ALL’ULTIMO CHECK POINT

In un recente numero dell’Economist, dedicato alla riforma dei sistemi di intelligence in corso nei Paesi anglosassoni, un non meglio identificato “eminente professionista inglese” del settore dichiara che il lavoro d’intelligence “è l’ultima espressione di identità e sovranità nazionale”(1) di un Paese.
In che condizioni si trova, a questo riguardo, l’Italia?
Le più recenti acquisizioni storiografiche stanno rivelando che, durante la Seconda Guerra Mondiale, l’Italia si dimostrò, da questo punto di vista, la più efficiente delle potenze dell’Asse (2): per esempio, gli inglesi non riuscirono mai ad attivare sul nostro territorio nazionale una rete spionistica degna di questo nome e solo l’intervento della mafia italo-americana, promosso dai servizi segreti della Marina statunitense, riuscì a fornire un appoggio informativo ed operativo determinante per lo sbarco alleato in Sicilia nel 1943; i servizi italiani misero invece a segno qualche buona operazione e resistettero con una certa efficacia alle azioni di deception militare anglo-americana, nel corso della guerra, prima del crollo politico-militare verificatosi tra il 25 luglio e l’8 settembre 1943.
Possiamo capire quanto l’8 settembre sia stato devastante, anche da questo punto di vista, per l’Italia: basterà qui ricordare che gli Alleati poterono acquisire praticamente tutta la documentazione segreta dello Stato italiano, contenuta in ben 11 treni speciali, composti ognuno da 35 vagoni di archivi. Che questo passaggio non sia stato del tutto indolore, lo dimostra il fatto che la Presidenza del Consiglio dei Ministri, con una circolare del 12 settembre 1945, dovette esplicitamente imporre ai funzionari italiani che “agli ufficiali alleati autorizzati venga consentito l’accesso agli archivi e (…) la consultazione degli atti e dei documenti di cui facessero richiesta”(3). Era questa la pratica applicazione di quanto già previsto dagli accordi armistiziali che precedettero l’8 settembre.
Così facendo, la storia, segreta o quantomeno riservata, dello Stato italiano unitario fu interamente accessibile alle potenze alleate, al punto che taluni di questi documenti non sono mai più rientrati, ad oggi, in possesso del nostro Paese: situazione questa della quale prima o poi gli storici dovranno cominciare ad occuparsi seriamente, per valutarne i condizionamenti così imposti alle vicende italiane successive.
Certo è che questa condizione è stata determinante per l’instaurarsi nel nostro Paese di una “doppia fedeltà” delle classi dirigenti italiane: da un lato ad esse si impone l’esigenza, per potersi mantenere al potere, di fornire “garanzie” del proprio corretto e indefettibile allineamento atlantico, dall’altro esse devono definire e rispettare gli interessi del Paese – con una netta predominanza della prima delle due fedeltà nei momenti cruciali, nel senso cioè che è la fedeltà atlantica ad imporsi in caso di una scelta obbligata fra le due, cosa ovviamente particolarmente frequente sul terreno della politica estera, sul quale i rapporti di forza sono particolarmente cogenti.
Questa condizione, che investe direttamente lo Stato italiano nella sua interezza, si riflette in modo particolarmente pesante proprio sugli apparati di spionaggio e sicurezza, determinandone il coinvolgimento nelle più oscure e drammatiche vicende che hanno avuto per protagonisti i servizi segreti italiani nel loro intreccio con l’intelligence nordamericana. È qui sufficiente riferirsi ad una sterminata documentazione relative a vicende, cruciali per la storia del dopoguerra italiano, quali la strage di Portella della Ginestra, il caso Sifar, le stragi “neofasciste” (a partire da quella di Piazza Fontana), il caso Moro, la strage di Bologna, il caso Ustica, ecc.
