Gli sciiti e il cavallo di Troia

E’ possibile che tra alcuni rappresentanti di vertice del mondo sciita iracheno e le autorità politico/militari statunitensi si sia stretta un’alleanza strategica? Nella seguente analisi vogliamo evidenziare le tappe, drammatiche, che dalla fine formale della seconda guerra del Golfo hanno portato alla elezione della nuova Assemblea costituente irachena, in cui è proprio il gruppo etnico sciita a detenere la maggioranza. La lettura organica di questo percorso suggerisce l’esistenza di un disegno strategico unitario che ha fatto ampiamente uso di operazioni di deception e provocazione militare.

Il primo momento operativo di questa strategia risale ad un attentato sanguinoso. Il 29 agosto 2003 un’autobomba esplode presso la moschea della città santa di Najaf provocando decine di vittime tra cui il grande ayatollah Mohammed Baqr Al-Hakim, il massimo leader musulmano sciita, capo del Consiglio della Rivoluzione islamica (Sciri). I terroristi di Al Qaeda, subito indicati quali responsabili dell’attacco, fondamentalisti sunniti della corrente wahabita, sono nemici acerrimi degli sciiti, dunque l’attentato contro Al-Hakim potrebbe iscriversi in questa guerra intestina al mondo islamico. Ma se ne può dare anche un altro significato, diametralmente opposto. L’ayatollah Al-Hakim era tornato in Iraq da Teheran dopo venti anni di esilio durante il regime di Saddam Hussein, era a capo della componente sciita più forte e influente, lo Sciri, movimento che conta milioni di aderenti. Figura estremamente carismatica e rispettata, si candidava ad essere uno degli uomini forti della società irachena, possibile catalizzatore della resistenza civile (ma in prospettiva anche militare) contro l’occupazione ed il governo provvisorio, di cui era fortemente critico. La scomparsa di Al-Hakim ha di fatto decapitato la possibilità di costituire un fronte organico e di massa che si muovesse in modo autonomo secondo una prospettiva nazionale irachena.

Infatti, un attacco contro un luogo sacro sciita, la moschea dell’imam Alì di Najaf, denotava la volontà di portare in collisione le componenti sunnite e sciite della società, eventualità propugnata dai terroristi di Al Qaeda ma che non dispiace affatto agli occupanti americani. Mentre ci si approssimava alle elezioni, sempre più si è assistito ad una recrudescenza di questi attacchi terroristici che colpivano indistintamente la popolazioni civile sciita, tutti attacchi attribuiti alle componenti resistenti sunnite. Se questo veniva identificato come il tentativo estremo degli ex bahatisti fedeli a Saddam Hussein di mantenere il potere, questa dinamica ci porta anche verso un differente scenario.

Già da tempo alcuni analisti (come il rappresentante del CFR Lesile Gelb sul New York Times) avevano ventilato l’ipotesi di una divisione (formale o di fatto) dell’Iraq in tre componenti territoriali etnicamente pure: il nord curdo, il centro sunnita, il sud sciita. Questo porterebbe ad un controllo maggiore e più selezionato, magari dispiegando sul campo forze di interposizione tra le varie componenti, ripetendo uno schema attuato con successo in Bosnia e Kosovo. E del resto, che gli americani si stiano preparando ad una occupazione permanente di indefinita durata, aldilà delle estemporanee rassicurazioni di voler abbandonare quanto prima il paese, lo dimostra il protocollo firmato durante il suo mandato dal governatore Paul Bremer per la costruzione in Iraq di 14 nuove basi capaci di ospitare oltre 100.000 soldati. Questa dinamica appare come una scelta strategica strutturale derivante da quell’apparato militare/industriale che è il vero centro del potere negli Stati Uniti e a cui si adeguano le scelte politiche e non viceversa. Mentre i presidenti cambiano, quei modelli, quegli interessi, quei centri nevralgici di potere, rimangono inalterati nel corso dei decenni.

