Il nostro agente a Baghdad

Chi sta vincendo il dopoguerra in Iraq? La risposta a molti potrà sembrare banale o provocatoria: gli Stati Uniti.

Dal primo maggio del 2003, quando il presidente degli Stati Uniti George W. Bush dichiarò la guerra in Iraq “missione compiuta”, si sono susseguiti una serie di avvenimenti tali da poter confutare quella trionfante affermazione. Apparentemente, infatti, le sconfitte e i problemi per gli americani sono stati superiori alle vittorie, potendosi queste restringere alla sola cattura di Saddam Hussein, ed alla precedente uccisione dei suoi due rampolli, Udai e Qusai, dunque con la fine formale e sostanziale di quel regime.
Se infatti si tengono ferme quelle che erano le intenzioni e gli obiettivi manifestati dagli americani per l’ingresso in guerra, dobbiamo assistere ad una sequela di questioni irrisolte: il regime di Saddam Hussein non si è rivelato quella terribile minaccia per il mondo a causa delle sue armi di distruzione di massa. Come volevasi dimostrare, esse si sono appalesate come un semplice pretesto, un casus pompato artificialmente poiché era la motivazione con l’appeal più penetrante per l’opinione pubblica. Lo aveva ammesso esplicitamente il sottosegretario alla difesa Paul Wolfowitz in una intervista alla rivista Vanity Fair; lo ha di fatto ammesso il segretario di Stato Colin Powell (il requisitore presso l’Onu con tanto di boccetta all’antrace: l’immagine fece il giro del mondo) dichiarando recentemente che, con le notizie a disposizione oggi, probabilmente non avrebbe allora appoggiato la guerra; lo ha sostenuto il direttore della CIA George Tenet, il quale di fronte alle commissioni parlamentari ha dichiarato che nei dossier dell’agenzia non si era mai parlato dell’Iraq come pericolo “imminente”, semmai “potenziale”. Rimangono solo le menzogne reiterate dell’amministrazione americana e del fedele Tony Blair, con la consapevolezza (davvero triste per le nostre democrazie) che se mai dovessero pagare elettoralmente queste falsità, da un lato il misfatto è già stato compiuto, dall’altro non c’è alcuna garanzia che chi prenderà il loro posto farà meglio in futuro.
L’altro grande obiettivo dichiarato dagli Stati Uniti consisteva nel portare, in un Iraq liberato, democrazia e diritti per la popolazione. Tale obiettivo si sta dimostrando in tutta la sua pochezza e velleitarietà. La maggior parte della popolazione rifiuta radicalmente il protettorato americano, lo dimostrano con una fiera guerriglia i sunniti e le fazioni sciite più radicali nel centro e nel sud del Paese. Addirittura sono gli sciiti a dare lezioni di democrazia agli americani: se questi ultimi prevedono per le prossime elezioni un sistema di voto su base etnico/tribale tale da formare una sorta di gruppo oligarchico che guidi il Paese (e su cui presumibilmente gli americani vorrebbero continuare ad avere una forte influenza), nelle grandi manifestazioni di massa che si sono tenute nel mese di febbraio a favore del leader religioso moderato Al Sistani, si è chiesto nella più pura tradizione liberale occidentale, che le elezioni dovranno basarsi sul criterio un uomo, un voto.
La terza scommessa degli Stati Uniti per il dopoguerra era la rinascita di un Iraq prospero ed economicamente libero che fungesse da esempio per tutto il Medio Oriente. L’Iraq al contrario si sta trasformando in uno dei luoghi più insicuri della regione, un ricettacolo per ogni estremista e gruppo terroristico, un ambiente economico dove dominano la corruzione, il malaffare, gli avventurieri di ogni tipo.

Tutto male per gli americani allora? La verità è che i punti toccati possono avere una lettura diversa da quella ufficiale, e, se si tiene conto degli obiettivi veri della guerra, questi rientrano tranquillamente in quello schema generale preordinato dalla fazione imperiale americana che questa guerra ha voluto, condotto, e ora sta gestendo.

