La diplomazia israeliana sotto scacco

Per Israele, dopo anni e anni, sembra sgretolarsi l’impunità di fatto di cui questo Stato ha goduto, in sede internazionale, per la sua politica avventurista e per quanto commesso dal 1982 ai nostri giorni sia in Libano che nei Territori occupati.

Ha cominciato l’AIEA, il 18 settembre scorso, approvando per la prima volta un documento che censura il possesso illegale di testate atomiche (mai ufficialmente dichiarate, ma stimate nell’ordine delle centinaia) da parte dello Stato ebraico, invitandolo perentoriamente a firmare il Trattato di non proliferazione nucleare ed a sottoporsi ai controlli periodici da parte della stessa AIEA.

I rapporti con la Turchia poi, fino a pochi mesi fa alleato di ferro di Israele, stanno precipitando; infatti il primo ministro turco Erdogan, dopo aver aspramente criticato Israele per sua operazione "piombo fuso" contro Gaza tenutasi a cavallo tra il 2008 e il 2009, ha parlato apertamente di "crimini" di guerra da parte israeliana e ha cancellato le manovre congiunte tra l’aviazione israeliana e quella turca nell’ambito delle esercitazioni NATO che si sono tenute in Turchia.
Lo stesso Erdogan si è poi recato a Teheran il 27 ottobre, accolto con tutti gli onori da Ahmadi Nejad, per affermare la necessità di un deciso miglioramento dei rapporti tra i due Paesi e con la Siria di Bashar Al Assad. In quella occasione Erdogan si è anche detto sicuro della buona fede del governo iraniano nello sviluppo di tecnologia nucleare per scopi pacifici, facendo chiaramente intendere che un’aggressione armata da parte israelo-americana all’Iran potrebbe avere conseguenze molto gravi nelle relazioni di quei due Paesi con lo Stato turco.

Mahamud Abbas (alias Abu Mazen) ha recentemente manifestato la volontà di non ripresentarsi alle elezioni di gennaio per la presidenza dell’Autorità nazionale palestinese, amareggiato per lo stallo dei negoziati. Il governo israeliano si è grandemente allarmato per questa decisione, poiché Abu Mazen è stato, finora, l’unico ad accettare il negoziato con gli occupanti senza porre precondizioni e, soprattutto, senza porre limiti di tempo al raggiungimento di un accordo qualsivoglia, tanto da destare ragionevoli sospetti, nel mondo musulmano, che egli sia uno strumento in mano a Washington e Tel Aviv, piuttosto che colui che dovrebbe difendere gli interessi di coloro che subiscono da più di 40 anni un’occupazione militare da parte di uno Stato straniero. La possibilità che venga eletto qualcuno che voglia negoziare risolutamente e con traguardi precisi preoccupa molto Tel Aviv, tanto che Shimon Peres (Presidente della repubblica) ha pubblicamente invitato Abu Mazen a rivedere le sue posizioni.

Ma la minaccia più grave, per la diplomazia israeliana, sembra oggi provenire dall’ONU.

L’assemblea plenaria ha infatti approvato, il 5 novembre, una risoluzione (con 119 "sì", 8 "no" e 44 astenuti) che "invita" il governo israeliano a istituire, entro 3 mesi, una commissione "credibile ed indipendente" che indaghi su "eventuali" crimini di guerra e di crimini contro l’umanità commessi durante l’ operazione "piombo fuso" che ha provocato, a Gaza, circa 1400 morti (quasi tutti civili) per causa dell’esercito israeliano.
La stessa risoluzione raccomanda poi al Segretario generale Ban Ki Moon di portare, sempre entro 3 mesi, la questione al Consiglio di sicurezza per prendere eventuali misure.
La risoluzione deriva dal recepimento, da parte dell’Assemblea generale, del rapporto Goldstone (dal nome del giudice sudafricano che ha presieduto una apposita commissione istituita dal Consiglio dei diritti umani della stessa ONU); essa prevede altresì la trasmissione del rapporto Goldstone al Tribunale Penale Internazionale (TPI) dell’Aia.
A questo punto la grana passa nelle mani di Barack Onbama e del TPI.
Se, infatti, il Consiglio di sicurezza dovesse adottare una ferma risoluzione di condanna (con eventuali sanzioni) contro Israele per quanto perpetrato a Gaza, Obama, causa le fortissime pressioni delle lobbies sioniste, sarebbe costretto a porre il veto. Resta da vedere, in questo caso, cosa rimarrebbe della credibilità "ecumenica" verso il mondo musulmano di un Presidente americano che, per secondo nome (ironia della sorte!), porta quello di Hussein, cioè dell’Imam nipote di Muhammad morto da eroe a Karbala nel 680 e celebrato in tutto l’Islam.
Il TPI, dal canto suo, che ha sempre dormito sonni profondi nei confronti delle malefatte israeliane compiute negli ultimi decenni, non potrà più ignorare la questione delle stragi di Gaza, data l’autorevolezza (la segreteria ONU) da cui proviene l’invito ad esaminare il rapporto Goldstone; se ne dovesse scaturire una formula assolutoria per Israele, questo tribunale perderebbe ogni residuo di credibilità, già fortemente compromessa.

Un’epoca sembra finita per Israele: quella dell’impunità e della incriticabilità assoluta, pena l’accusa infamante (equivale ad una scomunica laica) di "antisemitismo".
Sarà veramente così?

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