Il secondo passaggio è quello relativo alla repentina ascesa, e poi uscita di scena, di un altro leader radicale sciita, Moqtada Al Sadr che ha infiammato per diversi mesi (fino all’estate del 2004) l’Iraq centro/meridionale con gli attacchi della sua milizia armata, l’Esercito del Mahdi.

Per comprendere la sua figura, dobbiamo fare riferimento brevemente al mondo islamico, in special modo a quello di confessione, appunto, sciita, in cui, oltre alla mancanza di una gerarchia ecclesiastica, non esiste una distinzione tra sfera civile e sfera religiosa. Durante le preghiere del venerdì nelle moschee si possono sentire leggere brani dal Corano quanto sentire indicazioni circa la politica sanitaria o lo smaltimento dei rifiuti. Le comunità che si organizzano secondo i dettami della confessione sciita (come avviene in Iran o in quello che è un vero stato nello stato nel sud del Libano controllato dal partito Hezbollah) hanno un alto livello di autogestione e partecipazione diretta alla vita sociale, e tale compito è visto, per ogni cittadino, prima di tutto come un dovere religioso e conseguentemente come un dovere verso la comunità. Le autorità religiose divengono pertanto i garanti morali e spesso i coordinatori di fatto di questo sistema di organizzazione sociale. Non esistendo una scala gerarchica, tali autorità acquistano le loro prerogative attraverso il grado di autorevolezza e carisma che riescono ad esercitare. Spesso sono considerati dei sapienti in materia religiosa, e tanto più alto è il loro livello di studio e conoscenza nelle questioni confessionali, tanto più alta è l’influenza che potranno esercitare sulla comunità.

Moqtada Al Sadr è dunque un leader in quanto riesce a coagulare attorno alla sua figura la fiducia, il rispetto, in taluni casi la venerazione, di una fetta di popolazione che si riferisce a lui riconoscendolo come capo spirituale e civile. Il curriculum di Moqtada diverge però in maniera lampante da quello che solitamente appartiene ai rappresentanti più rispettati. Prima di tutto la giovane età (è poco più che trentenne) e la mancanza di approfondita preparazione in campo teologico (il suo grado è quello di hojat al-Islam, dunque gli servono ancora molti anni di studio prima di diventare ayatollah). Inoltre, secondo quanto riportato da molte fonti (come Saywan Barzani, responsabile europeo del governo regionale del Kurdistan, o Abdel Hashem, rappresentante del Partito della Rivoluzione islamica e nuovo ambasciatore iracheno a Mosca) le sue capacità dialettiche sarebbero misere, le sue idee politiche confuse: non appare dunque quel trascinatore di folle, quella mente rivoluzionaria che ci si sarebbe atteso dalla lettura delle cronache quotidiane.

Il grande merito di Moqtada appare quello di essere stato la persona giusta, al posto giusto, nel momento giusto. È figlio del grande ayatollah Mohammed Al Sadr, una delle guide spirituali più importanti e rispettate dell’Iraq sciita, uno dei pochi a cui era consentita la predicazione durante il regime di Saddam Hussein, misteriosamente assassinato alla fine degli anni ’90, si dice su ordine dello stesso Saddam per cui era diventato una presenza troppo scomoda. Avere natali così illustri, tanto più come erede di un martire, ha consentito a Moqtada di assumere un prestigio favoloso senza necessariamente averne i meriti. Quindi possiamo immaginare che in questi anni, dopo la morte del padre, il giovane Moqtada sia stato circondato dal gruppo dei suoi collaboratori, e nella loro ombra sia potuto crescere indisturbato. Poi gli eventi, la guerra e l’occupazione militare, hanno trasformato in pochi mesi la sua vita in un turbine vorticoso, fino a trasformarlo, per un breve ma fondamentale periodo, nel leader rivoluzionario radicale più conosciuto e temuto dell’Iraq. Ma su tale trasformazione appaiono determinanti le scelte politico/militari effettuate dagli stessi americani.

