MASTER RACE: eugenetica e razzismo negli USA

EDWIN BLACK, War Against The Weak – Eugenics And America’s Campaign To Create A Master Race, Four Walls Eight Windows, New York, 2003 (1).

Edwin Black è un giornalista americano, noto al pubblico italiano per L’IBM e l’Olocausto (2) (IBM and the Olocaust – The Strategic Alliance Between Nazi German and America’s Most Powerful Corporation, Crown Publishers, New York 2001), ed ancor più noto negli USA per The Transfer Agreement – The Dramatic History of the Pact between The Third Reich ad Jewish palesatine (Carrol&Graf, New York, 2001 – edizione ampliata rispetto alla prima del 1984), che è la narrazione degli accordi fra nazionalsocialisti e sionisti per far emigrare gli ebrei tedeschi in Palestina.

Per dare un’idea dello stile di lavoro di Black, The Transfer Protocol dedica quattrocento pagine ad una trattativa durata circa sei mesi, con un apparato documentale impressionante. Black proviene da una famiglia ebraica sopravvissuta ai campi di concentramento nazisti. Inoltre non si autoqualifica come uno storico, ma come un giornalista investigativo. Ed essendo un buon giornalista investigativo, arriva là dove gli storici spesso non arrivano, perché si limita a mettere in fila in modo quasi maniacale i fatti.

Il razzismo come prodotto collettivo dell’Occidente
La guerra contro i deboli – L’eugenetica e la campagna americana per creare una razza dominante risulterà un po’ sconcertante per chi non conosca la storia del razzismo nella sua interezza, e sia quindi vincolato alla vulgata per cui esso sarebbe una creazione tutta tedesca, o prevalentemente tedesca. George L. Mosse ha ampiamente dimostrato (Il Razzismo in Europa dalle origini all’Olocausto, Laterza, Bari 1985) che si trattò invece di una creazione corale, cui ebbero parte le élites culturali di tutti i popoli europei, e fortemente gli inglesi ed i francesi, nonché la Chiesa Cattolica e parte di quelle protestanti. Pochissimo, cattolici e singoli isolati personaggi a parte, vi contribuì invece l’Italia, come peraltro ampiamente dimostrato da De Felice. (3)
Mosse afferma: “Sembra un’ironia, ma anteriormente alla prima guerra mondiale fu la Francia e non la Germania a sembrare più vicina a diventare la sede di un vittorioso movimento razzista e nazionalsocialista. La Germania non aveva un affare Dreyfus o uno scandalo di Panama o una Terza repubblica; in essa era abbastanza comune l’antisemitismo senza il razzismo, e quest’ultimo sembrava ancora trovare l’ambiente più adatto principalmente nelle discussioni accademiche, nelle consorterie intellettuali (come il circolo wagneriano), nei movimenti eugenetici o in alcune divulgazioni a livello popolare del darwinismo […] Nel 1914 il razzismo sembrò in gran parte essere confinato nelle colonie europee, mentre nella stessa Europa parve aver concluso il suo tempestoso cammino. Fu tuttavia in Europa che pochi decenni più tardi il razzismo sarebbe stato attuato ad un livello senza precedenti. La guerra e le rivoluzioni dettero al razzismo la sua più durevole e orribile applicazione”.
Al di là di parecchie integrazioni a queste righe che non si possono fare in una recensione, e la cui necessità non è imputabile a Mosse quanto probabilmente alla indisponibilità di certa documentazione all’epoca in cui egli scrisse il suo lavoro, l’affermazione dello storico ebreo è nella sostanza esatta. Per l’obiettivo della sua ricerca, egli non parlò proprio degli Stati Uniti, limitandosi ad accennare all’ eugenetica. L’eugenetica, ovvero la scienza del miglioramento delle specie, nasce alla fine dell’Ottocento in Gran Bretagna, dagli studi di Francis J. Galton.

Il razzismo anglosassone
Va considerato che, sullo scorcio del XIX secolo, gli USA erano percorsi dal mito nordico-ariano tanto quanto la Gran Bretagna, la Francia e la Germania. The Passing of Great Race (La decadenza della grande razza) di Madison Grant è del 1916, e raccoglie, sintetizza e sviluppa gran parte delle teorie nordico-arie disponibili all’epoca, e la cui iniziale messa a punto sistematica spetta al francese conte Arthur de Gobineau (Essai sur l’inégalité des race humaines, 1853-55). Diciamo questo perché si incorre spesso nell’errore di pensare che il mito nordico sia stato generato in Germania e di uso esclusivo in quel paese.