Saddam Hussein e l’Iraq: prima, durante e dopo. Nucleo centrale da cui partire per la comprensione effettiva della situazione e quindi per i suoi sviluppi, è la controversa figura, in chiave storico/politica, dell’ex presidente e raìs dell’Iraq Saddam Hussein.
L’iconografia ufficiale ce lo dipinge come un dittatore sanguinario e mostruoso, avido di potere e ricchezze, brutale, cinico e risoluto. Al tempo stesso si deve ammettere il suo ruolo di statista per oltre venti anni, in una parte dei quali l’Iraq ha goduto di un buon sviluppo, sia economico che civile. In realtà, la storia recente dell’Iraq potrebbe e dovrebbe essere divisa in almeno due fasi: la prima dal momento della presa definitiva del potere da parte del partito Baath nel 1968 fino alla presidenza di Saddam nel ’79, la seconda a partire da quella data fino ai giorni nostri.

Prima del ’68 è difficile trovare documenti attendibili sulle turbolenti vicende politiche irachene e soprattutto sulla formazione politica e umana di Saddam. I punti di rottura sono identificabili nelle rivoluzioni o colpi di stato del ’58 e del ’63 che non sono altro che la testimonianza di spinte di forze endogene ed esogene rispetto all’Iraq. Le tensioni che hanno attraversato il Paese erano innanzitutto legate allo scontro tra il vecchio dominio coloniale britannico e la nascente influenza statunitense che dalla fine della seconda guerra mondiale cercava di imporsi come nuova e unica potenza imperiale occidentale. Fin dagli accordi di Yalta del ’45, questa dinamica (anche se misconosciuta dalla storiografia corrente) è stata un autentico motore della storia per almeno un ventennio, coinvolgendo l’Europa e soprattutto tutte le ex-colonie inglesi, molto più che la classica contrapposizione Est-Ovest, la quale anzi potrebbe essere interpretata come una conseguenza. Il Medio Oriente è stato un centro nevralgico in cui la sotterranea lotta per l’ “eredità” coloniale è stata più visibile, e in questo senso la storia irachena è esemplare. Queste spinte esterne trovavano sponde o corrispondenze, spesso magari con intenti esclusivamente strumentali, nei movimenti politici e nazionali all’interno dei vari paesi. La “rivoluzione di luglio” nel 1958 in Iraq sancisce la fine dell’influenza sullo stato mesopotamico della Gran Bretagna legata alla monarchia haschemita fin dai tempi di Lawrence d’Arabia. Il potere venne preso da una giunta militare guidata dal generale Abdul Qasim, che si appoggiò, tra gli altri, a due movimenti politici di forte presa popolare, entrambi apertamente schierati contro l’imperialismo britannico: il Baath, partito nazionalista panarabo di ispirazione socialista, ed il Partito comunista iracheno (il più grande partito comunista mediorientale). Ed in effetti, le prime significative misure del nuovo regime furono l’evacuazione delle basi militari inglesi e la parziale nazionalizzazione delle imprese petrolifere, ma quando si trattò di dar corpo alle maggiori istanze della base popolare, ossia da un lato la creazione di una entità panaraba che riunisse Iraq, Siria ed Egitto, e dall’altra la riforma agraria, il regime innescò una cruenta repressione contro il Baath e il PCI che stavano mobilitando le piazze, risolvendo la questione che il capo della CIA dell’epoca, Allen Dulles, aveva giudicato come “la più pericolosa nel mondo odierno” (per queste vicende si consulti l’eccellente ricostruzione storica svolta da Ilario Salucci sul sito ecn.org).

