Non è la nostra pace, non è la nostra guerra

Ci eravamo già chiesti su queste pagine a cosa e a chi servisse il dispiegamento di truppe italiane in Afghanistan e in Irak. Oggi che, per la prima volta dai tempi di Bava Beccaris, delle imprese coloniali e delle guerre mondiali, truppe italiane hanno sparato su civili in rivolta, uccidendo fra gli altri due bambini ed una donna, è necessario ritornare sul tema.
È oramai chiaro che i nostri soldati muoiono e uccidono per interessi sottilmente gestiti da una politica anglosassone di “stabilizzazione attraverso la destabilizzazione”, ben nota dai tempi della Guerra Fredda in Occidente e collaudata con successo dagli israeliani in Medio Oriente, secondo piani di “libanizzazione” dell’area, che furono resi pubblici in Israele nel corso dei primi anni Ottanta.
Quando si utilizzano queste metodiche di controllo politico-militare, è fondamentale che resti attiva una conflittualità di bassa intensità, alimentata da conflitti etnico-religiosi, che impedisca il formarsi di aggregazioni nazionali e consenta interventi massicci e mirati ogni volta che si superi un certo livello: in tal modo si giustifica una presenza militare costante nell’area, si costringono gli alleati a un coinvolgimento continuo, grazie ad una condizione di permanente emergenza (a questo serve il periodico riacutizzarsi del “terrorismo”), si rafforza l’immagine di un mondo arabo ingovernabile e irrazionale – il tutto a un costo molto basso di vite umane, soprattutto allorché molte di queste vite sono lasciate sul terreno dagli alleati.
Nulla a che vedere con il nation building e l’importazione della democrazia, a cui nessuno riesce più a credere. Così come è altrettanto chiaro che la pace non è quello che interessa alla leadership anglosassone: se lo fosse stato davvero, il proconsole Usa in Irak avrebbe evitato lo scontro con gli sciiti, avrebbe cercato di utilizzare nell’interesse della popolazione e non delle compagnie occidentali le ingenti risorse della ricostruzione, avrebbe evitato l’uso spregiudicato delle divisioni religiose per attizzare la guerra civile nel Paese.
Il governo italiano, nel collaborare con le strategie imperiali dell’alleato, si assume a questo punto una responsabilità gravissima, tanto più grave per un sistema politico che ha posto tra i suoi valori fondanti quello della resistenza partigiana all’occupazione straniera, ha giustificato il ricorso alle armi di civili contro un esercito occupante, ha considerato assassini, oppressori e traditori i soldati regolari italiani che con quegli occupanti (alleati fino a poco prima) operarono nella repressione anti-partigiana. Ora, per quanti distinguo, alcuni dei quali molto rischiosi, si possano avanzare, è difficile impedire che questi sanguinosi fantasmi riemergano dal passato, senza nemmeno trovare più l’appiglio di quella lotta ideologica che in qualche modo giustificò se non nobilitò la guerra civile 1943-1945.
Ma vi sono altri fantasmi nel nostro presente: è evidente il timore dei governi italiani (D’Alema per il Kossovo, Berlusconi per Afghanistan e Irak), dopo il voltafaccia del 1915 rispetto alla Triplice Alleanza e dopo l’8 Settembre 1943, ad abbandonare (sarebbe la terza volta in un secolo) l’alleato, nordamericano in questo caso. In certo modo i soldati italiani sono oggi in ostaggio del passato della Patria, sono lì a morire e ad uccidere per dimostrare al mondo che l’Italia è un Paese che non abbandona gli alleati e non rinnega i patti.
Ma vi è qualcosa, oggi, di diverso, rispetto a quel passato: quei voltafaccia, quei cambiamenti di fronte, sono stati comunque legati alla percezione, giusta o sbagliata che fosse, di un interesse nazionale. Ora, lo stiamo vedendo, il ruolo italiano è di totale subordinazione all’alleato nordamericano: e questa è, in effetti, conseguenza diretta proprio di quelle vicende “fondanti” dell’8 Settembre, in cui, come scrisse qualcuno all’epoca, si doveva “legare l’asino dove voleva il padrone”.
Il coraggio che si richiede alla classe dirigente italiana è quello di ritirare le nostre truppe, motivando questa decisione non con la paura per l’incolumità dei nostri soldati, ma dicendo chiaro e forte che l’Italia come Paese sovrano viene impiegato per compiti in contrasto con la nostra Costituzione e difformi da quelli previsti dai trattati che ci legano agli alleati. Dicendo insomma chiaro e forte che questa non è pace e quindi non dovrà diventare la nostra guerra.
In questo modo non solo potremo iniziare a scioglierci da vincoli diplomatici sui quali non si è mai pronunciata espressamente la volontà popolare, ma, quel che forse conta di più, cominceremo a liberarci dai fantasmi terribili di un passato con cui non si è ancora voluto fare coscientemente i conti e che, proprio per questo, incalza sempre più da presso il nostro presente.

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