Sarà allora utile riportare quanto il generale Gianadelio Maletti, uno dei più alti dirigenti dei servizi di intelligence dell’epoca, ha dichiarato nel 2000, in una impressionante intervista rilasciata al quotidiano La Repubblica, mai smentita, e tuttavia passata subito nel dimenticatoio:
"Io sento un peso fortissimo, come italiano, di quello che è successo. Mi sento quasi umiliato di ciò che non abbiamo fatto per impedire tanti morti. Chi ha portato avanti questo progetto, che ha ucciso tanti italiani, è italiano. E lo ha fatto, aderendo ad un progetto portato avanti da un servizio straniero, per ottenere un proprio vantaggio. Di potere" (4).
In tale contesto, lo sviluppo di una politica estera autonoma, seppure nei limiti già molto serrati imposti dal quadro delle alleanze internazionali e dalla dimensione mondiale dell’egemonia anglo-americana, è stato di fatto impossibile: proprio le vicende relative all’area mediorientale dimostrano in maniera molto chiara l’impossibilità per il nostro Paese di costruire nel secondo dopoguerra una posizione corrispondente ai nostri interessi nazionali essenziali ed il conseguente ripiegamento sulla ricerca di spazi interstiziali nei quali tentare fortunosamente di inserirsi.
Allo stesso tempo, ed in stretta relazione col tema della “doppia fedeltà”, “ne derivava l’inconveniente non secondario di una politica estera verso il Medio Oriente che si divarica in due o tre politiche (…) con centri di irradiazione pressoché autonomi di volta in volta nei partiti, nei ministeri degli Esteri e della Difesa o addirittura nei diversi poteri dello Stato”(5).
La misteriosa fine di Enrico Mattei e del suo spregiudicato tentativo di costruire un rapporto privilegiato con il mondo arabo; la presenza di un’ala filo-araba e di una filo-israeliana nei governi e nei partiti italiani, cui ha corrisposto un’analoga situazione negli stessi servizi di sicurezza italiani; i molti episodi di interventi diretti di servizi segreti stranieri (Cia e Mossad in primis) nei momenti cruciali di passaggio della storia politica del nostro Paese, in corrispondenza con gli eventi mediorientali (6); il sussulto simil-nazionalista di Bettino Craxi nella famosa “notte di Sigonella”(7) (ottobre 1985) – tutto questo dimostra quanto la classe dirigente postbellica italiana sia stata succube di quei vizi di origine, la sovranità limitata e la conseguente doppia fedeltà degli apparati statali, appunto, dell’Italia dopo l’8 settembre 1943.
Quando, con la caduta del muro di Berlino del 1989, qualcuno si è illuso che l’Italia potesse acquisire un ruolo nuovo nella politica est e sud europea, ci si è dimenticati di questa condizione speciale del nostro Paese; perciò assai poco sorprendente è stato, per chi invece teneva conto di questo dato strutturale, vedere un premier ex-comunista come D’Alema inviare, senza la minima esitazione, aerei militari italiani a bombardare la Serbia, proprio come Andreotti li aveva inviati, nel 1991, a bombardare l’Irak.
È pur vero però che, nello stesso tempo, l’Italia ha mantenuto sistematicamente aperti canali di comunicazione con i diversi “avversari”: è avvenuto con i Palestinesi di Arafat, la Libia di Gheddafi, la Serbia di Milosevic, l’Iran di Khomeini, per non parlare dell’Irak di Saddam Hussein. In molti casi, questo “doppio binario” è servito alla stessa politica della potenza egemone per mantenere aperti canali di comunicazione utili (8), in altri casi l’autonomia di condotta è stata semplicemente tollerata, purché non eccessivamente divergente dalla linea d’azione strategica degli Stati Uniti e dei suoi più influenti alleati nell’area, Israele avanti a tutti.
Quanto accaduto a Baghdad, con la liberazione della Sgrena e l’uccisione del numero uno dell’intelligence italiana in Medio Oriente, Nicola Calipari, rientra in questo quadro: continuare a non dirlo chiaramente è una grave responsabilità di politici, giornalisti e militari italiani. Non c’è dubbio che la politica italiana in Irak segue un copione antico: schierarsi apertamente e attivamente a favore della posizione Alleata e poi cercare di ritagliarsi sul campo uno spazio di compromesso con “il nemico”: “l’Italia crede, non si sa con quali mezzi e a quale titolo, di potere svolgere «opera di moderazione e di rallentamento», attenta però a non perdere di credibilità cadendo nell’equidistanza”(9).