Appare dunque evidente come la giunta degli “ufficiali liberi” di Qasim abbia avuto la funzione di demolire l’ancien régime ma nello stesso tempo preservando l’Iraq da una deriva anti-imperialista radicale. A quell’epoca Saddam Hussein era un attivo sostenitore del Baath e prese parte al fallito tentativo di assassinare il generale Qasim (1959). Riuscì a riparare all’estero e trascorse anni di esilio in Egitto e Siria, anni fondamentali per la sua formazione politica (sulla vita del giovane Saddam, una delle poche fonti disponibili in Italia è il documentario televisivo “Correva l’anno” curato da Paolo Mieli e trasmesso da Rai 3). A questo periodo della vita di Saddam è legata la leggenda di un suo reclutamento da parte dei servizi segreti americani. Ne parlano diffusamente diversi analisti e studiosi tanto che la voce è diventata una sorta di luogo comune nel mondo arabo. In ambito italiano possiamo fare riferimento in tal senso alla biografia del raìs scritta dal giornalista di origine egiziana Magdi Allam (Saddam, storia segreta di un dittatore, Mondatori, 2003) in cui queste voci vengono avvalorate. Peccato che l’attendibilità del saggio sia stata stroncata dalle pungenti rivelazioni di Valerio Evangelisti sul sito di controinformazione Carmilla, dalle quali si apprende che “pinocchio” Allam avrebbe attinto a piene mani (sfiorando il plagio) da un già discutibilissimo instant book americano di Judith Miller e Laurie Mylroie dal titolo “Saddam Hussein and the crisis in the Gulf”, Times Books-Random House, New York-Toronto, 1990. Molto più attendibile è l’ottimo saggio “Dominio” di Nafeez Mosaddeq Ahmed, Fazi editore, 2003, di cui riportiamo alcuni passaggi fondamentali per l’argomento in oggetto:

“Lo storico e giornalista londinese Said K. Aburish, esperto di caratura mondiale in affari arabi, nel suo studio sulle relazioni tra l’Occidente e il Medio Oriente ha documentato il modo in cui la CIA ideò e diresse il colpo di stato militare che l’8 febbraio 1963 portò Saddam Hussein al potere. […] Aburish raccoglie documenti ufficiali e testimonianze a dimostrazione che la CIA aveva perfino fornito elenchi di persone che dovevano essere eliminate una volta conquistato il potere. Nel golpe del 1963 vennero uccise all’incirca cinquemila persone, compresi medici, insegnanti, avvocati e docenti universitari […]. Esiliati iracheni come Saddam parteciparono alla compilazione delle liste in basi della CIA disseminate in Medio Oriente. […] I servizi segreti statunitensi furono parte integrante della pianificazione dei dettagli dell’impresa. Secondo un collaboratore molto vicino alla CIA: “fra il partito Baath e i servizi americani si tennero molte riunioni, le più importanti in Kuwait” […] il partito fu scelto a causa degli stretti rapporti tra il gruppo e l’esercito iracheno. Aburish riferisce che i leader del partito Baath avevano accettato di “intraprendere un programma di purghe per sbarazzarsi dei comunisti e dei loro alleati” in cambio dell’appoggio della CIA. Cita uno dei capi del Baath, Hani Fkaiki, il quale confessò che il principale orchestratore del golpe fu William Lakeland, assistente dell’addetto militare USA a Baghdad.” (Dominio, pagg. 46-47)

I gruppi paramilitari del Baath furono effettivamente il nucleo centrale del colpo di stato insieme ad esponenti del vecchio regime, e successivamente della repressione nei confronti degli oppositori (soprattutto il partito comunista). All’interno del Baath si scatena altresì la lotta per il potere tra le diverse componenti di “destra” e “sinistra”, e tra il ’63 e il ’68 è un continuo alternarsi di lotte interne e rivolgimenti di governo (si veda in tal senso la seconda parte della già citata ricostruzione di Ilario Salucci). In questi anni Saddam è l’organizzatore dei gruppi paramilitari del partito che diverranno la spina dorsale dei servizi di sicurezza iracheni, su cui il futuro raìs fonderà il suo regime. Quando nel ’68 un uomo forte del Baath, Hasan al-Bakr, riesce stabilmente a prendere la presidenza, un Saddam poco più che trentenne è capo dei servizi segreti e vice presidente dell’Iraq, finché nel ’79 costringe alle dimissioni al-Bakr e conquista definitivamente il potere. La sua fenomenale e rapida ascesa lascia effettivamente sconcertati, tanto più che non risulta (almeno ufficialmente) che Saddam Hussein abbia mai avuto una preparazione né politica né come organizzatore militare o di intelligence: i dubbi sul dove e sul quando abbia “studiato” da dittatore sono leciti, ma una risposta definitiva è impossibile per chi non voglia cadere nelle speculazioni dietrologiche.

