Nazionalizzazione: una nube all’orizzonte del turbo capitalismo

Il decreto di Evo Morales, neo presidente della Bolivia, è stato un vero boccone amaro per tanti liberisti europei. Al vertice di Vienna tra i capi di Stato latinoamericani ed europei il ministro degli esteri austriaco Ursula Plassnik ha giudicato "importante che il governo boliviano faccia chiarezza sulle sue intenzioni". La risposta di Morales è stata immediata: "Non ci saranno indennizzi per le aziende espropriate".

Santos Ramirez Valverde, presidente del Senato boliviano, risponde indirettamente alle polemiche che provengono dal mondo occidentale: "Tutte le organizzazioni internazionali dichiarano che bisogna combattere la povertà. Noi boliviani abbiamo cominciato a farlo, assumendo la sovranità sulle nostre risorse. Allora non capisco quando poi criticano il nostro decreto sulla nazionalizzazione degli idrocarburi."

Ma il malumore sollevato da questa nazionalizzazione (a cui si affianca un provvedimento simile assunto dall’Ecuador verso la multinazionale americana Oxy) tocca orecchie sensibili anche in America Latina. Lo stesso Lula ha espresso malumore sulle esternazioni del rivoluzionario Chavez in merito alla nazionalizzazione degli idrocarburi.

La partita sta divenendo complessa. Non sono in gioco solo gli interessi (pure copiosi) di alcune potenti multinazionali europee e statunitensi.
C’è dell’altro. E tutti lo sanno.
L’America Latina ha aperto uno spinoso argomento: l’esigenza avvertita dalla nazione e dal suo popolo di recuperare la sovranità sulle risorse economiche e quindi sulla ricchezza prodotta in ogni paese.

Questo principio, dopo la caduta del muro di Berlino, con l’avvento del liberismo più sfrenato, sembrava dimenticato come un vecchio reperto ideologico ormai superato. Ma l’eterno dilemma, se lasciare il controllo delle risorse economiche alle leggi del mercato (che peraltro non si esplicita mai secondo i presupposti teorici della teoria liberista), o ritenere che la produzione della ricchezza e la sua distribuzione siano attività di rilevanza pubblica, inevitabilmente risorge. E’ l’eterna fenice che si riaffaccia ogni qual volta il segno della storia si sposta troppo da una parte o dall’altra. Dalla rivoluzione industriale in poi non si è riusciti mai a trovare una equilibrata e stabile soluzione a tale dilemma. D’altronde a questa sintesi politico-economica, corrisponde il più grande coacervo di interessi, ambizioni, egoismi, idealismi che mente umana possa avere mai immaginato.

Il disagio del continente latinoamericano è condiviso, seppure con forme e sfumature diverse, anche dall’Europa. Questa, dopo un decennio di privatizzazioni e di liberalizzazioni in molti comparti economici, inizia a porsi seri interrogativi circa la validità di questo sistema .
In primo luogo perché i tanto decantati vantaggi che il consumatore avrebbe ottenuto dalla maggiore concorrenza non si sono evidenziati. I mercati dell’energia, delle telecomunicazioni, dei servizi finanziari, per non dimenticare i trasporti, si stanno trasformando in potenti oligopoli transnazionali sempre più legati a logiche finanziarie distanti anni luce da considerazioni circa il bene pubblico e l’interesse nazionale.
E’ sufficiente citare l’esempio dell’ENI, ancora in mano pubblica per una quota del capitale sociale, ma già da anni proiettato secondo logiche privatistiche e finanziarie.
Il vecchio "ente nazionale per gli idrocarburi" ha perseguito per decenni una missione che era in sintonia con le ragioni e gli interessi del paese: autosufficienza energetica, affidabilità ed efficienza negli approvvigionamenti. Fino a divenire strumento imprenditoriale della politica economica del paese in settori, taluni ad alto rischio, dove i capitali privati non avevano il coraggio e le capacità di intervenire.
Ora tutto ciò non fa più parte dell’anima di questa potente compagnia. E lo si vede. La restrizione delle forniture di gas russo durante lo scorso inverno rappresentano un inquietante monito.

Certo la nazionalizzazione è la forma estrema attraverso cui il potere pubblico si riappropria di una sua facoltà. Ma questo non accade o non è accaduto solo in contesti economici marginali del Pianeta. In Italia, durante gli anni sessanta, guarda caso, si procedette alla nazionalizzazione dell’energia elettrica con la creazione dell’ENEL.
Dunque, esiste da parte della società, la possibilità di fermare un gioco che è divenuto inaccettabile per gli interessi generali del paese. Esistono tante altre forme, meno estreme, per far si che le decisioni strategiche che un paese deve e vuole intraprendere vengano condivise dalla nazione nella sua globalità. Non per nulla, in Italia, fino a pochi anni fa, esisteva il Ministero del Bilancio e della Programmazione economica. Le privatizzazioni, l’apertura dei propri mercati alla libera concorrenza internazionale, le deregolamentazioni hanno privato il nostro paese, come altri che hanno vissuto analoghe vicende, di adeguati strumenti di politica economica: gli stessi hanno permesso nei decenni precedenti grandi balzi in avanti in termini economici, con ineludibili vantaggi per l’intera società.

Ed è proprio l’esclusione dello Stato dalla funzione di direzione economica ad esporre la società ai maggiori pericoli ed incertezze. Questo a tutto vantaggio di un sistema privato, sempre più finanziarizzato, che occupa ampi spazi di potere non solo economico ma anche politico e sociale.
A titolo di esempio proviamo ad immaginare l’influenza di cui può disporre un’azienda capitalizzata in borsa per 100 miliardi di euro, dalla quale dipendono decine di migliaia di dipendenti e con un volume di affari uguale all’intero prodotto lordo di un paese povero (o in alternativa pari ad una significativa percentuale di reddito annuale prodotto da uno stato di media potenza economica), nei confronti di una amministrazione locale o statale quando si dovrà contrattare la realizzazione di un nuovo insediamento produttivo, o l’applicazione di parametri ambientali, ecc..

Si spiega, dunque, la decisione boliviana di interrompere questa tendenza, di fermare un meccanismo così nefasto per i suoi abitanti tanto più se riferito allo specifico settore degli idrocarburi.
Ora bisogna chiedersi quale sarà la reazione dei "poteri forti". Lobby nazionali ed internazionali, istituzioni finanziarie, poteri politici favorevoli al neoliberismo, media, centri di analisi politica ed economica (i cosiddetti Think Thanks di stampo anglosassone) alzeranno un pesantissimo fuoco di sbarramento per far fallire questo tentativo e per normalizzare un’America Latina che, malgrado le mille incertezze e contraddizioni in cui vive, rappresenta l’unico luogo del Pianeta dove si ha il coraggio di elaborare alternative al liberismo esasperato.

L’Europa anziché porsi paladina di un sistema economico così lontano dalle sue tradizioni e dalla sua storia dovrebbe riflettere su questi avvenimenti e trarre suggerimenti che, adeguati alla situazione del nostro continente, potrebbero tradursi nella implementazione di sistemi economici più umani in grado di mantenere viva la grande idea di comunità, intesa come solidarietà e unità di popolo.

Spero che il cambiamento politico in atto nel continente sudamericano rappresenti una vera primavera.

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