Reality docet

Per comprendere le dinamiche di una società moderna, la televisione rappresenta un osservatorio privilegiato. I palinsesti della programmazione possono indicare con sufficiente precisione tendenze, immaginari, bisogni.
Il fenomeno televisivo più invadente e significativo degli ultimi anni è senza dubbio quello dei cosiddetti reality show, termine anglosassone col quale si indica un genere in cui gli agenti (personaggi noti o comuni) rappresentano solo se stessi, colti nella quotidianità, senza filtri o maschere. La capacità degli autori sarebbe solo quella di creare contesti scenici in cui inserire tipi umani, mescolare il tutto e aspettare di vedere quel che succede.
Il genere è relativamente recente, il primo esempio potendosi far risalire ad un format olandese del 1997 del produttore televisivo John De Mol, che si chiamava Big Brother (esplicita la citazione orwelliana), il quale ebbe successo in tutto il mondo e specialmente negli Stati Uniti. Al suo arrivo in Italia, il programma venne accolto col solito scetticismo provinciale misto ad una pruderie (visto che si favoleggiava l’ostentazione degli aspetti più intimi del vivere quotidiano senza alcuna censura) probabilmente gonfiata a scopo pubblicitario dagli stessi ideatori della trasmissione.

L’impatto del Grande Fratello italiano fu devastante in termini di ascolti e capacità di penetrazione, ripetendo il successo già sperimentato negli altri paesi. Mentre “o guerriero Taricone” e “Marina la gattamorta” diventavano le icone televisive del decennio, i funzionari televisivi si rendevano conto di avere tra le mani una gallina dalle uova d’oro.

Il genere reality, dopo aver rotto gli argini così efficacemente, si è riprodotto in maniera davvero pervasiva. L’idea originale si è duplicata in mille rivoli, fino a diventare, insieme al genere fiction, la cifra principe della produzione televisiva.

Aldilà dei giudizi di moralità o qualità di questi prodotti (questione che riteniamo di davvero scarso interesse) vogliamo cercare di cogliere alcuni tratti salienti comuni ai reality show per capirne la struttura comunicativa e quindi l’aderenza, o meno, ai modelli sociali imperanti.

Pier Paolo Pasolini, uno degli ultimi grandi intellettuali italiani, sosteneva che la televisione fosse, per sua stessa natura, anti-democratica. La caratteristica strutturale di questo medium consiste in una comunicazione verticale, dall’alto al basso, da uno (o pochi) verso tanti. Questo carattere era particolarmente accentuato nella televisione giovane, mentre le innovazioni tecnologiche e il modo stesso di fare televisione, ne avrebbero in qualche modo variato la natura, facendo di questo medium essenzialmente ex cathedra, uno strumento maggiormente democratico, sia per la valenza di fornire visioni multiformi della realtà, sia perché consente l’ingresso sul palcoscenico televisivo anche della (cosiddetta) “ggente comune”.

In realtà, entrambi questi aspetti incidono minimamente sul carattere anti-democratico della televisione, anzi, in qualche modo ne sono la spia, non essendo che risposte di autoconservazione create dalla stessa televisione nel tentativo di arginare la sua perdita di autorevolezza nei confronti del pubblico.
È vero, infatti, che i processi tecnologici (satellite, pay-tv, digitale terrestre) hanno aperto un largo ventaglio di offerta, orientandosi anche verso prodotti di altissima qualità, ma allo stesso tempo l’hanno parcellizzata e resa fruibile solo da un pubblico di nicchia. Il nucleo forte e centrale della televisione generalista raggiungibile da tutti, rimane saldamente in mano a pochissimi editori (formalmente tre o quattro a livello nazionale, di fatto uno) e il panorama medio dell’offerta è ormai totalmente uniforme, senza distinzione tra pubblico e privato.
Piuttosto è da rilevare che la televisione è diventata commercialmente democratica (ma forse sarebbe giusto dire plutocratica), nel senso che qualunque imprenditore con sufficiente disponibilità economica può entrare nei processi comunicativi attraverso pubblicità e sponsorizzazioni. In un altro senso è commercialmente democratica poiché sono tutti i consumatori, indistintamente (e paradossalmente anche coloro che nemmeno possedessero un televisore) a pagare i programmi. Questo avviene direttamente attraverso il canone della TV pubblica, ma indirettamente per tutte le altre emittenti attraverso la pubblicità. Si è creata una catena per cui le televisioni si fanno pagare dalle imprese per fare pubblicità e le imprese ammortizzano tali costi attraverso il ricarico sul prezzo di vendita dei prodotti. In ultima analisi ogni acquisto dei consumatori contribuisce ad arricchire l’editore televisivo, la spesa al supermarket della massaia paga il programma che, forse, vedrà quella sera. Ma con una fondamentale caratteristica: non avrà voce in capitolo sul programma che ha pagato, anzi, spesso quello spettacolo sarà concepito in modo tale da invogliarla verso altri acquisti, per perpetuare all’infinito l’ingranaggio.
Se, dunque, l’aumento dell’offerta televisiva non ne ha aumentato la democraticità, analoga riflessione è da farsi sul modo di confezionare i programmi. Questa illusione è stata fornita con l’idea che se persone comuni entrano nelle trasmissioni, queste diventano ipso facto più democratiche. Niente di più sbagliato.