Quello che conta sono i fatti storici incontrovertibili: dalla presa del potere del ’79 fino alla sua recente cattura, Saddam Hussein compie una serie di atti, come presidente e capo assoluto del suo paese, che di fatto assecondano la politica americana nell’area mediorientale. È tutto da verificare (ma appare comunque superfluo se si tiene conto esclusivamente della sostanza) se Saddam abbia compiuto tali atti in maniera cosciente, o perché ingannato, o perché stretto dentro un meccanismo da cui non poteva più liberarsi. L’opinione personale è che tale fasi si siano alternate e sovrapposte nel corso dei venticinque anni del suo potere. Dall’altra parte appare evidente come gli USA abbiano costantemente e sapientemente tenuto il “despota” al suo posto finché la sua funzione non si è esaurita, e questo hanno continuato a fare, con criminale cinismo, anche dopo la liberazione del Kuwait nel ’91. Procediamo con ordine.

Il primo atto fondamentale della politica estera di Saddam fu l’invasione della Repubblica dell’Iran nel settembre del 1980, con l’obiettivo dichiarato, da parte irachena, di annettere la regione petrolifera dello Shat el-Arab. La guerra tra i due più grandi stati mediorientali durerà otto anni provocando enormi costi in termini di vite umane e distruzione dei due paesi. Comunemente si ritiene che la guerra scatenata da Saddam e appoggiata da vari paesi occidentali e da altri paesi arabi del Golfo, avesse come scopo l’abbattimento del regime islamico khomeinista dopo la rivoluzione del ’79 contro lo Scià. Tale motivazione, in perfetto stile real politik, porterebbe, se non a giustificare, quanto meno a comprendere le motivazioni che indussero i governi di molti paesi ad avallare quella avventura come necessaria per arginare il fenomeno dilagante della rivoluzione islamica radicale, con grave pericolo per tutta l’area mediorientale e dunque per l’intero pianeta. Ma questa ricostruzione è falsa, e chi la propone mente. Quando Saddam Hussein invase l’Iran, la rivoluzione e il regime iraniano non avevano ancora un carattere “islamico radicale”, al contrario, fu proprio l’evento bellico a spingere la trasformazione di quel regime rivoluzionario in senso teocratico. Lo Scià fu infatti cacciato da un movimento popolare ampio e in cui trovavano voce le predominanti componenti laiche: liberali, socialiste e comuniste. Il collante era fornito dal carisma dell’ayatollah Khomeini, inteso da tutte le parti rivoluzionarie come entità di indiscusso rigore morale e nazionale, da contrapporre alla corrotta e occidentalizzata corte dello Scià Reza Palevi. Non a caso, il primo presidente della neonata repubblica fu il candidato della sinistra Bani Sadr, eletto col 75% dei suffragi nel gennaio del 1980 (nove mesi prima della guerra), e il suo programma aveva caratteri islamici intesi in senso progressista e nazionalista. Con lo scoppio della guerra la situazione precipitò, l’esperienza della “terza via” iraniana sembrava sull’orlo di essere spazzata via dall’avanzata delle truppe di Saddam, ed in seguito alle accuse di complotto e tradimento, Bani Sadr venne costretto all’esilio. Al suo posto è eletto il primo presidente religioso dell’Iran, l’ayatollah Alì Khamenei (ottobre 1981) che diverrà poi l’erede di Khomeini, e che attualmente incarna l’area più conservatrice del regime. La svolta in senso teocratico della rivoluzione iraniana fu dunque dettata dalla guerra portata da Saddam Hussein, e sicuramente questa radicalizzazione incontrò i favori degli Stati Uniti, i quali, benché si mostrassero accaniti nemici degli ayatollah, non esitarono a trattare di nascosto con loro (scandalo Irangate). Negli otto anni della guerra, gli Usa operarono all’Onu affinché le possibilità di negoziati di pace naufragassero puntualmente (come rivelato da un ex funzionario delle Nazioni Unite durante una trasmissione di 8 ½ in onda sul La7 lo scorso anno). In perfetto accordo con l’altra potenza imperiale, l’Urss, lasciarono che le due potenze regionali belligeranti si dissanguassero a vicenda (vendendo armamenti ad entrambi, tra cui, da parte americana, le famigerate armi chimiche e battereologiche all’Iraq) e controllarono affinché nessuna riuscisse a prevalere sull’altra (divide et impera), finché una offensiva iraniana del 1987 non impaurì talmente i paesi arabi e gli stessi Usa, che si arrivò ad un accordo di pace per mettere fine alla guerra (per la cronologia di questi avvenimenti si veda il sito http://venus.unive.it/asiamed/cronologie/iran.html).

