Una finestra sul cortile

Cosa sta accadendo in America latina? Il subcontinente è percorso e scosso da continue tensioni antimperiali che interessano, con varia intensità, quasi tutti i Paesi a sud del Rio Grande. Ne offriamo una panoramica.

Da sempre l’America latina viene considerata dai fratelli ricchi del nordamerica come il “cortile di casa”, o almeno dalle guerre contro il Messico e la relativa annessione di stati fondamentali per l’Unione come Texas e California a metà del XIX secolo, e dalla guerra per Cuba contro la Spagna alla fine dello stesso secolo, che sancisce definitivamente l’egemonia anglosassone su tutto il continente e, in proiezione, sull’oceano pacifico (con il passaggio delle Filippine da protettorato spagnolo ad americano).

Il dominio nordamericano è sempre stato vissuto come soffocante da parte delle popolazioni del sud, aventi istituzioni, culture, tradizioni diverse e opposte rispetto a quelle degli odiati “gringos”. Del resto la politica statunitense è continuamente stata improntata al dominio piuttosto che alla collaborazione sia attraverso l’imposizione nel corso di decenni di governi fantoccio dittatoriali, sia attraverso la spregiudicata politica di multinazionali nordamericane che hanno da sempre sottratto risorse al sud per trasferirle al nord.

Non sono mancati i tentativi di trovare una via di sviluppo indipendente da parte delle nazioni sudamericane nel corso dei secoli. Dal dopoguerra, solo uno di questi esperimenti sociali ha avuto una certa continuità, la rivoluzione castrista a Cuba, mentre altre due significative esperienze hanno avuto un decorso tragico: il tentativo del governo socialista di Allende in Cile negli anni ‘70 veniva soffocato da un colpo di stato ispirato da Washington, e la rivoluzione sandinista, in Nicaragua negli anni ’80, veniva logorata da azioni di guerriglia e terrorismo da parte degli Stati Uniti (come internazionalmente riconosciuto) fino a giungere alla sua sconfitta elettorale e il conseguente ritorno nel consesso delle “democrazie occidentali”.

Gli anni ’90 hanno visto una America latina in fase di transizione. Dopo la caduta del Muro di Berlino, le giunte militari che in molti paesi avevano governato fino a tutti gli anni ’80, hanno lasciato spazio a democrazie “liberali” almeno sul piano formale, anche se praticamente mai i dittatori hanno pagato i loro crimini e genocidi.

Una sorta di perdita di attenzione da parte degli Stati Uniti per il proprio cortile, impegnati a creare solide basi in Medio Oriente e Asia centrale per la partita decisiva dell’Impero globale, ha significato l’accesso al potere di ceti sociali da sempre esclusi. Il caso che ha suscitato maggior scalpore è stata la recente elezione in Brasile dell’ex sindacalista Lula da Silva, leader del Partito dei Lavoratori. Al quarto tentativo da Silva è diventato presidente, e chiaramente l’obiettivo è stato raggiunto grazie a mediazioni e rassicurazioni che il neo presidente ha fornito in primo luogo al sistema bancario internazionale e alle organizzazioni come il WTO. E tuttavia il Brasile è un grande stato con risorse naturali immense: spostare anche di poco il suo asse in senso anti-imperiale può significare una ricaduta positiva su tutto il continente. È ancora presto per verificare se le speranze di cambiamento in Brasile avranno un seguito, purtroppo questa nazione deve risolvere problemi primari come la fame, la casa, l’accesso alla proprietà terriera da parte dei piccoli contadini. Una volta che tutti i brasiliani avranno a disposizione “tre pasti al giorno” (il punto centrale del programma elettorale di Lula) allora si potrà pensare ad una politica di sviluppo a lungo termine. Ma saranno necessari molti anni.

Precedentemente all’elezione di Lula, un altro paese aveva avuto una transizione elettorale significativa, il Venezuela di Hugo Chavez. Troppo populista e autoritario per piacere alle socialdemocrazie europee, troppo rivoluzionario e tacciato di comunismo per essere accettato da Washington, Chavez non è altro che ciò che dice di essere: un bolivariano.