Nulla di più inesatto. Il mito nordico nasce da una serie di studi linguistici, antropometrici, ecc. comuni alle nazioni europee che potevano vantare tali ascendenze, e cioè Gran Bretagna, Francia e Germania. Ad esempio, esso è presente, ancor prima di Gobineau, nel romanzo di Walter Scott Ivanhoe, letto in tutta Europa: e siamo nel 1823. Ivanhoe è e rimane un grande classico, e non può essere definito un libro antisemita, ma è certo animato da una grande consapevolezza della superiorità della razza anglosassone sui normanni (rappresentati come molto simili ai francesi dell’epoca di Scott, a vero dire) e sugli ebrei. Chiaro che poi la fede religiosa di Scott, e l’identificazione del popolo inglese nelle sue varie componenti razziali con la monarchia, salvano capra e cavoli.

Non si può poi trascurare il “ponte” occultistico-razziale che corre fra Gran Bretagna e Germania a cavaliere del XIX e XX secolo, di cui hanno trattato Giorgio Galli e, più recentemente, Paolo A. Dossena: un “ponte” ario, ariosofico e antislavo (l’inferiorità dei negri e dei gialli, colonizzati o non, e la decadenza dei latini sono date per certe) che si prolungherà ben dentro la Seconda Guerra Mondiale (4).

Ma il mito dell’ario anglosassone passa per intero dalla Gran Bretagna negli USA e, in versione più sassone che anglo, in Germania, in grazia dell’opera dell’inglese Houston Stewart Chamberlain Die Grundlagen des XIX Jahrhunderts (I fondamenti del XIX secolo, 1899). Nelle 1031 pagine dell’edizione tedesca, e non saranno meno in quella inglese, viene sistematizzato tutto quanto correva per l’Europa – e quindi anche in Germania, ma non solo in Germania – sul mito nordico-ario. E’ noto che, in Germania, Chamberlain trova un terreno già in parte lavorato. Esattamente, però, come lo trova negli USA.

Il razzsimo negli USA: verso la creazione di una Master Race (5)
Ciò premesso, non è il caso nemmeno di provare a riassumere un testo ricco di dettagli a livello (per le fasi critiche) di giornate, di singole conversazioni, di invio e riposta di biglietti personali, di memorandum, ecc.: Black ha avuto la collaborazione di circa 50 volontari in 4 paesi, per identificare, organizzare e raccogliere attorno a 50.000 documenti, alcuni di dimensioni imponenti.
Lo studioso tradizionalista e razzista italiano J. Evola – personaggio di indubbia competenza in materia, autore di una teoria cosiddetta “spirituale” delle razze, e buon conoscitore delle idee razziste tedesche degli anni Trenta – ne Il Mito del Sangue (6) riporta in bibliografia due autori statunitensi: Lothrop Stoddard e Madison Grant. Dello Stoddard egli avrà a riparlare anche in Sintesi di Dottrina della Razza (7), come autore di un testo, The revolt against Civilisation, che interpreta i movimenti rivoluzionari dell’epoca come un soprassalto di uno strato biologico di subumanità. Stoddard è pure autore di The Rising Tide of Color Against White World Supremacy (8), ed è citato anche da Rosenberg a proposito della rivoluzione russa:

Nell’anno 1917 l’ “uomo russo” fu finalmente redento. Esso si divise in due parti. Il sangue nordico-russo rinunciò al combattimento, quello orientale-mongolico proruppe potentemente, chiamò in causa Cinesi e popoli del deserto; Giudei e Armeni si accalcarono per ottenere il comando ed il calmucco-tataro Lenin divenne il padrone. Il demonismo di questo sangue si diresse istintivamente contro tutto ciò che ancora esteriormente agiva in modo retto, appariva virilmente nordico, alla pari di un rimprovero vivente contro un uomo che Lothrop Stoddard definì giustamente “sottouomo”(9).

Che il razzismo nazionalsocialista avesse più di un debito verso il modello statunitense di legislazione eugenetica e contro l’immigrazione, è cosa nota a chi abbia letto il Mein Kampf. Fin qui, almeno per quanto ci è dato sapere, si riteneva che il debito si limitasse a tanto. In realtà, pare che la cosa sia più complessa, anche perché finora, vuoi per circoscrizione geografica, vuoi per focalizzazione tematica degli studiosi, in linea generale sembrava che gli Stati Uniti fossero stati esenti dal collegamenti organici con il razzismo tedesco e italiano, pur avendo al loro interno conflitti razziali con i negri, i gialli, i latini – fra i quali, non in ultimo, gli italiani.