Le conseguenze della guerra furono catastrofiche per l’Iraq, che si trovò ad affrontare alla fine degli anni ’80 una pesantissima congiuntura economica aggravata dalle tensioni con un piccolo stato arabo confinante, il Kuwait, regione storicamente facente parte integrante dell’Iraq e giunto all’indipendenza solo per l’interesse delle forze coloniali. Ma i problemi tra i due stati non erano solo in ordine a cattive relazioni bilaterali diplomatiche, ma soprattutto per rivalità economiche e petrolifere su cui si innestavano gli interessi degli Stati Uniti nella regione. Questo scenario viene perfettamente ricostruito nel già citato saggio di Nafeez M. Ahmed, “Dominio”, con una puntualità di argomenti e fonti che lasciano davvero poco spazio a dubbi. Qui ci limitiamo a riportare la perentoria conclusione:

“Contrariamente all’opinione generale, esiste un gran numero di elementi a dimostrazione che non solo la guerra del Golfo era stata prevista dagli Stati Uniti, ma che era ben in sintonia con i loro interessi politici, strategici ed economici. Una varietà di fattori, sia all’interno degli USA sia nel Medio Oriente, sembrano corroborare la conclusione che l’invasione del Kuwait da parte dell’Iraq fu deliberatamente architettata dagli USA per fornire un pretesto a una guerra di cui avevano un gran bisogno.” (pag. 47)

Ed infatti, Ahmed dimostra che gli Stati Uniti agirono, benché nell’ombra, su entrambi i lati della scacchiera: da un lato spronarono i kuwaitiani a condurre quella che assunse le caratteristiche di una vera e propria “guerra commerciale” contro i vicini, rassicurandoli sul fatto che mai l’Iraq avrebbe potuto tentare qualcosa contro di loro visto che l’esercito a stelle e strisce li avrebbe protetti; ma nel contempo rassicurarono gli iracheni (anche ufficialmente tramite l’ambasciatrice americana a Baghdad April Glaspie) sul fatto che la disputa fra i due paesi era un fatto che riguardava solo loro, e che gli USA “non prendevano posizione nei conflitti inter-arabi”. Per Saddam il significato era chiaro: il semaforo verde per risolvere definitivamente il contenzioso con il Kuwait. Nell’agosto del ’90, le truppe irachene invasero e occuparono, incontrando deboli resistenze, il piccolo e ricchissimo emirato. La reazione americana fu ben diversa da quella che gli invasori avevano preventivato: tramite l’Onu, gli Stati Uniti composero una grande alleanza per rispondere con “tutti i mezzi necessari” all’aggressione e liberare il Kuwait. Nel gennaio del ’91, le forze dell’alleanza guidate dall’aviazione e dalle truppe americane diedero il via a “Desert Storm”. La guerra non ebbe storia.
C’è da chiedersi perché mai Saddam Hussein, resosi conto di essere caduto in una “trappola”, non abbia preferito ritirarsi pur di evitare un altro disastroso conflitto. La risposta più logica al quesito è che gli Stati Uniti abbiano in qualche modo ricattato il leader iracheno, visto che lo scopo finale della guerra non era tanto la liberazione del Kuwait o la sua caduta, quanto la possibilità di insediare in maniera permanente basi militari e quindi stanziare truppe sul territorio dell’Arabia Saudita e in generale su tutta la penisola arabica. A tal scopo, dunque, il perdurare della presenza di una fantomatica minaccia rappresentata dal regime di Saddam, era per gli americani tanto necessaria quanto la vittoria stessa. Con ogni probabilità il raìs barattò la possibilità di rimanere al potere (e di rimanere in vita), con il verificarsi di una guerra da cui solo gli americani avevano tutto da guadagnare. Questo è dimostrato dal fatto che le truppe americane lasciarono reprimere nel sangue la rivolta sciita nel sud dell’Iraq a guerra appena conclusa, e boicottarono tutti i tentativi di colpo di stato tesi ad un rivolgimento politico dall’interno del paese (si veda “La disfatta della CIA” scritto dall’ex agente dei servizi americani Robert Baer, edizioni Piemme).