Alla sua massima espressione, il reality show può essere visto come un grande esperimento socio-psicologico interattivo. Lo schema di base è allo stesso tempo semplice e geniale. Alcune persone, accuratamente selezionate, sono prelevate alla realtà quotidiana e, senza conoscersi le une con le altre, costrette a interagire in un contesto coartato. Che si tratti di convivere in un appartamento senza avere la possibilità di uscire, o di resistere senza cibo su un’isola deserta, necessariamente la particolare situazione farà emergere tra i partecipanti tensioni, impulsi, comportamenti basici e istintivi. Cioè tirerà fuori da ognuno il meglio e il peggio.
Tutto questo avviene sotto gli occhi del telespettatore che ha la possibilità, se vuole, di seguire il programma 24 ore su 24, come avviene per il Grande Fratello attraverso il canale dedicato dell’emittente satellitare Sky. In ogni caso il pubblico può aderire al programma anche solo seguendo la cosiddetta striscia quotidiana, ossia il resoconto giornaliero degli avvenimenti più significativi, una sintesi (generalmente di una mezz’ora, un formato da soap opera) montata dagli autori e trasmessa in chiaro (nel caso del GF da Canale5). A questa si aggiunge la puntata istituzionale settimanale, che è sempre uno show da prime time serale, che oltre a fornire indicazioni sui partecipanti (come interviste e commenti di familiari o amici), consente di assolvere alle rituali (ma spettacolari) incombenze di ogni reality: prove da superare, nomination, eliminazioni.
Questo meccanismo ingenera un processo di identificazione potente. Si assiste cioè a quella dinamica che viene definita fidelizzazione dello spettatore, il quale tende a immedesimarsi con le situazioni vissute dai personaggi/agenti, quindi a prendere posizione, schierarsi, partecipare emotivamente. Piangerà per la sfortunata Cristina, usata e abbandonata dallo “sciupa femmine” Taricone; farà il tifo per il principe-zerbino Ascanio che cerca in ogni modo di conquistare la scontrosa Katia; o come reagirà al comportamento del bel Alessandro che tradisce in diretta la fidanzata rimasta fuori dalla casa? (Non si inquieti il lettore che mai ha seguito il Grande Fratello, tutte queste vicende hanno visto il meritato lieto fine).
Né più né meno, dunque, del processo di identificazione che si instaura godendo di un bel libro, un film o uno spettacolo teatrale. Con questa differenza: mentre nell’opera d’arte il fruitore si abbandona completamente al tracciato dell’autore, lo interiorizza, rielabora, quindi trattiene ciò che lo ha toccato profondamente mentre espelle le scorie, nel reality show questo processo è del tutto stravolto. Lo spettatore, infatti, grazie all’interattività del televoto, ha la possibilità di intervenire in presa diretta sulla vicenda determinando scelte, censure, giudizi, esclusioni.