Lo studio di E. Black (10) mette in luce alcune circostanze poco note, che qui possono solo essere accennate. In primo luogo, uno dei paesi dove per primo fu applicata, su base eugenetica e con una chiara discriminazione a favore dei bianchi di origine nordica, una vera e propria legislazione di segregazione forzata e di “terapie” mediche di sterilizzazione, sono stati proprio gli USA. Una delle prime leggi in tal senso risale al 21 aprile 1911, e porta la firma di Woodrow Wilson, allora governatore del New Jersey. In secondo luogo, lungo il primo trentennio del secolo scorso ha agito, sia verso l’interno, sia verso l’esterno degli USA, un movimento eugenetico razzista, finanziato dalla Carnegie Institution e dalla Rockefeller Foundation. Il movimento aveva come leader gli scienziati Charles Davenport e Harry Laughlin.

Dal punto di vista teorico, esso si basava appunto dagli studi di Francis J. Galton. Il clima culturale inglese in cui Galton lavora è quello in cui gli indimenticati studi di Malthus e la fede nella libera iniziativa si saldano con i primi tentativi di applicazione delle teorie di Darwin alla società, da cui scaturisce il darwinismo sociale, che troverà in Spencer il suo più noto esponente. Il problema che ci si pone è quello della lotta per la vita. Chi può sopravvivere, e vincere, in questa lotta? I più adatti, i soggetti socialmente più adatti. E chi sono i più adatti? Coloro che hanno la migliore eredità genetica, il migliore corredo genetico, diremmo oggi. La rilevanza dell’ambiente è nulla. L’individuo in quanto erede di una schiatta di socialmente adeguati si farà spazio, primeggiando sugli altri e sulle circostanze, con quegli adattamenti tendenti a massimizzare in positivo la sua capacità di sopravvivenza e quindi, in definitiva, la sua stessa evoluzione, intesa in senso ascendente. E’ dubbio che Darwin avrebbe condiviso in pieno una prospettiva del genere, anche perché nei suoi studi le posizioni riguardo all’applicabilità della teoria dell’evoluzione delle specie animali all’uomo non sono univoche.
Galton era uno studioso di genetica: in una temperie come quella delineata, cominciò ad ipotizzare che fosse possibile migliorare la razza umana, nel senso di renderla più atta a sopravvivere, con vantaggi facilmente immaginabili a livello sociale, nazionale e di governo dell’Impero britannico. L’attitudine di Galton è quella della cosiddetta eugenetica positiva, ossia orientata al miglioramento del tipo umano. Ma nella prospettiva malthusiana della scarsità delle risorse rispetto al numero di coloro che hanno bisogno di accedervi, c’è un altro aspetto rilevante: i deboli, coloro che sono socialmente inadatti (socially unfit). Per costoro, bisogna provvedere. Provvedere costa. E non solo: i socialmente inadatti possono essere adattissimi a riprodursi, generando – alla luce dei dati sull’ereditarietà disponibili all’epoca, basati sulla genetica di Mendel – altri individui socialmente inadatti, fino a rappresentare un costo insostenibile. A tacere poi dei rischi di ibridazione con soggetti socialmente adatti, destinati, per la nota teoria biologica che i caratteri negativi sono dominanti, a degenerare. Questo è l’àmbito dei problemi che Galton svilupperà nel suo studio del 1883 Inquiries into Human Faculty and Development, opera in cui proporrà la creazione di una nuova disciplina: l’eugenetica, appunto.
In Gran Bretagna il lavoro di Galton, fino ad un certo momento storico, resterà confinato in àmbito accademico. Galton stesso, che era uno scienziato rigoroso, lavorerà sulla sua teoria fino alla morte (1911), la modificherà, e non sarà mai del tutto convinto dell’esistenza di fondamenti fattuali assolutamente certi sull’ereditarietà e sulla sua assoluta prevalenza rispetto ai fattori ambientali.