In questo quadro, la stessa strategia delle sanzioni contro l’Iraq assume un significato sinistro. Se da un lato, infatti, il duro embargo ultra decennale provocò la disintegrazione del tessuto sociale iracheno, non facendo altro che rafforzare in definitiva il potere dello stesso regime, dall’altro congelava ogni velleità da parte irachena di sfuggire alla morsa in cui era stato stretto, aprendo, ad esempio, i mercati petroliferi a concorrenti economici e strategici degli Stati Uniti (nazioni europee come Francia e Germania, la Russia, la Cina).

Solo dopo l’11 settembre 2001, con l’avvio di una nuova e decisiva fase, la permanenza al potere di Saddam Hussein diventava superata: le mire americane non erano più, come nel ’91, limitate alla stabilizzazione della penisola arabica con la presenza militare, diventavano l’occupazione e il controllo diretto dal Medio Oriente fino all’Asia centrale, in particolare comprendendo aree strategicamente fondamentali come il Caucaso e il bacino del Mar Caspio.

Il “nuovo” Iraq. Di fronte a quella che appare, con tutta evidenza, una lunga, concatenata e raffinata strategia di dominio sul Medio Oriente, che nasce dalla fine della seconda guerra mondiale e che oggi giunge alla sua fase di pratica e concludente attuazione, risulta inverosimile ritenere, come pure pensano diversi analisti, che gli Usa abbiano intrapreso la guerra senza avere un progetto preciso per il futuro dell’Iraq.
Cerchiamo di aprire un ventaglio di opinioni da cui trarre conclusioni sostanziali.

In un articolo del dicembre 2003 per il sito Equilibri, Elisa Cerelli scrive:

“Il noto commentatore statunitense David Rieff teorizza, portando numerose prove alla sua tesi, che ci sia stata una deliberata e ostinata volontà da parte americana di non programmare il dopoguerra o la così detta “quarta fase” della liberazione dell’Iraq, quella in cui avrebbe dovuto prendere il via la democratizzazione del paese, e quindi di tutta l’area del Golfo. […]È mancato un piano generale, cioè una serie di obiettivi ben definiti da perseguire che tenessero conto della situazione etnica del paese. La ribellione dei sunniti che hanno perso la fiducia nella coalizione divenuta esercito di occupazione, e le difficoltà iniziali nei rapporti con gli sciiti, prima per aver puntato sulla figura di Chalabi, rivelatosi incapace di far presa sulla popolazione, aggravatesi poi con la morte del leader moderato Muhammad Bakr al Hakimj (ucciso in un attentato attribuito ad Al-Qaeda, n.d.r.), non sono stati risolti dal tentativo di creare un governo rappresentativo delle varie fazioni del paese. L’improvvisazione, secondo molti analisti, sembra il carattere che contraddistingue l’azione americana-alleata nel dopo Saddam iracheno, e ciò alimenta il senso di delusione nei confronti dell’opera della CPA (Coalition Provisional Authority).

