Ripensare la democrazia europea

La partecipazione popolare alle elezioni europee, a livello continentale, è andata gradualmente diminuendo, dal 63 per cento delle prime elezioni nel 1979 al 46 per cento del 2004. È improbabile che questa tendenza si inverta oggi.
Certamente molte sono le differenze dell’Unione Europea di oggi rispetto a trenta anni fa, a molteplici livelli: è sicuramente mutato il clima politico complessivo, con la fine della contrapposizione fra blocco occidentale e blocco comunista; il processo di allargamento ad est, a seguito del quale l’omogeneità storica dei componenti della Comunità si è profondamente modificata, è quasi interamente compiuto; ma sono finora falliti i tentativi di costruire una forte identità comune, come dimostrano le difficoltà incontrate nell’elaborare una politica estera e persino una costituzione comune.
Chi segue più in dettaglio l’evoluzione dell’Unione, sa che da tempo gli studiosi concordano nel ritenere che vi sia un deficit di democrazia in come essa si è strutturata: le critiche si appuntano in particolare a quel singolarissimo organo che ne dovrebbe rappresentare il potere esecutivo, la Commissione, la cui nomina non rispecchia nessuno dei criteri ordinariamente seguiti nei sistemi democratico liberali in Europa e nel mondo, ragione per cui il suo enorme potere tecnico-politico non è democraticamente fondato.
Così come tutto il processo decisionale, la cui elaborata metodologia viene descritto col termine di comitatologia, ha spesso portato a delle situazioni di stallo che per lo più vedono una contrapposizione fra Parlamento e Commissione. In molti casi, queste contrapposizioni si risolvono con una decisione della Commissione, che non rispecchia quindi i voti parlamentari.
Il fatto poi che una Commissione non democraticamente eletta sia esposta a formidabili pressioni dai gruppi di interesse che si sono, spesso istituzionalmente, costituiti a livello europeo, il cui lavoro è spesso ignoto ai più ma che risulta determinante nell’orientarne le decisioni, illustra il rischio che l’Unione Europea agisca sulla spinta più di lobbies che non rispecchiando le aspirazioni dei popoli dei suoi Ventisette attuali membri.
Nonostante l’importanza dei temi trattati a livello comunitario (ricordiamo solo a titolo di esempio le regolamentazioni sulla libera circolazione dei servizi; sul controllo dei prodotti chimici; sulla diffusione degli Ogm in agricoltura; sugli orari di lavoro; sulla disciplina dei mercati finanziari; sulla sicurezza marittima; sulla gestione delle telecomunicazioni; sui grandi corridoi viarii europei) e delle risorse che l’Unione gestisce (il bilancio comunitario previsionale 2010 è arrivato a 139 miliardi di euro; il bilancio dello Stato italiano 2009, per avere un termine di raffronto, varrà circa 500 miliardi di euro), gli Europei non possono quindi percepire l’importanza di quanto avviene tra Bruxelles e Strasburgo, in quanto non hanno modo di incidere sul processo delle decisioni comunitarie.
Le classi dirigenti politiche nazionali, lo si è visto assai bene anche in Italia, non sembrano interessate a promuovere un dibattito su questi temi, sia per obiettiva scarsa conoscenza dell’argomento, ma soprattutto per una ragione più delicata e importante: parlare della crisi della democrazia a livello europeo significa parlare del deficit di democrazia dello Stato democratico moderno in tutta Europa. Così come significa parlare della crisi dello stesso modello di Stato nazionale che ha fatto la grandezza dell’Europa fra il Cinquecento e l’Ottocento, ma che oggi risulta necessario, anche a seguito dei processi di globalizzazione accentuatisi nel corso degli ultimi duecento anni, rimettere radicalmente in discussione.
Se è vero che la recrudescenza di fenomeni nazionalitari sul finire del Novecento, in particolare nell’area balcanica, ha fatto ritenere a molti che le Nazioni pesino ancora troppo nell’ambito della Comunità e sia questo il fenomeno che impedisce l’elaborazione di una forte identità continentale comune, ad un esame più attento non è difficile rendersi conto invece che la questione così è mal posta.
