredda (abbiamo avuto persino la retata di "spie" russe – alcune delle quali, come Vicky Peláez, erano al massimo degli "agit-prop" moscoviti, non certo dei ladri d’informazioni riservate). Medvedev non è un caso isolato. Obama sta dispensando abbracci e sorrisi a molti dei suoi nemici, cercando poi di pugnalarli alla schiena. Ha abbracciato Chávez per poi circondare il Venezuela di truppe statunitensi. Si mostra amichevole con Lula da Silva ma sostiene sottobanco l’opposizione brasiliana. Dispensa elogi a Berlusconi, ma non sorprenderebbe scoprire un giorno che, nel corso dell’ultimo anno, abbia manovrato per farlo cadere e sostituirlo con qualcuno che non consideri Putin "un amico".


Nel capitolo dedicato a Cina e India mostri come il Dragone viva nell’attuale contesto geostrategico una straordinaria ambivalenza: può essere considerato il competitore fondamentale dell’Impero ma allo stesso tempo anche una sorta di "hub dell’occidente" e l’economia cinese un "interfaccia" della globalizzazione anglosassone in oriente. L’attuale strategia statunitense in Medio Oriente e Asia centrale può essere considerata come un’operazione su larga scala per costringere la Cina a divenire in maniera strutturale il socio di minoranza dell’Impero? Qual è la tua opinione?

L’idea della Cina come junior partner appare ormai superata. Lo stesso Obama ha optato, nei primi mesi della sua amministrazione, per un "G-2", che almeno sulla carta prevederebbe un rapporto paritario. La Casa Bianca, però, non è più abituata a trattare "alla pari" con qualcuno, e Pechino si è risentita per alcune provocazioni – come la massiccia vendita di armi a Taiwan (e qui ritorniamo all’Obama che sorride ma nel frattempo pugnala alle spalle).
Oggi gli USA cercano piuttosto un asse con la Russia per arginare la Cina ma, come abbiamo visto, non mancano neppure le provocazioni a Mosca.
Attualmente mi pare che la Cina navighi verso l’emancipazione: riduce le riserve in dollari e l’acquisto di buoni del Tesoro statunitensi, rafforza lo yuan per proporlo come valuta di riferimento in Oriente, ristruttura lentamente la propria economia verso il mercato interno, vara un importante programma di riarmo navale. L’incognita è la possibile prossima crisi finanziaria in Cina. Il governo si sta sforzando di sgonfiare in maniera controllata la bolla immobiliare. Se fallisse, molte cose potrebbero cambiare, ma non è scontato che lo facciano in meglio per gli USA. L’economia statunitense rimane in bilico sull’orlo del baratro, e l’onda lunga d’una eventuale crisi cinese potrebbe farle perdere l’equilibrio.

 

Usciamo infine dalle pagine del tuo volume per una incursione nella cronaca geopolitica. Analisti e commentatori si stanno dividendo sulle previsioni circa una possibile drammatica guerra prossima ventura in Medio Oriente. C’è chi sostiene, tra cui anche il sottoscritto, che si giungerà prima o poi ad un confronto bellico con Teheran; altri ritengono, se non sbaglio tu ti trovi su questa linea, che alla fine una guerra non ci sarà. Qual è la tua posizione e la tua analisi attuale?

Io non so se la guerra ci sarà "alla fine", perché si tratta di un tempo troppo poco determinato per pronunciarsi. Rimango dell’opinione che non ci sarà "a breve", e questa previsione si è finora rivelata azzeccata – e spero, non solo per vanagloria personale, che continui ad esserlo ancora a lungo.
Obama si è presentato come l’uomo che avrebbe risolto per via negoziale la crisi iraniana: sarebbe pronto ad affrontare il contraccolpo d’immagine che conseguirebbe ad uno sviluppo bellico della stessa?
Gli USA hanno truppe in Iràq e Afghanistan: da ciò deriva che a) sono vulnerabili a rappresaglie iraniane e b) il loro esercito "di campagna" è in larga parte immobilizzato. Non sono le condizioni ideali per attaccare il paese persiano.
Il debito pubblico di Washington è ormai fuori controllo, ed una nuova guerra non gli gioverebbe. A meno di pensare che, come successo spesso in passato, una nuova guerra possa rilanciare l’economia statunitense. Però ogni guerra dev’essere commisurata alla crisi che dovrebbe risolvere. Attaccare l’Iràq all’inizio degli anni ’90 o dopo l’esplosione della bolla "IT" può risolvere piccole crisi congiunturali, ma per crisi sistemiche come quella attuale sarebbe necessario un conflitto mondiale (vedi il Ventinove).
Molti di questi deterrenti non si applicano a Israele, che rimane perciò l’indiziato principale per un ipotetico attacco aereo contro l’Iràn. Credo ci siano discrete possibilità che Tel Aviv lanci una nuova aggressione bellica entro la fine dell’anno, ma la vittima più probabile è ancora una volta il Libano.
Il programma nucleare iraniano non è ancora così minaccioso da giustificare un’opzione militare. Anche se, come si diceva in precedenza, spesso gli uomini sbagliano. E i dirigenti a Washington e Tel Aviv, più di molti altri, negli ultimi tempi ci hanno abituato a parecchi errori, soprattutto quando a pagarli col sangue sono altri popoli.

Scheda libro:
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Dove trovarlo:
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