Ma, d’altra parte, questa presunta “improvvisazione” può avere anche alcuni lati positivi. Marco Hamam, commentatore per il sito di analisi economico-finanziaria Axia, su due articoli intitolati rispettivamente “Iraq: i migliori investimenti si fanno sotto le bombe” e “Iraq: la corruzione aumenta gli odi tribali”, scrive:

“Quando si parla di Iraq, il più delle volte viene tralasciato un argomento estremamente importante. Poco discusso è, infatti, l’effetto che l’instabilità politico-militare sta producendo sull’economia del paese. Gli attentati alle truppe Usa e gli scontri tra militari americani e uomini della resistenza irachena potrebbero apparire, ad una prima lettura, l’ostacolo fondamentale alla ripresa economica del paese. […]
Ma l’Iraq rappresenta l’eccezione. O forse solo la conferma della regola. […] Il clima militare teso fa sì che un piccolo numero di investitori, soprattutto americani, si arricchisca sempre più. Anzi, per questo sparuto gruppo di business-men ogni bomba lanciata dalla resistenza, rappresenta una “certezza” in più su cui basare i propri investimenti: con le bombe, in parole povere, la “concorrenza” se ne sta lontana. […] A chiarire meglio l’idea ci pensa un investitore statunitense presente alla recente conferenza per uomini d’affare tenutasi a Baghdad sotto la supervisione del comando Usa: “Ogniqualvolta sento in tv di un qualche attentato, mi rallegro perché penso che ciò fa proprio al caso mio. Solo così so con certezza di poter tener lontana la concorrenza. Chi verrà qui sotto le bombe?”. Insomma c’è chi si augura che questa situazione si protragga ancora per molti anni. […]Se è vero che di questa situazione incerta hanno approfittato anche i piccoli commercianti locali è anche vero che la “foresta vergine” irachena è in buona parte in mano agli investitori statunitensi. Al di là infatti di pochi europei e arabi venuti alla ventura, molte società Usa, soprattutto quelle vicine all’amministrazione di Washington, godono della copertura politica che manca a tutti gli altri: facilitazioni, poche noie, settori prenotati. Ad assegnare la fetta con più panna, fuori di metafora: i contratti più grossi, è infatti la “Agenzia americana per lo sviluppo mondiale” alle dirette dipendenze della Casa Bianca. A questo punto ci si chiede: dove porteranno questi due fenomeni opposti?[…]


Nell’era del “nuovo” Iraq, l’iracheno medio crede che il governo dovrebbe dare priorità ad un fenomeno che sempre più sta corrodendo le basi del cambiamento: la corruzione. All’epoca di Saddam raccomandazioni e mentalità tribale spadroneggiavano e la corruzione era un fenomeno considerato “intrinseco” a quel tipo di società. Oggi, pare che le speranze dei cittadini coincidano – per una volta – con quelle dei governanti portati dagli statunitensi che hanno sempre dichiarato di non voler lasciare vita facile a chi avesse tentato di frenare la trasformazione dell’Iraq da paese dittatoriale a democratico. Ma un servizio, trasmesso nei giorni scorsi dalla tv del Qatar Aljazeera, ci mostra la realtà in una maniera alquanto diversa. Non solo, infatti, i nuovi dirigenti stanno facendo ben poco per arginare questo fenomeno ma addirittura ne sono diventati i nuovi responsabili. A conferma di ciò, Aljazeera ha messo in onda le dichiarazioni di molti iracheni i quali hanno subìto un duro colpo nel constatare di persona che l’attuale governo nulla di diverso e di più democratico sta facendo rispetto a ciò che veniva rimproverato a Saddam. […]La sensazione, unanime tra gli iracheni, è che ad un Saddam se ne sia sostituito un altro che però si ammanta di un’aurea antidispotica. In Iraq non si vedono più scene di giubilo, come quelle dell’aprile dell’anno scorso, costruite in tutti i minimi dettagli dalla propaganda statunitense, e la speranza in un futuro sereno sta facendo spazio all’angoscia che qualcosa verrà a minare la convivenza multietnica che era stata possibile fino a poco tempo fa. Dopo anni di guerra, molti dei quali inflitti dalla comunità internazionale attraverso l’embargo, ora si paventa la possibilità di una guerra civile. Ma non è una novità: già molti mesi prima che iniziasse l’attacco all’Iraq molte testate arabe, e non solo, avevano insistito sull’estrema realtà di questo pericolo. Che ora più che mai sembra inevitabile.”