La prima di queste fu l’esclusione di Moqtada Al Sadr dall’Autorità provvisoria di Governo, evento che costrinse la sua fazione a muoversi in un contesto extra-istituzionale. Quindi si agì con provocazioni dirette che avevano il chiaro scopo di farlo uscire allo scoperto. In particolare, nell’aprile del 2004, l’allora governatore americano in Iraq, Paul Bremer, ordinava la chiusura del giornale Al-Hawaza, organo del movimento, e l’arresto del braccio destro di Al Sadr, Mustafa Yacubi. In seguito a tali eventi, le manifestazioni di protesta dei militanti sciiti sfociavano in scontri armati con le truppe di occupazione, con il solito rimpallo di responsabilità su chi avesse aperto il fuoco per primo, e facendo scivolare, da quel momento in poi, l’azione dell’Esercito del Mahdi in aperta guerriglia. Ma, in particolare, l’arresto del braccio destro di Al Sadr appare oggi come un segnale esplicito di un disegno complesso, poiché nei mesi successivi, ad ogni riaccendersi degli scontri, i più stretti collaboratori di Al Sadr venivano puntualmente arrestati, mentre il leader radicale continuava a restare libero benché su di lui pesasse un mandato di arresto per l’omicidio di un ayatollah rivale, e il comandante delle forze americane, il generale Ricardo Sanchez, avesse dichiarato di volerlo catturare “vivo o morto”. Appare come se le forze di occupazione e le autorità irachene volessero svuotare di intelligenze e capacità di analisi i vertici della struttura, lasciando solo il simbolo Al Sadr e la capacità militare dei suoi uomini. Capacità militare che del resto veniva ciclicamente impegnata in sanguinosi scontri che nel corso dei mesi ne invalidavano la funzionalità. Dal punto di vista militare, Al Sadr ha sempre cercato di evitare lo scontro diretto, ben rendendosi conto che sarebbe stato fatale, ma puntualmente vi è stato costretto dalla rottura delle tregue da parte americana. Quelle che gli organi di stampa occidentali riportavano come tentativi “insurrezionali”, erano in realtà resistenza contro gli attacchi dei marines. Anche l’ultima rottura della tregua avvenuta ad agosto del 2004 e che portò alla crisi finale della città santa di Najaf, fu provocata, secondo quanto riferito dal New York Times, dalla decisione dei vertici militari delle forze statunitensi in Iraq, che agirono senza nemmeno attendere un ordine in tal senso dal Pentagono.

Quando tutto sembrava destinato a risolversi in un bagno di sangue, gli americani tirarono fuori dal cilindro la figura carismatica del mediatore, il venerato ayatollah Alì Al Sistani. Fatto ritornare in tutta fretta da Londra, dove era stato ricoverato per una operazione chirurgica che gli salvò la vita (e a costo di apparire cinici, dobbiamo sottolineare come questo fatto dimostri con quanta forza gli americani puntassero su tale figura), Al Sistani evitò la strage finale e preservò col suo intervento i luoghi sacri di Najaf che rischiavano di finire sotto le bombe. A Moqtada Al Sadr, stretto in una micidiale morsa, non restava che fare voto di sottomissione ad Al Sistani, preferendo, di fatto, una fine politica ad una militare, per sé e i suoi uomini.

Il risultato per gli americani fu evidente. Attraverso l’operazione contro Al Sadr scongiurarono per sempre la possibilità di una alleanza strutturale tra le fazioni della resistenza popolare armata sunnita (ad esempio quella di Falluja e Ramadi) e quella sciita, cioè evitarono che quella che fino ad allora era stata una guerriglia che si muoveva in ordine sparso, potesse diventare un fronte, sotto una guida autorevole e rispettata, che si trasformasse in un movimento unitario di liberazione nazionale. Solo in quel caso, e a quelle condizioni, l’America poteva paventare il rischio di una sconfitta anche militare che potesse assomigliare a quella vietnamita.