Il paese dove invece le teorie di Galton troveranno ampia ed entusiastica accoglienza sono appunto gli USA. Il contesto è ben descritto da Black: a suo parere, la visione romantica del melting pot è mero lirismo. La realtà è che fra il 1890 e il 1920 arriveranno negli USA diciotto milioni di immigrati. In più, resta tuttaltro che risolta, dopo la Guerra Civile, la questione dei negri. Nota Black: “l’allevamento era nel sangue dell’America. L’America aveva allevato esseri umani perfino prima di diventare una nazione. La schiavitù prosperò sull’allevamento degli esseri umani[…] Concetti su come allevare e migliorare una società non erano affatto lontani dal pensiero successivo alla Guerra Civile Americana. Nel 1865, due decenni prima che Galton coniasse il termine eugenetica, la comunità utopista di Oneida, nello stato di New York, dichiarava nei suoi giornali che ‘l’allevamento umano deve essere una delle principali questioni della nostra epoca…’ Pochi anni dopo, mentre i concetti appena espressi da Galton attraversavano l’Atlantico, la comunità di Oneida avviò il suo primo esperimento selettivo di allevamento umano con 53 volontari di sesso femminile e 38 maschi.” (11)
Le razze da tenere d’occhio, perché ereditariamente inadatte, sono ebrei dell’Europa orientale, ungheresi, polacchi, russi e italiani. L’ordine varia a seconda delle circostanze, dei luoghi e degli obiettivi, ma l’insieme è quello. Quando si parla di eugenetica, in termini operativi e nel contesto angloamericano, si deve insomma intendere una miscela di opinabili estrapolazioni della teoria dell’ereditarietà di Mendel, più opinabili estrapolazioni delle teorie di Darwin, più il darwinismo sociale di Spencer, più sviluppi del pensiero di Malthus, più una cospicua dose di razzismo nordico nella variante anglosassone, subvariante USA: ossia, gli USA intesi come punta di lancia, come vertice dello sviluppo della civiltà anglosassone. Più, come s’è detto, l’antisemitismo, non di stile cattolico (deicidio) ma a carattere sociologico (ebreo sporco, pigro, ladro e sfruttatore).
Dell’ambiente che ruotava attorno a Davenport e Laughlin erano parte anche i citati L. Stoddard e M. Grant. Se si legge la ristampa del 2000 dell’opera principale di Grant, The Passing of the Great Race (12), sia nelle 260 pagine di testo che nelle oltre 200 di apparato critico e documentario, si vedranno scorrere tutti i nomi più celebri del razzismo occidentale, con una forte presenza di quelli americani e inglesi. Il lavoro di Grant, peraltro, è forse una delle esposizioni del razzismo biologico nordico-ario più sistematica, radicale e dettagliata che ci sia stato possibile leggere, ed ha ben altro spessore per esempio rispetto agli scritti di Rosenberg. Potremmo dire che è un H.F.K. Günther (13) con una spiccata caratterizzazione biologica.
Davenport e Laughlin, con il denaro della Carnegie Institution, aprono nel 1904, a Spring Harbor, la Station for Experimental Evolution, successivamente denominata ERO (Eugenics Record Office). Esercitando una opportuna attività di lobbying, l’ERO otterrà l’approvazione della legislazione segregazionista di cui s’è detto in numerosi stati degli USA, legislazione che resterà vigente, per quanto disapplicata all’incirca nell’ultimo ventennio del secolo scorso, fin quasi alle soglie del 2000 (14). Non mancò l’appoggio di importanti figure di governo, ed è al lobbying dell’ERO che si deve la legislazione limitativa dell’immigrazione del 26 maggio 1924 emanata dal presidente Calvin Coolidge.
Inoltre, a partire dal convegno di eugenetica che si tiene a Londra nel 1912, e a cui darà il suo attivo appoggio, fra gli altri, Winston Churchill, Davenport e Laughlin ed i loro collaboratori, valendosi della rete delle ambasciate e dei consolati americani, cercano (in alcuni casi, riuscendoci) di avviare una sorta di schedatura mondiale dei soggetti degni e indegni di far parte della società civile.