Se questo può essere considerato uno strumento dell’odierna democrazia televisiva, rappresenta anche una metodologia molto efficace di controllo ed interpretazione sociale. Il televoto è una sorta di megasondaggio attraverso cui il committente testa l’aderenza o meno a certi principi etici o valori morali. Amore, amicizia, coerenza, solidarietà, vendetta, tradimento: questi aspetti vengono sottoposti all’occhio critico dello spettatore che, distratto, sapiente o cinico, emetterà i suoi responsi. Sulla base di essi, grandi aziende potrebbero tarare strategie commerciali o impostare campagne di lancio di prodotti. Ma anche una classe politica avveduta potrebbe trarre preziose indicazioni sull’opportunità o meno dei propri comportamenti.
Facciamo un piccolo esempio. Nell’ultima edizione dell’Isola dei Famosi (il più riuscito reality targato Rai), il giovane e simpatico DJ Francesco sembrava destinato ad una sicura vittoria, per la sua carica vitale ed inesauribile, il suo fare gruppo, l’essere gradito tanto alle ragazzine quanto alle mamme. Ma giunti a tre quarti del percorso, la svolta fatale. Pur di salvare dall’esclusione la modella Aida Yespica, un’altra concorrente con cui ha intrecciato una relazione affettiva, DJ Francesco ordisce un “tradimento” ai danni del saggio e sornione Kabir Bedi, con cui aveva precedentemente stabilito un patto di non aggressione. Si affrontano due visioni contrapposte: è lecito tradire per amore la parola data? È giusto che prevalga la passione o la coerenza?
In fondo il pubblico dei reality è quello delle soap e delle fiction, un pubblico prevalentemente femminile che adora le vicende d’amore, piene di slanci anche a danno della razionalità. Ma in questo caso i televoti hanno dato un risultato sorprendente: eliminati in successione Aida e DJ Francesco, Kabir Bedi portato in finale. Una piccola svolta epocale nell’immaginario pubblico, dunque.
La spiegazione sociologica che si sentiamo di trarre è che in questa epoca di incertezze e difficoltà, di generalizzata visione cupa del presente e del futuro, valori come solidarietà, coerenza, stabilità, possono avere il sopravvento sull’amore, la spensieratezza, il gioco. L’affidabile, saggio, ma in fondo indifeso Kabir, diventa una figura emblematica del nostro tempo: nell’immaginario politico lo si potrebbe accostare al Presidente Ciampi, non a caso il riferimento istituzionale più amato dalla popolazione. Perdono di importanza altre caratteristiche: dinamicità, freschezza, una certa spavalderia che non si preoccupa di rasentare l’illegalità. Erano le caratteristiche vincenti del politico anni ’80, ma anche di quel Silvio Berlusconi che prevaleva alle elezioni del ’94.
Probabilmente si è trattato di una pura coincidenza temporale, ma proprio nel periodo in cui si svolgevano i fatti dell’Isola dei Famosi, il dibattito politico era tutto centrato sulla opportunità del taglio delle tasse operato dal governo. Le promesse del premier si scontravano con le resistenze degli alleati, in particolare An e Udc, molto più cauti (per non dire contrari) verso la manovra. Berlusconi sembrava rassegnato a un rinvio, magari mascherando l’impasse con qualche operazione di maquillage comunicativo, o semplicemente rimangiandosi la parola data (non sarebbe stata la prima volta come dimostra l’annosa questione del conflitto di interessi). Invece dal Presidente del Consiglio giungeva improvvisamente una presa di posizione netta. Berlusconi metteva in gioco tutto il suo potere, spendeva apertamente la sua faccia, la sua credibilità e la stessa sopravvivenza del governo. Da parte sua, sempre così attento alla cattura del consenso (non importa se attraverso intuizioni politiche o analisi di marketing) doveva senz’altro trattarsi della presa di coscienza che il dietro-front sulle tasse avrebbe avuto effetti devastanti d’immagine. A nulla sarebbero valse la guasconeria o una ineffabile faccia di bronzo. In una congiuntura di crisi come l’attuale, solo la solidità, l’affidabilità, il rigore, potevano risultare vincenti di fronte all’elettorato. Berlusconi ha colto lo spirito del tempo ed ha agito nell’unico modo possibile. La manovra fiscale era figlia dell’effetto Kabir Bedi.

