La guerra ai pirati diventa una sfida tra grandi potenze

La "via d’oro", la rotta marittima che unisce commercialmente occidente ed oriente tra Africa e Penisola arabica non è più sicura. Pirati, soprattutto somali, attaccano i mercantili rubando i carichi o sequestrando navi per chiedere lucrosi riscatti come accaduto per la petroliera Sirius Star.
Le dimensioni del fenomeno hanno allarmato i governi di mezzo mondo dopo che negli ultimi mesi dello scorso anno si sono verificati oltre trenta attacchi. I primi a dare una risposta, politico-militare, sono stati gli europei. Per la prima volta nella storia dell’integrazione del Vecchio Continente, infatti, è stata improntata una missione navale militare interforze denominata Eunavfor Atalanta sotto egida dell’Unione Europea. Diversi i paesi a partecipare: Belgio, Francia, Germania, Gran Bretagna, Grecia, Olanda, Spagna, che forniscono uomini, strutture, aerei e mezzi navali, con il mandato di scortare i cargo che trasportano gli aiuti umanitari dell’Onu in Somalia ma anche di presidiare ampie zone di mare come il Golfo di Aden per proteggere tutti i mercantili dagli assalti dei pirati.
Della squadra fanno parte sei navi da guerra e tre aerei da ricognizione, con regole di ingaggio aggressive che prevedono l’uso della forza. La nave ammiraglia è greca ma la sede del comando interforze è stato stabilito in Gran Bretagna.
Ma anche la Cina non è rimasta a guardare. Verso la fine di dicembre scorso è cominciata una missione di polizia internazionale voluta direttamente dal governo di Pechino che ha cominciato la scorta armata dei mercantili cinesi diretti soprattutto in Europa. E’ la prima volta che il colosso asiatico affronta una operazione del genere proiettando le proprie forze armate così lontane dalla patria e rompendo una sorta di monopolio della sicurezza che finora era stato ad appannaggio dell’occidente, a dimostrazione che in Cina si considerano vitali gli interessi che si snodano su queste rotte commerciali verso l’Africa.
Il significato, anche politico, delle missioni europee e cinesi non è sfuggito agli Stati Uniti che hanno fornito prontamente la loro risposta. La Quinta flotta della Marina militare degli Usa con base in Bahrein, ha annunciato che in questi giorni diviene operativa una nuova struttura chiamata Combined Task Force 151, sotto il comando dell’ammiraglio Terence McKnight, che sostituisce la task force 150 che non aveva regole d’ingaggio che le consentisse di impegnarsi in operazioni anti-pirateria. Ora gli americani intendono pattugliare le coste somali fino alla Tanzania, il Mar Rosso ed il Golfo di Aden, un teatro delle operazioni esteso circa 2 milioni di chilometri quadrati.
A dicembre gli americani si sono inoltre fatti portatori di una proposta votata dalle Nazioni Unite che consente anche attacchi militari di terra contro le basi dei pirati. Ma il ricordo della missione Restore Hope in Somalia del 1992 quando il contingente americano si ritirò dopo la battaglia di Mogadiscio che costò la vita a diciotto rangers è ancora vivo e non pare possibile che gli Stati Uniti vogliano impegnarsi maggiormente nel paese del corno d’Africa. Lo stesso ministro della Difesa Robert Gates ha dichiarato che gli Usa "non hanno abbastanza intelligence per condurre operazioni di terra in Somalia".
La situazione nel paese rimane gravissima. L’invasione etiope sponsorizzata da Washington che doveva ristabilire l’ordine è giunta alla fine, i tremila soldati del contingente si stanno ritirando lasciandosi alle spalle scontri tra gruppi islamici che cercano di riconquistare Mogadiscio, i radicali di Al-Shabaab (le corti islamiche che gli Usa indicano vicine ad Al-Qaeda), e i filo-governativi di Ahlu Sunna Waljamaca. Si stima che dal 2006 la guerra abbia provocato 16mila vittime civili, 4mila fra i militanti dei vari gruppi, 2 milioni di profughi.

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