Infine, attivissima, fino alle soglie della seconda guerra mondiale, sarà la collaborazione tecnico-scientifica ed il finanziamento di ricerche agli scienziati tedeschi, in particolare a quelli del Kaiser-Wilhelm Institut di Berlino. Alcuni dei quali ritroveremo come medici nei campi di concentramento.
A dire di Black – ma è piuttosto difficile mettere in dubbio i risultati di uno studio minuziosamente documentato, e che trova conferme in altri testi americani – le tecniche nazionalsocialiste di discriminazione, documentazione sull’ereditarietà ed intervento medico sui soggetti “inferiori” sono largamente debitrici della consolidata esperienza americana, iniziata come si è visto ben prima delle leggi di Norimberga (16 settembre 1935) (15).

Dal punto di vista della ricostruzione fattuale, lo studio di Black non permette più di sostenere alcuni luoghi comuni, quali: a) che l’unica forma di razzismo esistente in USA riguardasse i negri, e si sia avviata a lenta soluzione dopo la Guerra Civile 1861-1865; b) che l’etichetta WASP (White Anglo-Saxon Protestant) abbia avuto una valenza al massimo discriminatoria, ma non persecutoria; c) che i collegamenti ideologici con il razzismo cosiddetto per eccellenza – quello tedesco – in USA non siano mai esistiti; d) che non ci sia stata condivisione di obiettivi fra i razzisti USA e quelli tedeschi, che invece ci fu; e) che non ci sia stata collaborazione fra i razzisti USA e quelli tedeschi, che invece ci fu; f) che negli USA il razzismo fosse cosa di una ristretta ed ignota minoranza: ristretta sì, ignota no; g) che lo Stato Federale, ed i singoli Stati, non ne sapessero nulla e non fossero coinvolti sia nella condivisione degli obiettivi che nella cooperazione con i razzisti USA ed anche con quelli tedeschi, mentre lo furono; h) che il razzismo nazionalsocialista, nella sua parte di attuazione tecnico-operativa, sia stata un’invenzione autogena esclusivamente dei tedeschi: non è così.
Ecco infine un singolare episodio narrato da Black:

[in Germania] uno di questi agitatori [nazionalisti razzisti, ndr] era uno scontento caporale dell’esercito tedesco. Egli era un nazionalista estremista e si riteneva inoltre un biologo della razza e un difensore di una razza superiore. Era determinato ad usare la forza per conseguire i suoi obiettivi di nazionalismo razzista. Nella cerchia a lui più vicina c’era il più importante editore eugenista tedesco (16). Nel 1924 stava scontando una condanna in carcere per un’azione insurrezionale. Mentre era in carcere, occupò il suo tempo meditando testi di eugenetica, che citavano ampiamente Davenport, Popenoe ed altri convinti studiosi americani razzisti. Inoltre, egli seguì attentamente gli scritti di Leon Whitney, presidente della Società Eugenetica Americana (AES), e di Madison Grant, che esaltava la razza nordica e deprecava la sua corruzione a causa dei Giudei, dei Negri, degli Slavi e di altri gruppi non dotati di capelli biondi e occhi azzurri.
In The Passing of the Great Race, Madison Grant ha scritto: “Un erroneo rispetto per ciò che sono considerate leggi divine ed una fede sentimentale nella santità della vita umana tende ad ostacolare l’eliminazione dei bambini minorati e la sterilizzazione di quegli adulti che sono essi stessi senza valore per la collettività. Le leggi di natura richiedono l’annullamento degli inadatti (the obliteration of the unfit) e la vita umana ha valore soltanto quando è utile per la comunità o razza.”

Un giorno dei primi anni Trenta, il presidente dell’AES Whitney andò a trovare a casa Grant, che presiedeva in quel periodo un comitato eugenetico sull’immigrazione. Whitney voleva mostrargli una lettera che aveva appena ricevuto dalla Germania, scritta dal caporale ora scarcerato e diventato l’astro nascente della scena politica tedesca. Grant poté soltanto ridere, ed estrasse una lettera inviata a lui. Era dello stesso tedesco, che lo ringraziava per avere scritto The Passing of the Great Race. La lettera dell’ammiratore affermava che il libro di Grant era “la sua Bibbia”. […]
L’autore di quelle lettere era Adolf Hitler (17).

A fronte di queste circostanze, non stupisce che il razzismo americano trovi un’eco perfino in quella tragedia che fu il razzismo fascista. Le leggi statunitensi sull’immigrazione siano citate ne Il Giornale d’Italia del 31 luglio 1938, in un articolo a firma di Virginio Gayda e intitolato Razzismo delle Democrazie. Né stupisce che lo stesso Gayda, in un contesto analogo, citi Laughlin (18). E Davenport ed il suo collaboratore Morris Steggerda trovano spazio, in estratto, ad esempio, nel numero 10 del 20 marzo 1940 de La Difesa della Razza, con un lungo studio sui mulatti della Giamaica, ricco di considerazioni metodologiche sul rilevamento degli effetti negativi degli incroci (19).
A questo punto è necessaria una precisazione. Deve essere ben chiaro che non si intende qui affatto ripetere l’argomentazione autogiustificativa caratteristica di molti autori quali quelli appena citati, ossia: “sono razziste perfino le democrazie!”.