Simon Bolivar è stato il generale e uomo politico che all’inizio del XIX secolo combatté contro la Spagna per l’affrancamento dei popoli sudamericani dal colonialismo e per il progetto di quella “Repubblica degli Stati Uniti del Sud” che resterà un’utopia. Anche se interrotto, il sogno di Bolivar farà nascere praticamente tutte le nazioni ispaniche del continente (Venezuela, Colombia, Perù, Ecuador, Bolivia) e se si guarda in quegli anni al nord, dove si stavano affermando gli Stati Uniti d’America, ben comprendiamo quali fossero le potenzialità di tale visione.

Ha un senso chiamarsi ancora oggi, nel secolo della piena maturità della globalizzazione, bolivariani? Evidentemente sì, anzi, a maggior ragione sì. La ricerca di una via di sviluppo indipendente, autoctona, indigena, è praticamente necessaria, una sorta di “ora o mai più”. Non è un caso che i problemi per Chavez siano nati quando ha voluto mettere le mani sui due nodi cruciali per lo sviluppo indipendente della sua nazione: la riforma agraria e il controllo statale sul petrolio, di cui il Venezuela è uno dei principali esportatori mondiali e, per la situazione geografica, uno dei maggiori fornitori degli Usa. Chavez ha subito nel corso del 2003 un tentativo di colpo di stato portato avanti dalle oligarchie industriali e terriere, e fallito solo per la sollevazione popolare e il sostegno di ampie porzioni delle forze armate (il presidente è un ex colonnello che gode di molto credito fra i soldati) che ha riportato un già deposto Chavez al timone di comando. Quindi ci sono stati lunghi mesi di sciopero generale a oltranza che aveva colpito soprattutto il settore energetico. Chavez ha evitato di cadere nella spirale di una guerra civile, gli scioperi si sono esauriti e la situazione sembra tornata ad una calma densa di attesa. Se i tentativi di Chavez continueranno, sentiremo ancora parlare del Venezuela, la partita decisiva deve ancora essere giocata.

Un paese dove la reazione dell’imperialismo nordamericano è già visibilmente in atto è la Colombia. Negli anni della presidenza Clinton, un accordo bilatelaterale, il cosiddetto Plan Colombia, aveva destinato aiuti per 2.500 milioni di dollari per la nazione sudamericana, aiuti che dovevano servire da un lato a sradicare la coltivazione della coca (e quindi abbattere il narcotraffico), dall’altro consentire uno sviluppo economico alternativo per la massa dei campesinos e complessivo per l’intera società. La gran massa degli aiuti (l’80%) è stata invece destinata al settore militare per contrastare l’endemica guerriglia interna di ispirazione marxista, e, pur senza raggiungere la pace, gli scopi sociali del piano sono falliti. Lo dicono gli stessi membri del congresso statunitense. Secondo il deputato James McGovern (esperto di America latina): “la Colombia oggi sta peggio rispetto a tre anni fa… i fondi sono utilizzati per le spese militari anziché per i programmi di sviluppo”. Rincara la dose la deputata Janine Shakowsky: “il Plan Colombia è fracassato miseramente, gli obiettivi come rinforzare la democrazia, la riforma giudiziaria, lo sviluppo economico e la pace sono falliti”. Ora che il piano sta per terminare, si prospetta il raggiungimento di un accordo per un secondo Plan Colombia. Come mai se il primo è miseramente fallito? Forse la risposta sta nella politica delle cosiddette “fumigazioni”, cioè irradiare dal cielo le piantagioni di coca con diserbanti chimici estremamente potenti. Per far questo è necessario avere una forza aerea che solo gli Stati Uniti possono fornire, e che gli Stati Uniti sono prontissimi a prestare pur di continuare a mantenerne il controllo. Nel corso di questi anni la zona andina è stata disseminata di stazioni radar che devono servire allo scopo. Pur essendo di proprietà dello stato colombiano, esse sono state installate, potenziate e gestite da personale americano, e il pattugliamento dei cieli sarà assicurato dall’aviazione Usa. Ecco che con il pretesto di combattere il narcotraffico (ormai paragonato, dopo l’11 settembre, ad una lotta contro il terrorismo internazionale) si può giungere all’instaurazione di un controllo militare di fatto del territorio un’altra nazione.

Pochissima eco ha avuto sui media italiani l’insurrezione popolare avvenuta negli ultimi mesi in Bolivia in seguito alla cosiddetta “guerra del gas”. La vicenda merita di essere raccontata poiché contiene tutti gli elementi che ne fanno un caso esemplare.