I tentativi in tal senso da parte irachena non erano effettivamente mancati. Ma proprio l’operazione contro Al Sadr fece saltare i propositi: gli americani come sempre decisero di scegliersi il nemico, attribuendo importanza, oltre i suoi reali meriti, ad un leader e ad un movimento privo di una reale prospettiva e di una capacità di attrazione per tutti gli ambienti iracheni, in special modo per la classe media e intellettuale (che in Iraq ha molta importanza, ancora oggi, benché sia stata degradata da anni di embargo ed isolamento). Infatti, la base dell’esercito del Mahdi è rappresentata da giovani disadattati degli strati più umili, senza prospettive, disoccupati, talvolta criminali. Insomma un esercito di fanatizzati senza nulla da perdere. Era difficile che intorno ad Al Sadr potesse coagularsi la fiducia di tutto il mondo sciita (e conseguentemente di quello sunnita), non è strano che le altre componenti della società li considerassero una masnada di avventurieri e volessero isolarli. Ed infatti, con la crisi dei luoghi santi della Moschea di Najaf, gli americani hanno voluto dimostrare, in maniera esemplare, che solo l’intervento del loro uomo, l’ayatollah Alì Al Sistani ha potuto scongiurare il disastro, cioè l’intervento di una figura sì carismatica, ma che accettava l’autorità del governo provvisorio e rifiutava lo scontro militare con le truppe di occupazione, in vista delle elezioni di gennaio in cui gli sciiti preventivavano una grande vittoria. Per converso, mentre giocavano al “gatto col topo” con Al Sadr, gli americani non esitavano a mettere a ferro e fuoco la città di Falluja, nel centro del paese, epicentro di quel triangolo di resistenza sunnita che aveva cercato di allearsi con l’esercito del Mahdi.

Può apparire abnorme che le autorità americane abbiano scientemente provocato una guerriglia che si rivolgesse contro di loro. L’apparenza è però contraddetta dall’analisi dei fatti e da metodologie ripetute nel tempo fino a diventare sistema, tanto che qualcuno le ha potute ben definire “l’arte di farsi attaccare”. Su queste tecniche Clarissa si è già spesa ripetutamente, gli esempi sono molteplici, documentati e risalenti per decenni nel tempo. Ma per rimanere legati all’attualità, vogliamo indicare due casi lampanti di deception verificatesi in contemporanea con gli avvenimenti iracheni e riguardanti due paesi lontani e diversissimi tra loro, il Venezuela e le Filippine.

Nel maggio del 2004, le forze di sicurezza venezuelane facevano irruzione nella fattoria di Robert Alonso, un rappresentante dell’opposizione “radicale” al governo Chavez, e arrestavano 80 paramilitari colombiani che lì avevano la loro base logistica. Il gruppo si stava preparando per una azione di terrorismo, avrebbe dovuto provocare una strage indossando le uniformi dell’esercito venezuelano in modo di far ricadere su questo la responsabilità del massacro. L’intento era di giustificare l’intervento della comunità internazionale e provocare la caduta di Chavez, dopo che nei suoi confronti erano già falliti tentativi di colpo di stato, azioni di terrorismo urbano e di insurrezione civile (per tutti i dettagli della vicenda descritta, si veda il seguente articolo ripreso da www.nuovimondimedia.it).

Dietro la cospirazione esistono forze potenti: manifestamente le oligarchie economiche venezuelane e i gruppi paramilitari colombiani; ma per chiunque abbia un minimo di conoscenza dei fatti appare chiaro che operazioni di tale portata non potrebbero nemmeno essere pensate senza la copertura di Washington. Del resto gli Stati Uniti sono dichiaratamente il più grande nemico internazionale del governo Chavez, e il presidente venezuelano ha recentemente tuonato durante un discorso radiofonico: “Se mi uccidono, ci sarà un individuo realmente colpevole su questo pianeta il cui nome è quello del presidente degli Stati Uniti, George Bush […] Se, per mano del diavolo, quei perversi piani dovessero riuscire… dimenticati il petrolio venezuelano, signor Bush”.