Tanto meno si intende imputare ai pur influenti circoli eugenetico-razzisti statunitensi la responsabilità storica del razzismo nazionalsocialista, in ossequio ad una qualche forma di antiamericanismo pregiudiziale.
Si intende invece dare per definitivamente accertato – ad integrazione e completamento dei lavori del Mosse e del Poliakov (20), per riferirsi solo ad alcuni dei più noti – che la demonìa mentale razzista fu coralmente propria di tutto l’Occidente, nessuno escluso, e che anche i governi e le élites intellettuali ed economiche che di lì a poco si sarebbero impegnati in crociate a favore della democrazia e contro il razzismo avevano subìto tale demonìa, quando non vi erano stati, o vi erano tuttora(21), più o meno estesamente implicati. Nel caso degli USA ciò è vero anche per il territorio nazionale, con provvedimenti di restrizione della libertà personale e “clinici”, a cominciare da forme varie di sterilizzazione forzata, che riguardarono non qualche singolo individuo, bensì circa 70.000 persone.

Acqua passata?
Lo stato attuale delle ricerche sulla razza, in séguito allo sviluppo della genetica (22), è questo. La nozione di razza biologica ha perso di significato. In termini di codice genetico, la graduazione delle differenze è spesso più alta fra individuo ed individuo che non fra gruppo etnico e gruppo etnico. In sostanza, sempre in termini biologici, si riscontra una graduazione di sfumature, piuttosto che una separazione netta. Nota Cavalli-Sforza, uno dei massimi studiosi di genetica attuali:

Per tutte queste ragioni la classificazione in razze è difficile se non impossibile, come lo è rispondere a domande precise: esiste una razza italiana? Esiste una razza ebraica? (23)

Anche sui caratteri ereditari, quindi costanti e trasmissibili, vi sono più dubbi che certezze, così come sulla predominanza dell’ereditarietà biologica stessa rispetto ai fattori ambientali e culturali. Per altro verso, il concetto di purezza della razza, o di una singola popolazione, ha perso di senso a causa del rilevamento di diverse forme di variazione all’interno di una stessa popolazione, per quanto piccola essa sia.
Ora, una considerazione sorge quasi spontanea dalla lettura attenta delle ricerche accennate – soprattutto quando esse siano esposte con rigore, e quindi con distinzioni ben nette fra fatti accertati, estrapolazioni ipotetiche, teorie, programmi di studio o semplici preferenze personali, come è il caso di Cavalli-Sforza, o, in un àmbito connesso, di Edoardo Boncinelli (24).
La considerazione è che tutto il quadro sia da un lato largamente ipotetico, dall’altro lato percorso da un impulso alquanto sospetto. E’ cosa nota che è in corso un progetto di lettura del genoma umano – fra l’altro promosso dallo stesso Cavalli-Sforza. Gli scopi appaiono nobili: si parte infatti con l’intenzione di leggere il genoma per curare le malattie, e quindi migliorare la salute umana.
Il progetto – cui è dedicata l’ultima parte del testo di Black – ha dato luogo a molteplici discussioni e svariate interpretazioni, sia dottrinali (la rinascita dell’eugenetica?) che geopolitiche (la prevalenza degli USA nel progetto) (25). Non intendiamo per ora entrare nei dettagli. Certo è che, prima facie, è molto forte il sentimento interiore che qui – al di là della buona fede degli studiosi – continui ad agire qualcosa che esce dalla stessa matrice spirituale che generò il razzismo.
Se poi si pone mente anche soltanto al nesso fra la nozione di malattia e quella di social fitness, già bene analizzato da Canguilhem e da Foucault (26), è lecito più di un timore.
Anche solo a vedere quello che avviene quotidianamente, non si può certo dire che le contrapposizioni basate su svariate forme di nazionalismo etnico-religioso siano svanite, o che idee imperiali basate sulla supposta idea di essere titolari di un manifesto destino siano uscite dall’anima di alcune classi dirigenti. Forse, nella mente di qualche geostratega angloamericano, alberga una versione aggiornata dell’idea di Master Race: una razza socially fit, geneticamente sana, english-speaking. Una super-razza, che può prescindere dai caratteri fisici superficiali, conservando per sé i caratteri decisivi per gli egèmoni del Terzo Millennio: superiorità intellettuale, sanità fisica, competenza esclusiva nel dominio delle tecnologie vincenti.

Il razzismo fenotipico, per così dire, rispetto a quello culturale, genomico e tecnologico potrebbe forse un giorno apparire solo un prodromo rozzo e sanguinario – il cui senso è stato quello, con i suoi stessi eccessi, di sgomberare il campo, in termini geostrategici e non solo, alla vera Master Race.
E’ soltanto un’ipotesi, s’intende. Ma alcuni elementi di conferma non mancano: antecedenti, coevi e successivi all’imprescindibile lavoro di Black.

