Se gli italiani sparano ad Hezbollah…

L’11 agosto 2006 la risoluzione ONU 1701 dava mandato ai caschi blu della missione Unifil, composta da militari italiani, francesi, spagnoli, di schierarsi come forza di interposizione di pace nel sud del Libano al confine con Israele. Erano le premesse per la cessazione delle ostilità della cosiddetta "terza guerra libanese" scoppiata per incidenti di confine tra le milizie sciite di Hezbollah e l’esercito di Tel Aviv.
I 34 giorni di conflitto avevano causato la morte di alcune migliaia di civili libanesi, quasi un milione di rifugiati e pesanti danni alle infrastrutture del Paese dei Cedri in seguito ai massicci bombardamenti dell’aviazione e l’invasione del sud da parte dell’esercito israeliano.
Tuttavia l’incapacità delle preponderanti forze di Tsahal (l’esercito israeliano) di piegare la tenace resistenza militare di Hezbollah e infine l’accettazione da entrambe le parti della risoluzione ONU, hanno lasciato la generale impressione di una vittoria, quanto meno politica, del Partito di Dio libanese.
Ma osservando i fatti in un contesto più ampio ed in una prospettiva di periodo, altre considerazioni si possono aggiungere. Israele fronteggia quattro scenari di possibile guerra o guerriglia. I "fronti interni" palestinesi (in particolare la Striscia di Gaza governata da Hamas), i confini nord con appunto Libano e poi Siria, e il nemico "finale" Iran, specialmente se quest’ultimo dovesse continuare la politica di dotarsi (come pretende la diplomazia occidentale) di armamenti atomici.
Israele ha considerato e sta considerando di affrontare uno scontro militare diretto contro l’Iran, che sarebbe soprattutto un confronto aereo e missilistico. In un tale drammatico contesto la sicurezza del paese necessiterebbe che le retrovie fossero poste sotto stretto controllo.
Infatti, con l’operazione Piombo Fuso dello scorso inverno, Israele sembra avere definitivamente invalidato la possibilità di Hamas di proporre con una qualche efficacia operazioni militari contro lo stato ebraico. Allo stesso modo la guerra del Libano del 2006 sembra aver posto sotto tutela eventuali velleità di Hezbollah.
La missione Unifil, fortemente voluta in Italia dall’allora governo Prodi, ed in particolare dal ministro degli Esteri Massimo D’Alema, col consenso pressoché unanime di tutte le maggiori componenti politiche anche d’opposizione, si insediò e partì con una ambiguità di non poco conto. Se la risoluzione 1701 prevedeva infatti, accanto al ritiro dell’esercito israeliano, il disarmo di Hezbollah da compiersi da parte dell’esercito regolare libanese e della stessa Unifil, fin da subito le forze in campo ritennero impraticabili operazioni di disarmo delle milizie combattenti, salvo doversi scontrare apertamente con esse.
Hezbollah ha quindi mantenuto la sua capacità militare, e gli uomini dell’Unifil si trovano tra due fuochi costantemente sul punto di riaccendersi. In questi tre anni non sono mancate provocazioni e rotture della tregua, sia da parte israeliana che da parte di groppuscoli riferibili alla resistenza libanese. Nel 2007 un attentato colpiva la missione provocando sei vittime nel contingente spagnolo.
E le notizie che arrivano in quest’ultimo periodo dal Libano non sono affatto rassicuranti. Il britannico Times ha riportato che Hezbollah ha ammassato al confine circa 40mila razzi di medio raggio in grado di colpire Tel Aviv. I comandi militari ebraici sostengono che "la guerra può scoppiare da un minuto all’altro".
Nel contempo il leader del Partito sociale progressista, appartenente alla componente drusa, Walid Jumblatt, ha dichiarato di voler lasciare la coalizione filo-occidentale appoggiata dall’Arabia Saudita che ha recentemente vinto le elezioni (in seggi anche se non in voti) ed ha espresso il primo ministro Saad Hariri. Questo rimescolerebbe le carte delle complesse alchimie ed alleanze che caratterizzano il panorama politico libanese, nonché determinare un momento di destabilizzazione e vuoto di potere.
In Italia è del tutto assente un dibattito politico ed intellettuale sulle sorti della missione nel caso che la situazione precipiti. Eventualità non certo trascurabile. Il rischio evidente è che la nostra classe politica possa trovarsi, come spesso accade, impreparata (volutamente impreparata?) agli eventi e quindi facilmente trascinata dentro scenari allestiti da chi possiede capacità strategiche e di analisi ben più sviluppate.
Fin dalla metà degli anni ’90 i think tanks usraeliani concepirono la strategia che avrebbe improntato, fino ai nostri giorni ed a seguire, le mosse politiche di Tel Aviv, l’ormai celeberrimo Clean Break che avrebbe garantito ad Israele una pace duratura su una posizione di potenza nella regione.
In questo contesto tre sono i possibili scenari pesantemente critici:
Israele attacca preventivamente l’Iran e lascia all’Unifil il compito di fermare con la forza una eventuale reazione delle milizie filo-iraniane di Hezbollah;
incidenti di confine, provocazioni e contro-provocazioni, fanno divampare di nuovo la guerra e l’Unifil si trova nel mezzo degli scontri: se colpita, reagirà e contro chi?;
l’instabilità politica interna libanese provoca una guerra civile sostanzialmente combattuta per procura, tra Iran e Siria da una parte ed Arabia Saudita e Israele dall’altra, attraverso le varie fazioni del paese. Se all’Unifil venisse chiesto, come da suo mandato originario, di disarmare Hezbollah, come si dovrà comportare?
Un incubo è ricorrente nelle tre ipotesi. La missione di pace a guida italiana potrebbe essere costretta da eventi determinati da forze esterne ad entrare in armi nel conflitto contro una delle componenti sul terreno, Hezbollah e la resistenza libanese.
Rientra questo negli scenari previsti ed accettati dalla nostra classe politica, dall’intelligence, dai vertici delle Forze Armate? Più in generale corrisponde alla vocazione italiana che ha costruito tra innumerevoli difficoltà, e spesso con arditi equilibrismi geopolitici, una solida tradizione di mediazione e pacificazione nel Mediterraneo ed in Medio Oriente?
Siamo pronti a buttare al vento in questa partita decenni di politica internazionale? Perché siamo in Libano? Quali sono i nostri obiettivi strategici? Chi sono, se ci sono, gli alleati e chi i nemici? Quali regole di ingaggio devono adottare i nostri militari?
Furono probabilmente ben pochi gli italiani che nella matura estate del 2006 si posero queste domande. Ora devono essere molti meno visto che della nostra missione Unifil in Libano non si parla praticamente più. Invece è necessario che ogni cittadino che ha a cuore il destino del Paese si interroghi e ponga con forza alla nostra classe dirigente queste stesse domande, nel modo e con la possibilità che ognuno ha.
Altrimenti, a giochi fatti, potremmo ritrovarci a piangere nostri soldati, a celebrare nostri eroi, caduti, come troppo spesso negli ultimi anni, in una guerra forse non nostra, e combattuta per altri.

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