Per un verso, quindi, si inviano forze militari proprie in Irak; si dà la possibilità a cittadini italiani di operare come mercenari (militari e spie) in Medio Oriente; l’intelligence italiana accetta che la Cia compia nel nostro Paese, violandone infiniti elementi di sovranità, operazioni coperte, utilizzando basi Nato, come nel caso del sequestro a Milano, e della successiva clandestina deportazione in Egitto, di un autorevole rappresentante delle organizzazioni islamiche. Per l’altro verso, si adotta la strategia di trattare con i rapitori di nostri concittadini, di pagare riscatti in Irak e, probabilmente, si tentano accordi sotterranei per evitare azioni terroristiche nel nostro Paese e limitare il livello militare di scontro nelle aree a noi assegnate in Irak.
La conferma di questa situazione viene dall’analisi dello stesso curriculum professionale di Nicola Calipari rapportato al suo ruolo, quello di capo del settimo dipartimento, Operazioni internazionali, del Sismi, il servizio di informazioni militari italiano: ci si sarebbe attesi un funzionario di formazione militare, magari con un passato nella direzione di unità speciali, oppure un analista di raffinato livello intellettuale e vaste relazioni costruite nell’area. Ci si trova dinanzi invece un buon poliziotto, abituato a muoversi nei meandri dei sequestri di persona in Calabria, nella gestione delle presenze, talvolta scomode, che transitano per gli uffici stranieri delle questure, nella lotta contro criminalità comune spesso di alto livello in cui può imbattersi la squadra mobile della Capitale: un funzionario, per dirla tutta, non da combattimento ma da trattativa.
Ed infatti questa sembra la linea adottata dal dipartimento Operazioni internazionali in Medio Oriente, certo non per propria autonoma iniziativa: intanto“gli 007 hanno reclutato elementi nuovi e riattivato vecchie conoscenze, legate ai rapporti che settori diversi del nostro Paese (politici, economici) avevano con il regime di Saddam”. Poi, spiega la stessa fonte giornalistica, mantenendo gli storici stretti rapporti del Sismi con il Mossad si sono anche stabilite buone relazioni con i servizi dell’Autorità palestinese, in funzione anche delle esigenze del teatro irakeno, oltre che di “moderazione” delle spinte estremistiche dell’intifada: “Roma, ha mantenuto un profilo basso [in Palestina], senza investire. Una linea eccessivamente prudente. Eppure, attraverso un meticoloso lavoro sul campo, fatto di contatti personali e di rapporti basati sulla fiducia, i nostri agenti – ci hanno raccontato gli 007 palestinesi – hanno provato a «far ragionare» i militanti, hanno spinto l’Autorità a comportamenti più pragmatici. E girando di villaggio in villaggio hanno anche individuato canali proficui per risolvere casi in altri punti di crisi. (…) Per fare un esempio: un ufficiale dell’Olp può avere un aggancio importante tra gli ex membri saddamisti. Una volta erano ufficiali dell’esercito di Bagdad, oggi sono magari a capo di una gang di rapitori”(10).
A questa ambiguità sul campo, dettata dall’assenza di una politica estera autonoma e dall’impossibilità di affermare una propria identità politica coerente con gli interessi nazionali ed europei in gioco nell’area mediterranea e mediorientale, conseguono logicamente i pesanti avvertimenti da parte di avversari ed alleati, quando l’elastico italiano si tende troppo: l’attentato di Nassirya rientra fra i primi, probabilmente in coincidenza con una troppo marcata svolta filo-israeliana da parte del governo Berlusconi-Fini, senza precedenti per l’Italia; l’uccisione di Nicola Calipari rientra invece fra i secondi, probabilmente in coincidenza con il varo, da parte degli Stati Uniti, di una nuova strategia di contrasto attivo della resistenza irakena che, presupponendo l’impiego di tattiche assai dure e spregiudicate (sul modello del Sas inglese in Irlanda del Nord e degli israeliani in Medio Oriente), non può più lasciare spazi di manovra autonoma agli alleati. Soprattutto se, come sembra accertato, Calipari aveva richiesto ed ottenuto dalla Giordania, in cambio della liberazione delle due Simone, il rilascio di due attivisti islamici detenuti in quel Paese (11).