La Bolivia è il paese più povero del continente, e paradossalmente, fra i più ricchi in termini di risorse, storicamente per i suoi giacimenti minerari (argento, rame, stagno, tungsteno, zinco ecc.) e più recentemente grazie alla scoperta di notevoli giacimenti di petrolio e soprattutto gas naturale. La Bolivia è anche un paese con forte sindacalizzazione ed è sempre stato inquieto dal punto di vista politico. Non a caso Che Guevara lo aveva scelto nella sua ultima missione guerrigliera come il detonatore che poteva far scoppiare alla fine degli anni ’60 l’intero continente. Tali aspetti peculiari si sono riscontrati anche nella vicenda che ha visto contrapposti, tre anni fà, la multinazionale Bechtel (nordamericana, la stessa che avrà il maggior numero di appalti nella ricostruzione dell’Iraq) e la popolazione di Cochabamba, nel sud del Paese, per un contenzioso nato dalla privatizzazione degli acquedotti e il subentrare della Bechtel al gestore pubblico. Il triplicarsi del prezzo dell’acqua potabile portò ad uno scontro sociale talmente duro che la compagnia americana si vide costretta a rinunciare all’affare e a lasciare il paese.

Dopo quei fatti, si sfiorò un evento storico. Il presidente Sanchez de Lozada, un multimilionario che parla spagnolo con “accento inglese”, venne rieletto con uno scarto risicatissimo contro l’indigeno, campesino, ex cocalero, Evo Morales, leader del Movimento al Socialismo.

Nonostante il campanello di allarme, le politiche di privatizzazione e liberalizzazione (ispirate dai dettami del Fondo monetario internazionale) non si sono arrestate, anzi, hanno investito il cuore economico dello stato, il settore energetico. A far precipitare la situazione è stata la previsione di un progetto di gasdotto per far arrivare il gas boliviano in Messico e Stati Uniti. Contro tale progetto sono insorti i sindacati (la COB, Central Obrera Boliviana), i partiti di opposizione, la società civile, con rivendicazioni in cui si mescolano tematiche economiche, nazionalistiche ed etniche.

Il progetto sarebbe stato gestito integralmente da tre multinazionali straniere, la spagnola Repsol e le britanniche British Petroleum e British Gas. È stato stimato che l’affare avrebbe prodotto un reddito di 1.300 milioni di dollari l’anno, di cui allo stato boliviano sarebbero andati in imposte e royalties tra i 40 e i 70 milioni di dollari… come dire nemmeno il denaro sufficiente per supportare i costi ambientali del progetto. È apparsa subito evidente la “svendita” agli stranieri (o se si preferisce, il “furto”) della maggior risorsa nazionale. Accanto a questo, è da sottolineare una ulteriore beffa: il gasdotto avrebbe trovato il suo naturale sbocco al mare nei porti del Cile, portando vantaggi economici proprio all’odiato stato confinante che con una guerra alla fine del XIX secolo aveva tolto alla Bolivia lo sbocco al mare decretandone l’isolamento. Infine sono da tenere in considerazione le rivendicazioni etniche di una popolazione che ha ancora una forte identità tradizionalistica. Lo scorso 21 settembre, le comunità indigene dell’altopiano, i Warisata, gli Achakachi e gli Huarina, avevano dichiarato la “guerra civile” contro il governo “bianco” di La Paz, alle transnazionali e al modello liberista.

La “Coordinadora” per la difesa del gas, che ha raccolto tutte queste istanze, ha indetto per la fine dello scorso settembre uno sciopero ad oltranza con il duplice scopo di cacciare il presidente Sanchez de Lozada e tornare alla nazionalizzazione dell’azienda per gli idrocarburi. Nel termine di pochi giorni la nazione era paralizzata dalle continue manifestazioni e dai blocchi stradali sulle principali arterie di comunicazione. De Lozada ha tentato di rispondere prima con lo scherno, poi con la forza (decine di morti tra i manifestanti), ma quando anche le classi medie della capitale si sono unite alle manifestazioni e alcuni ministri (tra cui il vice-presidente Carlos Mesa) si sono dimessi per protesta contro la cruenta repressione, non ha visto altra possibilità (probabilmente consigliato, per salvare il salvabile, dall’ambasciata americana di La Paz, secondo alcuni il vero “governo ombra” boliviano) che lasciare il paese e rifugiarsi a Miami.