Note:

(1) I testi di E. Black non tradotti in italiano sono disponibili presso www.amazon.com, che ha un efficiente servizio di spedizione a domicilio. Forniamo questa indicazione perché abbiamo qualche dubbio sulla volontà degli editori italiani di pubblicarli.
(2) Rizzoli, Milano 2001. Ne è in uscita una edizione economica.
(3) Senza alcuna intenzione minimamente assolutoria in ordine alla politica razziale del regime fascista, va notato che, a proposito dell’Italia, dice Mosse: “Il principale alleato della Germania, l’Italia fascista, sabotò la politica ebraica nazista nei territori sotto il suo controllo. le leggi razziali introdotte da Mussolini nel 1938 sul modello delle leggi di Norimberga impedivano agli ebrei di svolgere molte attività e si tentò di raccogliere gli ebrei in squadre di lavoro forzato; ma mentre in Germania Hitler restringeva sempre più il numero di coloro che potevano sottrarsi alla legge, in Italia avveniva il contrario: le eccezioni furono legioni. Come abbiamo già detto, era stato Mussolini stesso ad enunciare il principio ‘discriminare, non perseguitare’. Tuttavia l’esercito italiano si spinse anche più in là, indubbiamente con il tacito consenso di Mussolini: la zona d’occupazione italiana in Francia divenne così il rifugio degli ebrei braccati. Ovunque, nell’Europa occupata dai nazisti, le ambasciate italiane protessero gli ebrei in grado di chiedere la nazionalità italiana. Le deportazioni degli ebrei cominciarono solo dopo la caduta di Mussolini, quando i tedeschi occuparono l’Italia. Da allora aumentò anche l’attiva persecuzione degli ebrei nella fantomatica repubblica rimasta a Mussolini, la repubblica di Salò, dove prevalse la piccola ala antisemita del partito fascista; ma erano comunque i tedeschi a comandare e ad imporre la loro politica ebraica”. Nella sostanza, questa affermazione, calibrata e pesata parola per parola, non è ad oggi contestabile: necessiterebbe però di tutta una serie di integrazioni. Fra queste, bisogna almeno aggiungere per onore di verità che la prevalenza – molto più verbale, verbosa e teorica che effettiva – della piccola ala antisemita del PFR non bloccò più di tanto la protezione degli ebrei anche da parte di molti fascisti repubblichini e di varie istituzioni della RSI. Facciamo rilevare che il De Felice, che svolge un’analisi maggiormente dettagliata, arriva a conclusioni analoghe.

(4) G. GALLI, Hitler e il nazismo magico, Rizzoli, Milano 2002 (9˚ edizione); PAOLO A. DOSSENA, Hitler & Churchill – Mackinder e la sua scuola, Terziaria, Milano 2002. Del Galli, si veda anche l’introduzione a A. HITLER, Mein Kampf, Kaos Edizioni, Milano 2002, che – a nostra conoscenza – è la prima edizione italiana critica e completa. L’estesa documentazione citata nei tre testi conferma, a nostro avviso, la totale subordinazione intellettuale di Hitler e di molti dei suoi diretti collaboratori ad una concezione di origine e stampo occidentale del razzismo, alquanto estranea alla cultura tedesca moderna (anche politica e militare). La pregiudiziale antislava (che poi sarà quella decisiva per la catastrofe militare della Germania) nasce piuttosto durante la decadenza e poi la decomposizione dell’Impero Asburgico. Su quanto tale contesto – in cui giocarono un ruolo chiave sia l’antisemitismo che l’antislavismo cattolici – abbia influito su Hitler, cfr. B.HAMANN, Hitler, gli anni dell’apprendistato, Corbaccio, Milano 1998
(5) Master Race: razza dominante, razza padrona. L’espressione è nei documenti dell’eugenetica USA, e corrisponde al tedesco Herrenrasse (razza di signori). Ad oggi non siamo in grado di dire se sia nata prima l’espressione in inglese o quella in tedesco.
(6) J. EVOLA, Il Mito del Sangue, Hoepli, Milano 1937
(7) J. EVOLA, Sintesi di dottrina della razza, Hoepli, Milano 1941, pag 211-212, n.
(8) Charles Scribner’s Sons, New York 1926
(9) A. ROSENBERG, Il mito del XX secolo, trad. it. parziale dell’edizione tedesca del 1937, Genova, s.d., pag. 152