Il 27 luglio 2003, trecento militari filippini occupavano manu militari un importante centro commerciale di Manila. La presidente Arroyo denunciava immediatamente il tentativo di golpe e decretava lo stato di emergenza, poi, quando i militari ribelli rientravano nei ranghi dopo un paio di giorni, annunciava in televisione il trionfo della democrazia. Gli organi di stampa internazionali, occupandosi superficialmente della notizia, accoglievano la versione ufficiale del governo considerando l’accaduto come un limitato e maldestro tentativo insurrezionale, subito rientrato. La realtà era però ben diversa. Lo scopo dei militari non era affatto un tentativo di conquistare il potere, ma l’ultima, disperata possibilità di attirare l’attenzione dell’opinione pubblica su fatti gravissimi. Il gruppo di soldati filippini, che emblematicamente aveva assunto il nome di Magdalo e le insegne col sole bianco su campo rosso, tutti simboli della lotta anti-coloniale filippina, denunciavano ai media che: il governo, in combutta con alti ufficiali dell’esercito, aveva organizzato atti terroristici come quello avvenuto all’aeroporto di Davao nel sud del paese e attribuito ai ribelli islamici; l’esercito avrebbe alimentato la stessa guerriglia islamica vendendole armi e munizioni e provocando l’evasione dalle carceri di terroristi detenuti; il governo era in procinto di compiere nuovi attentati per giustificare l’instaurazione della legge marziale (per tutti i dettagli si veda l’articolo di Naomi Klein ripreso da Internazionale n. 502 dell’agosto 2003, di cui è disponibile una versione on-line su www.internazionale.it).

Ma come si era giunti a questi episodi? Dopo l’11 settembre, le truppe statunitensi avevano premuto per affiancare l’esercito filippino nel contrasto alla guerriglia islamica secessionista, attiva nelle isole del sud. In realtà, tra il governo filippino e il maggiore di questi gruppi, il Fronte di Liberazione Moro, era stata instaurata una tregua, mentre l’altra organizzazione, Abu Sayyaf, versava in una grave crisi. Ma la presenza militare statunitense (tra l’altro costituzionalmente illegittima) riaccendeva la guerriglia, decretava la fine della tregua, e provocava una ondata terroristica nel paese, culminata con la citata strage all’aeroporto di Davao. La presenza militare americana, obiettivamente non necessaria, lo diventava di fatto in seguito a quegli episodi. E su questi l’ammutinamento dei militari filippini gettava una luce quanto mai sinistra.

Questi esempi illustrano bene come l’intelligence e le autorità militari americane abbiano utilizzato, utilizzino, e con tutta probabilità continueranno ad utilizzare, operazioni di deception, sia per colpire paesi con governi non conformi ai loro interessi, sia per giustificare la presenza e il loro intervento in aree strategiche. Visto che l’Iraq rappresenta una chiave di volta fondamentale nella politica estera statunitense, ci meraviglieremmo se tali tecniche non fossero utilizzate anche in quel contesto. La presenza e le modalità di attacco di Al Qaeda in quel Paese, ad esempio, dovrebbero essere analizzate con molta attenzione (cosa che Clarissa si riserva di fare prossimamente). Qui ci limitiamo a tirare le conclusione in merito ai rapporti tra gli sciiti iracheni e le truppe di occupazione.

Per decenni la componente etnico/religiosa sciita, maggioritaria e che forniva la classe media ed intellettuale all’Iraq, è stata esclusa dal potere. Saddam Hussein, e prima di lui i governi che si appoggiavano al partito Baath, radicavano il loro predominio sui clan tribali sunniti da cui venivano principalmente i militari. Con la caduta del regime e l’occupazione americana, per gli sciiti si apre uno scenario del tutto nuovo: prendere le redini del paese. L’obiettivo erano le elezioni democratiche. Agli americani servivano per dimostrare che il loro intervento era riuscito a sovvertire la tirannia in un grande stato mediorientale, agli sciiti per conquistare il potere: su queste basi è stato facile stabilire un’alleanza. Riteniamo che entrambi le parti la considerino un’intesa tattica, ma mentre da parte degli occupanti la strategia è univoca, da parte irachena appare frastagliata. È questa la sua grande debolezza. All’interno della componente sciita che ha vinto le elezioni esistono, infatti, almeno due visioni, senza contare i gruppi radicali come quelli di Al Sadr usati strumentalmente dagli americani per i loro scopi, come abbiamo illustrato.