La vittoria delle popolazioni in rivolta, in un primo momento, era apparsa totale. L’ex vice-presidente Mesa, che si era sganciato con tempismo perfetto dal governo (troppo perfetto, col senno di poi), veniva nominato nuovo presidente e subito indiceva un referendum vincolante sul progetto per il gasdotto e soprattutto l’elezione per una nuova assemblea costituente. Nel giro di pochissimi giorni, mentre la calma tornava nelle piazze e strade boliviane, Mesa cominciava timidi distinguo e passi indietro, lasciando intravedere la possibilità che, di nuovo, “nulla cambi”.

Le notizie più recenti danno Mesa pronto a rassicurare le oligarchie, le classi medie e il FMI sul fatto che la politica di liberalizzazione non subirà ripensamenti, e che addirittura pensa di detenere l’attuale mandato fino al 2007. La delusione e lo scoramento nel movimento di opposizione è grande: a quando il secondo capitolo della “guerra del gas”?

Nel terminare questa panoramica è doveroso parlare dell’Argentina e di cosa è rimasto in eredità dal movimento che cacciò nel 2001 il presidente De La Rùa e sancì la crisi della rappresentatività politica. Quel movimento spontaneo e di massa, denominato Argentinazo, nasceva sulle ceneri fumanti dell’esperienza del neoliberismo applicato agli stati in via di sviluppo, modello che aveva riportato indietro di trenta anni, dopo un illusorio decennio, la società civile, con la riduzione in povertà della classe media argentina. Slogan di quel movimento, riferito al complesso del sistema politico, era “que se vayan todos” (via tutti). La situazione sembra tornata alla normalità dopo l’elezione del nuovo presidente, Néstor Kirchner, dunque l’Argentinazo è fallito? In una intervista per Nuovi Mondi Media (www.nuovimondimedia.it), il giornalista e professore universitario uruguayano Raul Zibechi, esperto di movimenti politici dell’America latina, offre una lettura colma di speranze. Secondo Zibechi, “attualmente i movimenti sono forse meno visibili perché attraversano una fase nuova, molto importante, di consolidamento interno. Questo processo non darà luogo, a breve scadenza, a manifestazioni importanti, ma sarà fondamentale per i prossimi anni. Il mio sguardo è stato educato dai movimenti indigenisti e da quelli delle donne che fanno dei tempi della crescita interiore la chiave di volta per continuare a esistere e per tornare a occupare la scena pubblica. E soprattutto è proprio in quella interiorità, nascosta all’occhio del potere, che si forgiano i cambiamenti sociali più duraturi.”

La feconda eredità potrebbe essere quella legata ad un nuovo concetto di economia derivante dal fallimento del sistema finanziario ufficiale. In quelle giornate del 2001 si tornò a forme spontanee di scambio e produzione. Dice ancora Zibechi: “Inizialmente l’autoproduzione è stato un modo di rispondere ai problemi della sopravvivenza quotidiana, ma col tempo inizia ad essere la costruzione di un mondo nuovo. Le panetterie comunitarie dei piqueteros (così venivano chiamati i manifestanti che esprimevano la loro rabbia percuotendo in strada pentole e tegami, N.d.R.) iniziano a coordinarsi con la produzione delle fabbriche recuperate (fabbriche chiuse dai padroni e rimesse in produzione dall’autogestione operaia. N.d.R), con le assemblee che si offrono di distribuire i prodotti e con le reti del baratto. In mezzo all’estrema povertà va prendendo forma un tessuto sociale fondato sulla solidarietà e l’aiuto reciproco piuttosto che sul profitto”.

È questa dunque la grande scommessa del popolo argentino. Lontano dagli occhi del potere, nasce, cresce, prende coscienza di sé un nuovo modo di interpretare e vivere la realtà. Il futuro del globo e della globalizzazione americana si gioca anche e soprattutto in America latina.

Per le notizie riguardanti la situazione in Colombia, si è utilizzato come fonte il sito www.selvas.org. Per le vicende boliviane si è utilizzata come fonte il sito www.econoticiasbolivia.com.

5 novembre 2003

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