Ne segue che, in un modo o in un altro, Calipari a questo punto o falliva o doveva morire.
Rifiutato, come pare, l’intervento di forza, a seguito della segnalazione Usa del possibile luogo di detenzione della Sgrena (12), riuscita invece, all’insaputa degli Usa, la sua liberazione, è del tutto logico pensare che qualcuno nella catena di comando Usa abbia ritenuto giunto il momento di chiudere il conto aperto da Calipari.
A poco servirà, per questo, l’inchiesta congiunta italo-americana, che già pare iniziare sotto pessimi auspici, vista la perdurante indisponibilità Usa persino a mettere a disposizione dei tecnici italiani l’auto colpita dai soldati americani.
Ma ancora meno convincono gli elogi postumi ad un funzionario che, per il suo curriculum professionale e per il quadro dei rapporti di forza effettivi sul campo, è stato con ogni evidenza sacrificato al machiavellismo di piccolo cabotaggio che caratterizza la politica estera italiana del dopoguerra, rivolta ad ottenere lo status di potenza cobelligerante da parte degli Alleati anglosassoni, da un lato, e, dall’altro, a trattare segretamente per risparmiare vite umane ed evitare un netto spostamento dell’opinione pubblica di un Paese che continua a non comprendere le ragioni del nostro impegno militare.
Crediamo tuttavia che questa politica di doppio binario stia arrivando al capolinea.
Il sistema di intelligence anglo-americano è in corso di rapida e radicale trasformazione, con una sempre più forte e strutturata cooperazione fra i grandi sistemi di informazione e analisi anglosassoni, Usa e britannico (13), ovviamente, ma anche canadese ed australiano, già protagonisti fin dal 1946 del più ampio e strutturato sistema di intercettazione delle comunicazioni per scopi di intelligence a livello planetario, Echelon.
È evidente l’impossibilità anglosassone di coinvolgere oggi in un simile sistema l’Unione Europea che, con il profilarsi di un possibile asse continentale ispano-franco-tedesco in politica internazionale, ed il probabile supporto esterno russo, non appare, dal punto di vista degli Alleati, assolutamente affidabile.
Come se non bastasse, è ancora del tutto aperta la questione del rapporto fra la Nato e l’Eurofor (le costituende forze armate europee) in relazione allo sviluppo della politica estera e di sicurezza europea, la cosiddetta Pesc: l’esperimento in corso nei Balcani si è per il momento risolto nella semplice ridenominazione delle unità europee impiegate, trasferite quasi interamente dalla Nato sotto il nuovo cappello dell’Eurofor appunto. Ma il problema non è certo risolto e la questione non si limita certo ai Balcani.
La partita dell’assetto futuro dell’intelligence occidentale diviene quindi strategica per valutare il grado di autonomia dell’Europa unita rispetto al vincolo atlantico. Se l’Unione europea dimostrerà capacità proprie in questo campo, la “doppia fedeltà” degli organismi di informazione italiani dovrà essere rimessa definitivamente in discussione. A quel punto gli uomini dell’intelligence italiana avranno la possibilità di ritrovare, ricordando la Medaglia d’Oro Nicola Calipari, la loro dignità di Italiani, perduta, secondo la testimonianza di Maletti, nei decenni delle stragi e dei depistaggi.

NOTE:

(1) “Cat’eyes in the dark”, the Economist, 19 marzo 2005, p. 30.
