Pace e Libertà

La visita in Italia del presidente Bush in occasione del sessantesimo anniversario della liberazione di Roma, è un’ottima opportunità per svolgere alcune riflessioni che pur riallacciandosi al passato ci interrogano in maniera acuta sul nostro presente.
La prima è più semplice constatazione è che in sessant’anni nulla sembra cambiato. Lo scopo delle truppe americane di allora in Europa era quello di sconfiggere la tirannia (nazifascista) e portare nel vecchio Continente pace e libertà, ossia gli stessi scopi e gli stessi ideali che conducono oggi i marines a portare le loro guerre di liberazione e pacificazione in Medio Oriente, e domani chissà dove in questo pianeta ormai globalizzato.
Ma se il nobile sacrificio dei soldati americani, morti in Sicilia, ad Anzio, e nelle varie battaglie per risalire e liberare lo stivale dall’oppressione, è ormai scolorito nella memoria della storia, al punto che di quegli eventi rimane integra solo la gloria (al limite contestata da qualche sparuta frangia di estremisti), lo stesso non può dirsi per la recente guerra irachena, i cui scopi e risultati non sono evidenti solo per chi non voglia né vedere né sentire.

Ed allora qualche dubbio ci viene anche su quella guerra di libertà che gli americani mossero in Europa oltre mezzo secolo fa. Se gli scopi e gli ideali erano quelli sbandierati, si fa fatica a rispondere ad alcune domande. Ad esempio, perché l’Italia è diventata una nazione sul cui territorio si sono stabilmente dislocate (per sempre viene da dire) basi militari americane su cui non abbiamo di fatto giurisdizione né voce in capitolo (si ricorda il Cermis?). Se questo fatto fu dovuto alla guerra fredda, perché la Jugoslavia non aveva basi militari russe sul suo territorio e nessuno li ha mai attaccati? E perché, essendo la guerra fredda finita da ormai quindici anni, nessuno nemmeno sfiora l’argomento e si chiede cosa ci stiano ancora a fare quelle truppe e quelle basi? E se è solo una questione di alleanze, perché non esistono basi militari italiane o francesi dello stesso tipo negli Stati Uniti?

Ed ancora viene da domandarsi come mai gli alleati strinsero patti con la criminalità siciliana per favorire lo sbarco e l’avanzata, e da allora non si sia più potuta sconfiggere la mafia (cosa che in breve tempo aveva invece fatto il fascismo). E perché mai ogni snodo cruciale della vita politica italiana del dopoguerra è stato segnato da manovre e connivenze tra servizi segreti deviati (ma deviati da chi?), gruppi terroristici di destra e sinistra, gladiatori, mafiosi e quant’altro? Perché negli anni ’70 si è svolta una guerra civile in Italia, solo per dinamiche interne alla nostra patria? Perché non sappiamo e non sapremo mai da chi e in quali circostanze fu abbattuto un aereo civile ad Ustica?

È tempo che cada la maschera e infine si dica che allora in Europa, come oggi in Iraq, gli Stati Uniti erano in guerra per portare la loro pace, la loro libertà, i loro interessi economici, il loro modello di vita, la loro visione di potere globale. Del tutto legittimamente, ben inteso: avevano una strategia imperiale, i mezzi materiali e i convincimenti ideali per sostenerla… e l’hanno attuata. Ma allora si dica questo, apertamente e finalmente, come minimo potremo smetterla di ringraziarli come benefattori.

Non si può uscire dal fraintendimento e non si potrà mai costruire un efficace movimento pacifista finché non capiremo quali sono i caratteri e la natura della pace che vogliamo. Infatti non esiste una sola pace: è esistita una pax romana fondata sul ferro delle spade e sull’oro dei commerci (ci ricorda qualcosa?), ma quello appunto era un impero. C’è anche una pax mafiosa, in cui chi alza la testa finisce dentro un pilone di cemento. Certo, si può anche fare del mondo un deserto e chiamarlo pace, ma il nome più proprio sarebbe allora dominio. La vera pace al contrario non dovrebbe avere nessun tipo di relazione con qualsivoglia forma di dominio e costrizione, la pace tra i popoli potrà essere fondata soltanto sul rispetto reciproco e sull’autodeterminazione di ognuno, nel rispetto delle proprie identità e caratteri storici e spirituali.

Questo movimento pacifista, anche maggioritario in Italia (così almeno dicono i sondaggi), che contesta Bush e chiede il ritiro delle truppe italiane dall’Iraq, non si è interrogato abbastanza sul tipo di pace che vuole. Il movimento non può fondarsi soltanto su un afflato umanitarista che vede nella guerra la negazione della sacralità della vita, non può limitarsi a condannare laicamente solo i metodi e l’opportunità della guerra, accontentandosi magari di una qualche legittimazione paragiuridica, nemmeno può contestare per semplice disprezzo verso coloro (gli americani) che la guerra portano avanti.

