Tremonti: le banche non comandino sui governi

Il Ministro dell’Economia Giulio Tremonti, ha esternato un pensiero che da anni è piuttosto conosciuto. Ossia la sua scarsa simpatia per banche, banchieri e finanzieri. Fanno comunque riflettere le critiche rivolte alla casta finanziaria, sia per la veemenza con la quale è stata espressa, sia in relazione al luogo: summit del G 20 a Londra.
Tremonti ha continuato nel suo fuoco di fila dicendo, tra l’altro "che non ha più senso che le banche siano più grandi dei Governi stessi" anche perché "poi quando hanno dei problemi , sono anche problemi dei Governi". Il "turbo capitalismo" secondo il neologismo di E. Luttwak, il primato della finanza sull’economia reale, di fatto l’asservimento del lavoro alla speculazione ed al profitto, hanno plasmato un sistema economico (e sociale) malato, dove la dignità dell’uomo è stata confinata in vuoti meandri tecno giuridici sempre più lontani dalla concretezza del vivere quotidiano. In questa "crescita senza regole" dei mercati finanziari, i famosi "guru" dell’attuale neoliberismo hanno osannato la crescita dimensionale ed il gigantismo quale elemento di forza delle imprese per qualunque settore merceologico si parli. In realtà hanno avallato a livello teorico e pseudo culturale la nascita di oligopoli, cartelli ed in genere concentrazioni economiche lesive del principio della concorrenza (lo stesso per il quale gli stessi "guru" si sbracciano affermando la sua intangibilità).
Per le banche il problema si pone in termini ancora più preoccupanti e la crisi finanziaria del 2008/9 ne ha data una tragica e lapalissiana prova. Il tracollo di una sola grande banca come la Lehman Brothers ha messo a repentaglio la solidità del sistema finanziario mondiale. Oltre alle implicazioni legate ai rischi sistemici, la grande dimensione dà all’istituzione finanziaria (più che in altri settori) un potere così grande da essere paragonabile a quello delle istituzioni politiche e del Governo. L’Italia con la sua ricchezza concentrata nelle piccole e medie imprese, sente ancora meno l’esigenza di disporre di grandi concentrazioni finanziarie. Malgrado ciò, pure nel nostro paese, nel corso dell’ultimo decennio, si è consolidata la "cultura" del "grande è bello", o anche dell’esigenza di disporre di "campioni nazionali". Sono nate due superbanche (Unicredit e Intesa San Paolo) che dispongono di quasi un terzo dell’intero mercato bancario nazionale ed hanno posizionamenti strategici in tutti o quasi i paesi dell’Europa Centrale e Orientale. Entrambe le banche hanno promosso l’immagine della banca del territorio: grande banca sì, ma rispettosa del territorio in cui opera, delle sue peculiarità e delle sue specifiche esigenze. Frasi ad effetto adatte per campagne promozionali ma distanti dalla realtà. Infatti, al di là della forma, le grandi banche rispondono ad esigenze strategiche legate alla ricerca della massimizzazione degli utili, che di fatto stravolgono qualsiasi tentativo di operare in sintonia con il territorio (e quindi la specificità delle sue imprese e dei suoi clienti privati).
Se la crisi finanziaria non ha comportato problemi drammatici (almeno finora) per le grandi banche italiane, è pur vero che nel nostro paese la stretta creditizia c’è stata ed è tuttora in corso, ed in tal caso chi ha chiuso i rubinetti del credito (e ne ha elevato la sua onerosità) sono proprio i tanto decantati campioni nazionali. Il Ministro su questo punto è incalzante: "le banche hanno raccolto molti fondi pubblici, soprattutto all’estero", la liquidità concessa alle imprese non può essere "insufficiente" come invece accade anche in Italia. "Noi abbiamo un’economia fatta di piccole e medie imprese e un eccesso di concentrazione in banche che hanno una dimensione industriale e vedono troppo poco il territorio, le famiglie, gli imprenditori e le persone".