Una guerra civile strisciante fomentata dalla politica sociale e militare dettata dagli americani? Questo potrebbe avvalorare lo scenario prospettato dall’analista Michel Collon in un articolo apparso sul sito Global Research dal titolo “Washington ha trovato la soluzione: dividiamo l’Iraq come la Jugoslavia”. Riprendendo alcune proposte auspicate dal rappresentante dell’influente CFR (Council of Foreign Relations, noto think tank americano), Leslie Gelb, espresse in un editoriale sul New York Times, Collon vede il pericolo di un tentativo di ridurre l’Iraq a tre mini-stati su base etnica “pura” in modo da concentrare risorse e truppe nel nord (curdo) e nel sud (sciita), dove ci sono le maggiori ricchezze strategiche, e lasciare il centro sunnita al suo destino. Questa ideologia della divisione su base etnica non è certo nuova, e ovunque sia stata tentata la sua attuazione, sottolinea Collon, dalla dottrina sionista per Israele ai nazionalismi jugoslavi, ha provocato bagni di sangue. Ma, d’altra parte, ha dimostrato di essere una delle tecniche più efficaci delle strategie di affermazione neo-coloniale da parte degli anglosassoni. Scrive Collon:

“La verità è che gli Stati Uniti – come tutti i colonialisti – sono a favore o contro gli stati puri a seconda che questo convenga o meno ai loro interessi strategici. La sola cosa che conta è indebolire la resistenza. Dividere per regnare. Come sempre. I Britannici hanno accuratamente organizzato la divisione tra gli Irlandesi, tra Indiani e Pakistani e in altre parti del globo. L’influente stratega Zbigniew Brzezinski vuole dividere la Russia in tre per isolare Mosca dal petrolio. Allo stesso modo la CIA ha piani per dividere l’Arabia Saudita. Nel momento in cui si formano dei grandi insiemi economici e politici intorno all’Europa o agli Usa, ecco che queste stesse grandi potenze organizzano lo spezzettamento di certi Stati. Quelli che gli resistono.”

Conclusioni. In due editoriali pubblicati sul nostro sito nei giorni scorsi, “Madrid Baghdad” e “Non è la nostra pace, non è la nostra guerra”, è stato rilevato in maniera esemplare come le dominazioni moderne si nutrano in maniera efficacissima delle cosiddette “strategie della tensione”. Creare, fomentare, indirizzare tensioni tra stati o tra gruppi (specialmente se divisi su base etnica o religiosa) al fine di creare condizioni di instabilità cronica in certe regioni, consente lì l’ingresso di forze estranee, allo scopo appunto di portarvi stabilità. Con questo meccanismo, tali forze vengono designate o si autodesignano come guardiane di una pace che, guarda caso, tarda sempre ad arrivare. Nello stesso tempo, però, in quei contesti tali forze insediano basi militari che provvedono a tutelare gli interessi economici e strategici degli occupanti. Non è strano ritenere che questo processo sia in atto nell’Iraq post-Saddam, dopo che lo vediamo pienamente attuato nell’Afghanistan post-talebano. Dunque, quella che appare come una mancanza di strategia di pace degli americani, forse non è altro che la continuazione di una strategia di guerra a bassa o media intensità accuratamente pianificata. Tale strategia utilizza i nemici (o presunti tali) per piegare le loro azioni ai propri scopi, così da far diventare anche un Saddam Hussein o un terrorista di Al-Qaeda un supporto di tale progetto imperiale. Non è detto comunque che tali strategie riescano sempre. La volontà dei popoli può anche avere una grande forza e riuscire a spezzarle. Mentre stiamo scrivendo, ad un anno dalla caduta della statua di Saddam, l’Iraq sta vivendo il suo momento più caotico: l’ayatollah Moqtada Al-Sadr, leader della fazione sciita più radicale, ha promosso una sommossa contro la coalizione occupante. E’ ancora presto per capire se tale azione rientri in qualche modo in uno degli scenari che abbiamo appena descritto, oppure si tratti di un tentativo realmente indipendente di spezzare il dominio sull’Iraq. Il tempo ce lo dirà. Però è certo che l’unica possibilità che hanno gli iracheni è quella di costituire, oltre qualsiasi divisione, una unione nel nome della identità del popolo e della nazione araba. Oppure saranno una colonia.

14 aprile 2004

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