Altre caratteristiche dei reality ci parlano con chiarezza delle strutture e delle prospettive della società odierna. Innanzi tutto è bene interrogarsi sul concetto di “realtà” espresso nei “reality”.
Non interessa qui sapere se effettivamente i concorrenti dell’Isola dei famosi non ottengano cibo dalla produzione, né se i reclusi del GF sono davvero esclusi dal contatto con l’esterno o ricevano indicazioni dagli autori. Quello che più preme è comprendere qual è il livello di democraticità dei reality. Ci si aspetterebbe che questo fosse alto. Se per la prima volta, infatti, in maniera strutturale come accade per il Grande Fratello, persone sconosciute, comuni, entrano nel circuito televisivo con tutto il loro vissuto, ed hanno la possibilità di mostrarlo in diretta senza artifici, ecco che la vita, la vita vera, dovrebbe andare in scena sotto le telecamere. Non è così.
I personaggi del GF (tranne rarissime eccezioni) non sono archetipi. Non sono modelli sociali. Non sono rappresentazioni della società o della realtà. O meglio, rappresentano una piccolissima porzione di umanità che sta influenzando, caratterizzando, assimilando (poiché rappresentata così massicciamente) la società tutta intera. Sono coloro che vogliono assolutamente apparire, i rampanti della notorietà, gli adepti della società dello spettacolo.
Se Erich Fromm scrivesse oggi il suo fondamentale saggio psico-sociale, dovrebbe intitolarlo “Apparire o Essere”. I concorrenti del GF sono tutti uguali. Non ricalcano affatto il variegato modo di esprimersi della realtà, tutti indifferentemente vogliono arrivare, avere successo, entrare nello show business. Non che tutti ci riescano, ovvio, anzi, dopo il “quarto d’ora di celebrità” sono pochi quelli che restano, ma questo non conta. Per il meccanismo conta l’atteggiamento, la vocazione, quel modello ripetuto e impersonato da decine di maschere.
Maurizio Costanzo, nel decretare la fine del suo storico talk show, ha argomentato che una delle motivazioni era appunto che gli ospiti ormai non venivano per raccontarsi o narrare storie, quanto piuttosto per cercare di fare “il colpaccio”. Costanzo lo diceva con rammarico, dimenticandosi che lui è uno dei principali artefici di questo modo deteriore di fare televisione. Dal finto pubblico becero e impiccione dei programmi di Maria De Filippi, ai reality soap di Costantino e Alessandra a Buona Domenica: chi è causa del suo mal pianga se stesso, è proprio il caso di dire.
Anche gli esperimenti televisivi più innovativi e intelligenti, come Amici o il più recente Campioni: il sogno, finiscono per ripercorre gli stessi binari. Attraverso il meccanismo del reality si mettono in scena una scuola d’arte e spettacolo e una squadra di calcio dilettantistico. L’intento pregevole sarebbe quello di mostrare la fatica, l’impegno, il talento, le speranze di giovani artisti e calciatori. Nella realtà, di nuovo, l’arte e lo sport perdono il loro carattere di pratica, disciplina, formazione spirituale, per divenire soltanto strumento di affermazione personale, un palco su cui apparire ed avere successo. L’obiettivo non è apprendere l’arte, divenire un grande ballerino o calciatore per donare emozione agli altri, l’obiettivo è vincere, essere migliore del tuo compagno di corso o di squadra, essere tu il selezionato mentre l’altro sarà escluso. Tutto sull’altare dell’apparenza.
È il nuovo strumento di controllo sociale, la nuova casta degli eletti: coloro che appaiono in televisione. Arrivarci non è difficile, almeno in apparenza. In fondo chi ci si trova già non è così diverso dai milioni di aspiranti, il livello qualitativo non è molto alto (ammesso che un livello qualitativo sia necessario). Ma per arrivarci bisogna essere conformi, aderire a certi modelli: vestire tutti nello stesso modo, parlare nello stesso modo (slogheggiare, è il nuovo verbo), pensare nello stesso modo, provare emozioni nello stesso modo. Chi non si adegua appartiene ad un’altra casta, sicuramente inferiore. Siamo dunque giunti all’approdo, la divisione sociale in caste determinata dai modelli televisivi. Se si preferisce: la dittatura dell’apparenza.

Altre caratteristiche molto significative dei reality devono essere meglio illustrate. Ad una abbiamo già accennato, è la competitività. Non importa quale sia il contesto, il reality non è mai una semplice esperienza di vita, è sempre una gara. Il criterio di fondo non è la partecipazione, ma l’esclusione.
Questo principio è ormai fondamentale e vincente nella nostra cultura. Purtroppo è un retaggio della globalizzazione, essendo un valore che trova la sua origine pregnante più nel protestantesimo anglosassone e in quella società materialista e individualista, che nella nostra cultura latina e cristiana della comunione e della partecipazione. A livello educativo i giovani non hanno ormai altri modelli che quelli basati sul prevalere, dalla scuola al divertimento, e il successivo passo della prevaricazione è piuttosto naturale. A questo si aggiunga che i ragazzi delle nuove generazioni sono sempre più spesso figli unici, giocano da soli, ed entrano in relazione con l’altro solo in modo formale. Stiamo allevando generazioni di ragazzi con scarsa capacità di comprendere un punto di vista altro, scarsa propensione alla relazione, individualisti ed egocentrici. Una società con queste caratteristiche sarà necessariamente aggressiva e razzista.
C’è poi da considerare la caratteristica dell’autoreferenzialità. La televisione dei reality, infatti, lungi dal creare un sistema aperto, è diventata un meccanismo chiuso di autoriproduzione e autoconservazione. La TV non scopre personaggi nella realtà, li crea, li coopta, li alleva. La TV nutre se stessa. Qualsiasi reality (ma specialmente quelli di maggior successo) invade la programmazione dell’intera rete. I rotocalchi del pomeriggio servono da cassa di risonanza, i servizi dei telegiornali creano il fenomeno, addirittura anche la critica sarcastica è fatta in casa (come il Mai dire Grande Fratello della Gialappas band). L’affaire Lecciso, che così tanto ha intasato i palinsesti e incuriosito il pubblico (!?), altro non è stato che un magistrale esempio di comunicazione e pubblicità mediatica del tutto fine a se stessa. Ormai sono le “Markette” la cifra della produzione televisiva.

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