Il Ministro Tremonti ha aspramente criticato lo scarso entusiasmo con il quale le banche italiane hanno salutato l’istituzione dei "Tremonti bond". Secondo Tremonti l’emissione di questi strumenti da parte degli istituti di credito amplierebbe notevolmente (con un rapporto di moltiplicazione di 1 a 10) la liquidità del sistema a tutto vantaggio delle piccole e medie imprese e delle famiglie che rischiano di rimanere strangolate dal credit crunch. D’altra parte è intuitiva la logica seguita dalle grandi banche. Queste, infatti, hanno acquisito liquidità a prezzi stracciati presso la Banca Centrale Europea, lesinando nel concedere o rinnovare linee di credito alle aziende ed ai privati. La penuria di credito ha permesso alle banche in genere ed in particolare a quelle di maggiore dimensione di applicare condizioni più onerose che la clientela ha dovuto accettare obtorto collo. Una ulteriore espansione del credito (sovvenzionata dai tremonti bond – più costosi dei fondi della BCE -) eroderebbe i margini delle banche sulla intermediazione del denaro e aumenterebbe il rischio di sofferenze, perché tali interventi, presumibilmente, verrebbero effettuati a favore del segmento di clientela più debole (e quindi anche più a rischio).
Così la banca, soggetto che dovrebbe perseguire una funzione di pubblico interesse dimentica questa sua peculiarità perché viene gestita con metodi privatistici. Tali metodi pongono il profitto (per gli azionisti) ed i premi (per i managers) quali obiettivi primari da perseguire che, ovviamente, sono in netta antitesi con il carattere pubblicistico della funzione bancaria. Nel caso di grandi banche (spesso multinazionali) la dimensione consente di superare anche i limiti ed i vincoli (se non altro di moral suasion) della politica economica perseguita dal Governo presso il quale opera l’istituto di credito, così da renderle "super politiche", in grado cioè di operare con una pressoché totale autonomia dai centri di potere politico (e quindi dal controllo dei cittadini). Se a questo aggiungiamo che la cosiddetta banca universale il cui modello è presente in Italia e pressoché in tutti i paesi industrializzati, consente agli istituti di credito di operare anche in settori (definiti parabancario) che ampliano a dismisura l’ambito d’azione (e di conseguenza l’influenza delle stesse) possiamo comprendere le preoccupazioni del Ministro Tremonti.
Così anche le parole di Calderoli, "avremmo fatto bene a nazionalizzare qualche istituto di credito, ma si può sempre recuperare" presentate dalla stampa nazionale come una sbiadita nostalgia del ritorno al modello a controllo pubblico, potrebbero essere accolte con più attenzione rispetto al sorriso un po’ snob che con malcelata superiorità ha caratterizzato la reazione della maggior parte degli uomini politici e di cultura italiani. Infatti solo la stratificata e potente influenza dei centri finanziari in Italia e nel resto del mondo industrializzato ha impedito una sana e doverosa riforma dei mercati finanziari e del sistema bancario dopo la drammatica crisi scoppiata a cavallo tra il 2008 e il 2009. In questo ambito Tremonti rappresenta una delle poche voci fuori dal coro che pigiano il dito sulla piaga e cioè sulle enormi responsabilità di un sistema finanziario rapace, distruttivo della ricchezza creata dal lavoro. Il sistema mediatico internazionale confina, in prevalenza, questi interventi relegandoli a supposte antipatie personali che il ministro avrebbe nei confronti del governatore della Banca d’Italia Draghi o contrapposizioni "politiche" con gli amministratori delle maggiori banche italiane (Unicredit e Banca Intesa), Profumo e Passera, in quanto legati entrambi al Partito Democratico.
In realtà la posizione di Tremonti è volta a rompere questa coltre mefitica che il sistema finanziario ha posto sulla società e sull’economia dei paesi industrializzati, ma come già accaduto nel precedente Governo Berlusconi le bucce di banana poste lungo il suo percorso sono numerose e altrettanto pericolose.
Buon lavoro signor Ministro e auguri.

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