(2) “[quello italiano] fu il più abile servizio segreto dell’Asse, a livello tecnico; riflettendo forse un’attitudine che risale almeno all’epoca di Machiavelli e di Cesare Borgia. Ma gli Italiani talvolta fecero poco di meglio dei loro alleati nell’ottenere valutazioni e stime integrate sul piano strategico”, T. Holt, The Deceivers, Allied Military Deception in the Second World War, Scribner, New York, 2004, p. 118. Si noti che il giudizio è limitato all’ambito dello spionaggio e del controspionaggio militare. Non affrontiamo ovviamente in questa sede questioni di assai più vasta portata storiografica, quali l’importanza di Enigma e dell’intelligenza con il nemico di alcuni alti ufficiali della Regina Marina nel contribuire alla sconfitta italiana.
(3) D. Lloyd Thomas, “Anthony Blunt e gli archivi segreti italiani”, Nuova Storia Contemporanea, 5/2004, p. 60.
(4) La Repubblica, 4 agosto 2000. Maletti, alla successiva domanda: “ma i politici dominanti del momento, sapevano?”, risponde: "È ovvio che sapevano. Anche se non ci saranno mai le prove per incastrarli. Se i vari capi dei servizi, da Miceli a Casardi, hanno informato i politici, come era loro interesse, lo hanno fatto anche attraverso riunioni informali".
(5) G. Calchi Novati, “Mediterraneo e questione araba nella politica estera italiana”, Storia dell’Italia repubblicana, vol. II, La trasformazione dell’Italia: sviluppi e squilibri, Torino, Einaudi.
(6) Comincia ad essere possibile, allo stato attuale della documentazione, abbozzare una interpretazione di tutta la stagione dello stragismo (1969-1980) proprio in relazione al ruolo mediterraneo e mediorientale dell’Italia ed all’importanza di condizionare opportunamente al politica italiana al riguardo. In questa direzione già troviamo interessanti cenni nel libro-intervista dell’ex-presidente della Commissione parlamentare di inchiesta sulle stragi ed il terrorismo, G. Fasanella, C. Sestieri, G. Pellegrino, Segreto di Stato, la verità da Gladio al caso Moro, Einaudi, Torino, 2000.
(7) La crisi di Sigonella mise in luce una volta di più la limitatezza delle possibilità di manovra autonoma italiana: “Lo scontro che, fatto inedito nella storia della Repubblica, provocò una crisi di governo per una questione di politica estera, si personalizzò fra Craxi e Spadolini, rispettivamente Presidente del Consiglio e Ministro della Difesa, rispettando un gioco delle parti che assegnava al Pri, il partito di Spadolini, le funzioni di portavoce nel nostro mondo politico dei desiderata degli Stati Uniti.” G. Calchi Novati, op. cit.
(8) Crediamo che questo sia stato il caso per esempio di un conflitto come quello Irak-Iran, in cui l’interesse degli Stati Uniti era in realtà di prolungare lo scontro quanto più a lungo possibile. Cfr. in merito G. Sinatti, G. Peroncini, Golfo 1991, come nasce una guerra, Arnaud, Firenze, 1991.
(9) ivi.
(10) G. Olimpio, “Così il Sismi ha imparato a viaggiare a due velocità”, Corriere della Sera Magazine, 17 marzo 2005.
(11) “Per ottenere la liberazione di Simona Pari e Simona Torretta – rivelano fonti di intelligence – avrebbe tra l’altro ottenuto il rilascio da parte della Giordania di due terroristi legati al qaedismo. E questo spiegherebbe perché il re Abdallah, che ebbe un ruolo importante nella mediazione, fosse così sicuro, con un anticipo di 48 ore, della imminente liberazione delle due donne”, L. Cremonesi, G. Olimpio, “Le vie segrete dei riscatti, un aiuto a ribelli e trafficanti”, Corriere della Sera, 8 marzo 2005. La notizia non è stata smentita.
(12) Corriere della Sera, 7 marzo 2005.
(13) The spy game, reforming British and American intelligence, the Economist, 19-25 marzo 2005.

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