Solo dalla comprensione, intima e lucida, dei caratteri di questa guerra può nascere una consapevolezza pacifista. Gandhi era pacifista perché riteneva che la non-violenza e la non-collaborazione colpivano al cuore il colonialismo britannico. Martin Luther King era pacifista perché riteneva che solo lo strumento dei diritti civili colpiva al cuore la segregazione senza abbattere il sistema. Ebbene, solo un pacifismo antimperialista e no-global può colpire al cuore una guerra imperiale e globalizzante come quella portata dalla civiltà anglosassone al pianeta. Se non ci si rende conto di questo, il movimento pacifista rischia di approdare in una terra di nessuno e lì rimanere. Quello che è necessario fare è dunque allargare il campo antimperialista, non restringerlo, trovare un terreno nuovo, anche di scontro dialettico ma soprattutto di incontro tra le varie linfe antagoniste al modello imperiale e neoliberale. Non fossilizzarsi, non evocare spettri, non rimanere con la faccia rivolta al passato. La pace nuova necessita di nuovi uomini.

È possibile una vera pace senza libertà? Ma quale libertà? E gli Stati Uniti sono il paese della libertà? Se provassimo ad interrogare giovani italiani sul significato che attribuiscono alla parola libertà, nella stragrande maggioranza dei casi ascolteremmo risposte di un certo tenore. “Libertà è fare ciò che si vuole senza invadere la libertà altrui”. Questa risposta, che a prima vista può sembrare sensata, ci dimostra quanto il modo di relazionarci con i nostri valori fondanti sia ormai contaminato dalla civiltà anglosassone. Quella risposta, infatti, ha un carattere tipicamente materialista e tecnicista. È come se chiedessi a taluno di parlarmi del suo giardino, e lui mi spiegasse quanto è grande, con chi confina, come sono fatte le recinzioni. Mi potrà fornire anche numeri precisi e mostrarmene una piantina, eppure non mi avrà detto nulla sull’essenza del suo giardino, che infatti potrebbe avere quelle caratteristiche fisiche ed essere un parcheggio.

La libertà è qualcosa di più e di diverso. La libertà individuale è, nella sua essenza più profonda, la libertà di scegliere consapevolmente, ossia per dirlo in maniera spirituale, coscienza di se stessi.
Parlare di libertà ha senso quando si agisce, quando ci si muove, quando si entra in relazione con gli altri, in definitiva quando si vive nella società (contrariamente a quanto si può credere, un eremita non è libero, è solo). E la vita di relazione è un continuo confrontarsi con scelte. Ogni volta che mangio, che mi istruisco, che lavoro, che mi diverto, io decido di fare una cosa piuttosto che un’altra, ogni volta, ogni momento, io scelgo. La libertà dunque non è “fare ciò che si vuole”, ma piuttosto sapere, quando si sceglie, quali sono esattamente i termini delle varie alternative, più in generale sapere cosa si vuole, in definitiva sapere chi sei.

Vivere liberi è dunque la cosa più difficile e faticosa che ci possa essere, ma è anche il fondamento della felicità. E questo spiega perché nelle nostre società, così materialmente ricche, altamente tecnologiche, dove appunto si può fare ciò che si vuole, si è anche profondamente infelici. Perché si pensa di vivere in un giardino mentre ci si muove in un parcheggio.
Siamo liberi dunque in Occidente? Una società come quella americana è formata da uomini liberi? Quanta consapevolezza c’è nelle scelte che facciamo ogni secondo? Non siamo forse infinitamente condizionati o ingannati in ogni aspetto della nostra esistenza, delle nostre scelte? È sempre più evidente, se solo avessimo il tempo di fermarci a pensare, che non scegliamo più, e se anche apparentemente scegliamo, quelle scelte sono condizionate, dettate, suggerite, imposte, estorte, spesso anche in maniera lieve, gradevole e subdola.
E non cerchiamo giustificazioni illudendoci di vivere in un immenso “grande fratello” o in un “matrix”, di cui siamo vittime senza possibilità di ribellione. Più spesso le gabbie ce le costruiamo da soli, con la nostra superficialità, debolezza, pigrizia, paura. Nessuno ci impedisce di scegliere di essere mediocri, di farci ingannare, di accettare la condizione di schiavi di lusso. Si può anche scegliere di non scegliere. Ma in caso contrario dobbiamo avere la consapevolezza che, per avere pace e libertà, bisogna essere prima uomini e poi popolo. Verso dove stanno andando gli uomini e il popolo italiano?

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