Da un lato, infatti, sull’identità europea pesa in realtà la mancanza di una piena coscienza della specifica identità presso ciascuno dei popoli europei: questo vale in particolare per il mondo slavo, ma non vi è dubbio che un problema di identità è ancora presente nelle Patrie storicamente meno antiche. Pensiamo in particolare a Italia, Germania, Austria. Siamo certi che in questi Paesi dell’Unione sia oggi pienamente identificata e operante quella missione storica di ciascuno, per rifarci ad un concetto tanto fecondo quanto misconosciuto espresso da Mazzini? Lo stesso Mazzini giustamente rilevava infatti che, in assenza di una siffatta consapevolezza, la costruzione di ulteriori livelli di unità fra i popoli era impensabile: ed i fatti lo dimostrano.
Da un lato, quindi, deficit di Patria. Ma, dall’altro, manca la chiara coscienza anche di quali siano le forze che concorrono strutturalmente a costruire le moderne società europee; e di come esse ancora non riescano a trovare sana e costruttiva espressione. Ostinandoci ad organizzare questa espressione entro la struttura tradizionale dello Stato nazionale moderno, essa tende ad assumere forme ormai tendenzialmente patologiche, da una parte; e a risultare inefficace nel fare fronte alle grandi forze della mondializzazione, dall’altra.
La struttura costituzionale democratico-liberale, imperniata sul classico bilanciamento fra i tre poteri (esecutivo, legislativo e giudiziario), dà conto infatti del solo problema del funzionamento del potere politico. Ma l’organismo sociale vive oggi di una ben diversa vitalità in cui, accanto alla struttura giuridico-amministrativa, troviamo poderose forze di carattere economico-sociale e poi di natura culturale-intellettuale-spirituale, giunte ad una complessità e ad una autonomia della quale erano ancora prive allorché le monarchie dell’Occidente europeo diedero forma allo Stato-Nazione (1).
L’articolata complessità della produzione giuridica e dell’organizzazione amministrativa; l’enorme potenza dell’economia tecnologica sorta dal sistema della moderna divisione del lavoro; lo sviluppo della cultura intellettuale, dai sistemi di istruzione di massa ai più recenti strumenti di diffusione dell’informazione on line – sono stati tutti grandiosi processi che erano impensabili allorché quegli Stati dovettero organizzarsi.
La tendenza non bene armonizzata di queste forze poderose a costituirsi tutte come poteri che, a livello nazionale così come a livello comunitario, determina la crisi strutturale dell’organizzazione sociale attuale.
Basti guardare alla patologica sovrapposizione dell’economia rispetto alla politica, della quale i fenomeni di condizionamento della finanza internazionale sui sistemi politici, il lobbismo e la corruzione sono solo gli aspetti più evidenti; ma anche la sovrapposizione della politica e dell’economia rispetto alla sfera culturale e dello sviluppo spirituale, della quale la manifestazione più chiara è l’evidente, ricorrente difficoltà ad elaborare un modello di sistema scolastico-educativo indipendente dalla pressione degli interessi economici e dai condizionamenti politici.
E, se si cominciano ad estendere queste riflessioni ai diversi settori della vita sociale, è facile scoprire, grazie a questa diversa chiave interpretativa, le vere cause efficienti di molti dei fenomeni di più evidente crisi odierna, fino allo stesso allontanamento della gente dalla politica: il sistema dei partiti, che pure ebbe una sua ragione d’essere fra Settecento ed Ottocento, risulta ora un tessuto morto che pure vorrebbe ancora contenere in sé tutta la libera esistenza del corpo sociale.
Tutta la questione del rapporto fra pubblico e privato, ad esempio, assai dibattuta soprattutto in occasione dell’ondata di privatizzazioni degli anni Novanta, è stata fuorviante, proprio perché è mancata nel dibattito di allora la consapevolezza che il cuore del problema non stava nella dialettica pubblico-privato ma nella corretta individuazione delle componenti sociali realmente in conflitto, e degli interessi da esse derivanti. In mano ai partiti, un dibattito che poteva diventare fecondo di nuove idee si è trasformato, non solo in Italia, in un semplice dislocamento di centri di potere economico.
Ma potremmo spingerci oltre: lo stesso classico trinomio libertà eguaglianza fraternità, posto a base di tutto il movimento delle rivoluzioni borghesi, a partire dal Settecento, mostra oggi come l’essere costretto entro il sistema politico dello Stato nazione ne ha arrestata la possibile piena estrinsecazione, provocando gli enormi divari sociali e l’anomìa che ovunque caratterizzano le società democratiche di modello occidentale.