Il partito più forte e rappresentativo, lo Sciri, è andato alle elezioni con un intento preciso, conquistare il governo e utilizzarlo per costringere gli americani ad andarsene pacificamente. La prima parte dell’operazione potrebbe anche riuscire (ma non è così semplice), sulla seconda abbiamo molti dubbi. Al Qaeda (ispirata da chi?) ha già pensato per tempo di eliminare dalla scena la figura più pericolosa dello Sciri, l’ayatollah Al-Hakim, uomo molto vicino all’Iran e personalità di grande carisma. Nessuno dell’attuale dirigenza, compreso il fratello di Al-Hakim, appare alla sua altezza.

Le componenti moderate sciite, invece, sembrano avere altri obiettivi. Pubblicamente anche loro sono contrarie al permanere dell’esercito statunitense oltre il tempo necessario, ma di fatto, tutta l’operazione di Al Sistani sembra dimostrare che questa componente sia disponibile ad una sorta di scambio. Gli americani potrebbero controllare attraverso il sistema delle multinazionali le ricchezze irachene, il controllo civile e morale della popolazione sarebbe destinato agli ayatollah (come dire: a voi l’oro, a noi le anime).

Su questa crepa, che ben presto verrà alla luce, si aprono grandi possibilità di manovra per la politica (e l’intelligence) americana. Tra l’altro, anche dal punto di vista strettamente istituzionale, gli sciiti non potranno prendere le decisioni fondamentali senza l’apporto della componente curda, anche questa profondamente influenzata da Washington.

Molti analisti hanno dato una lettura sbagliata della vittoria sciita alle elezioni per l’Assemblea costituente, basandosi su due fraintendimenti. Che il cartello elettorale fosse un blocco compatto ed omogeneo (cosa non vera) e che la sua vittoria sia stata una specie di trionfo, per delega, della teocrazia iraniana. Anche un commentatore solitamente molto attento come Massimo Fini, in un articolo per il Gazzettino, ha avallato questa tesi ritenendo che gli sciiti iracheni e iraniani siano in fondo “la stessa pasta”. Ma non è così. Le differenze sono profonde e molteplici: di ordine etnico e linguistico (arabi gli uni, persiani gli altri), di ordine politico (entrambi con forte vocazione nazionalista, si sono spesso scontrati militarmente, come nell’ultima sanguinosissima guerra Iraq-Iran degli anni ’80), ed anche di ordine religioso (nota è la rivalità tra le due rispettive città sante, Najaf e Qom).

Cosa vogliono invece gli Stati Uniti dall’alleanza con gli sciiti iracheni? Senza dubbio provocare una divisione dell’Iraq su base etnica: questa ne favorirebbe il controllo e produrrebbe una guerra civile a bassa e media intensità, che opportunamente incanalata, non farebbe che allontanare il giorno in cui i militari a stelle e strisce dovranno abbandonare il paese. Sullo sfondo, poi, appare una partita ben più importante. A giugno, in Iran, si svolgeranno le elezioni. Ne uscirà un governo più conservatore e ostile all’occidente dell’attuale, i Guardiani della Rivoluzione hanno già tosato le liste elettorali delle figure più progressiste o moderate. Il nuovo esecutivo sarà molto inviso a certe fasce della popolazione, come le componenti medie ed intellettuali, in particolare ai giovani universitari dei grandi centri urbani. Piuttosto che un’influenza iraniana in Iraq, ci si potrebbe allora aspettare un’influenza irachena in Iran, e cioè che quella componente possa essere utilizzata come un cavallo di Troia per entrare in contatto con quelle porzioni della società civile iraniana vicine allo stato di ebollizione. Infiltrazioni, provocazioni, semplice influenza culturale e politica.

A nostro avviso, checché se ne dica, gli americani in Iraq non hanno finora sbagliato un colpo. Sarebbe strano che cominciassero proprio ora, in vista del traguardo finale.

marzo 2005

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