(10) Documentazione estesa, ma prevalentemente riferita alla realtà statunitense, anche in N.ORDOVER, American Eugenics: Race, Queer Anatomy, and the Science of Nationalism, University of Minnesota Press, Minneapolis, 2003. Cfr. anche D.J. KEVLES, In the Name of Eugenics, University of California Press, Berkeley e Los Angeles, 1985. Dell’eugenetica americana si trova un cenno in L.L. CAVALLI-SFORZA, F.CAVALLI-SFORZA, Chi siamo – la storia della diversità umana, Mondadori, Milano 1993, pagg. 331-332

(11) BLACK, op. cit., pag. 21
(12) M. GRANT, The Passing of the Great Race, Ayer, North Stratford (NH) 2000 (anastatica della 4ª edizione del 1922; la prima edizione è dell’ottobre del 1916)
(13) Günther fu dei più qualificati studiosi razzisti tedeschi del periodo nazionalsocialista, di tutt’altro livello rispetto a Ronseberg. Dell’opera di Günther Frömmigkeit nordische Artung, Jena 1934, esiste una traduzione italiana con il titolo Religiosità Indoeuropea, Ar, Padova 1975
(14) L’Alabama ha abolito la propria legislazione contro gli incroci razziali nell’autunno 2000 (BLACK, op. cit., pag. 401) . L’autore elenca varii casi di applicazione della legislazione eugenetica anche negli anni settanta e ottanta.

(15) Leggi del regime nazionalsocialista che avviarono la diminutio giuridica e quindi la persecuzione degli ebrei tedeschi.

(16) si tratta di Julius Lehmann, uno dei più stretti collaboratori di Hitler all’epoca, e con lui coinvolto nel putsch di Monaco del 1923

(17) BLACK, op. cit., pag. 259-260. La fonte dell’episodio è nell’autobiografia manoscritta inedita di Whitney, redatta nel 1973, e attualmente nella collezione di manoscritti dell’American Philosophical Society (APS)
(18) V. GAYDA, Porte chiuse negli Stati Uniti, in Il Giornale d’Italia, 9 agosto 1938
(19) C. DAVENPORT, M. STEGGERDA (estratto), Mulatti di Giamaica, in La Difesa della Razza, cit., pagg. 19-24
(20) L. POLIAKOV, Storia dell’antisemitismo, La Nuova Italia, Firenze 1974-1994; id., Il mito ariano, Editori Riuniti , Roma 1999
(21) L’abolizione della segregazione dei negri nelle Forze Armate USA è avvenuta il 30 luglio 1948, con il decreto presidenziale (Executive Order) n. 9981, a firma di Harry Truman. Tutta la politica dei diritti civili di Truman incontrò una opposizione molto dura.
(22) E’ importante notare che, prima di tali ricerche, ancora nel 1962 l’autorevole Enciclopedia Britannica, alla voce Races of Mankind riporta una classica tassonomia morfologica basata sull’indice cranico e simili. La voce è redatta da L.H.D. Button, un etnoantropologo; la bibliografia di riferimento è tutta degli anni 20, sicché è da pensare che si tratti di una revisione del testo scritto all’epoca

(23) CAVALLI-SFORZA, op. cit., pag 335. Un’altra esposizione chiara e di qualità si trova alla voce Razza dell’Enciclopedia Italiana, basata anche sugli studi del citato studioso, del quale è fondamentale l’ampio Storia e geografia dei geni umani, Adelphi, Milano 1994

(24) cfr. E. BONCINELLI, Il Cervello la Mente l’Anima, Mondadori, Milano 2000. Ci sembra giusto segnalare al lettore la spiccata differenza, dal punto di vista dell’espressa distinzione di statuto scientifico delle loro affermazioni, fra questi studiosi ed alcuni di estrazione angloamericana, che tendono a dare per certo quello che non lo è, in una costruzione di sapore quasi metafisico.
E’ possibile accertarsene di persona, esaminando lavori pur di grande ampiezza ed acume quali, e.g., S. PINKER, Come Funziona la Mente, Mondadori, Milano 2000; R. BENIGER, Le origini
della società dell’informazione
, Torino, Utet 1995
(25) I riferimenti bibliografici sono numerosissimi. In molti casi si tratta di polemica, o di elementi di documentazione che dovrebbero essere sottoposti a verifica e riordino, prima di potere esprimere una qualche ipotesi fondata. Ci sia permesso limitarci pertanto alle sintesi di BLACK, op. cit., pag. 411-444 , e della ORDOVER, op. cit., passim
(26) M. FOUCAULT, Nascita della clinica, Einaudi, 1982; G. CANGUILHEM, Il normale e il patologico, Einaudi 1999

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