Questo è avvenuto in quanto, costringendolo dentro lo Stato, si è ingenerato un tragico equivoco proprio sulla praticabilità dei tre valori di riferimento dell’umanità moderna. Quei principi di vetta indicati dalle Rivoluzioni si applicano infatti ciascuno ad uno solo dei tre elementi costitutivi dell’organismo sociale: la piena libertà essendo vera e operante solo nella dimensione spirituale; l’eguaglianza essendo possibile in riferimento ai diritti politici e giuridici (non potendolo essere né a livello di potenzialità spirituali e di capacità individuali, né nel campo dell’iniziativa economica); la fraternità essendo fondamentale criterio di riferimento nella costruzione dei sistemi economico-sociali (dove invece è stata del tutto dimenticata, a causa dell’esaltazione della concorrenza liberista o del burocratismo dirigista comunista).
L’illusione ancora oggi nutrita, soprattutto dal quel mondo variegato e spesso indistinto che si autodefinisce di sinistra, cioè a dire che la ripresa dell’azione regolatrice dello Stato sia in grado di arrestare l’azione devastante delle forze della finanza anonima internazionale, ad esempio, mostra una disperante limitatezza di visione ed un orientamento ormai fuori tempo. Affermare, come fa Paul Kennedy, che "il capitalismo selvaggio è finito in modo brusco e sorprendente, e lo Stato è tornato in scena per riprendere il controllo non solo delle attività finanziarie, ma anche della politica" (P. Kennedy, "Il ritorno dello Stato", Internazionale, n. 798, 5 giugno 2009), significa alimentare illusioni su illusioni: lo Stato, in particolare quello statunitense, ha agito proprio a sostegno del capitalismo selvaggio, giacché i decisori politici attuali sono gli stessi iniziatori di quei devastanti processi economici. Lo Stato serve oggi semplicemente a trasferire al prelievo fiscale il costo del fallimento di quello che non è un capitalismo selvaggio, ma semplicemente il capitalismo finanziario moderno.
Nessuno degli attuali interventisti in economia, né negli Usa né nell’Unione, sta minimamente rimettendo in discussione la funzione ed il ruolo dei capisaldi di quel sistema: la moneta, la banca, la finanza, la posizione del lavoro. Che lo Stato stabilisca delle regole senza che si affrontino questi temi è del tutto funzionale alla perpetuazione proprio di questo cosiddetto capitalismo selvaggio attraverso le sue crisi di distruzione creatrice.
È dunque tempo di dichiarare defunta la politica che conosciamo: lotta fra partiti o gruppi di pressione, di fatto espressione dell’antica lotta per il potere monarchico entro lo Stato nazione. Occorre affrontare la questione dell’inevitabile costruzione di un’organizzazione sociale fondata su presupposti più veritieri: cosa che è possibile partendo dall’esistente, ma lavorando in direzioni radicalmente diverse. Molte cose possono essere cambiate nella società, spesso solo anche da un agire consapevole al proprio posto di lavoro. Non è più quello del potere formale l’aspetto che conta, come ben sanno gli uomini delle lobby e dei poteri occulti.
È quindi il momento di pensare ad un movimento europeo che lasci da parte come organismi morti i partiti e ridisegni una diversa organizzazione sociale in Europa: il grande alveo continentale si presta perfettamente a quest’opera, in quanto ora che abbiamo un’Unione, sia pure solo giuridica, possiamo preoccuparci meno delle frontiere e assai più dei popoli, meno delle nazionalità e più delle Patrie.
La ricca tradizione di pensiero politico, di sperimentazione economica e sociale dell’Europa è un immenso serbatoio di idee e di esperienze cui attingere senza preclusioni ideologiche, ma con la consapevolezza che si deve puntare non a resuscitare idee morte ma a ridisegnare in modo innovativo il profilo delle nostre società. Tutto il mondo contemporaneo, dall’Occidente americano al meridione afro-asiatico al frantumato Medio Oriente, attende con enorme senso di aspettativa che l’Europa faccia sentire la sua voce.
Per dare all’Europa la voce che il mondo attende, certamente le elezioni di oggi non servono a nulla: ma da oggi stesso si può comunque cominciare a pensare e ad agire.

(1) Rimando per approfondimenti su questo punto a G. Colonna, La Resurrezione della Patria, per una storia d’Italia, Tilopa, Roma, 2004.

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