Quando l’informazione va in guerra

Esempi di comunicazione mediatica e propaganda bellicista

Esiste ormai la consapevolezza che le guerre non scoppiano al primo colpo di cannone, esse sono spesso il frutto, specialmente in questa epoca, di analisi strategiche di lungo periodo in cui interessi imperiali, nazionali e privati tendono a fondersi e sovrapporsi. Come facilmente previsto da Clarissa fin dalla scorsa estate, la guerra in Iraq è scoppiata dopo una lunga gestazione che aveva il preciso scopo di preparare, da un lato, l’opinione pubblica, e inoltre cercare da parte degli Stati Uniti uno scudo internazionale che la giustificasse. Questa volta, al contrario di altre campagne mediatiche di successo (come nel caso del Kosovo), entrambi gli obiettivi sono falliti. L’inconsistenza dei pretesti e la divergenza di interessi tra USA e una parte dell’Europa, Russia e Cina, hanno fatto fallire i propositi. Gli Stati Uniti vanno in guerra diplomaticamente sconfitti, sia nei confronti delle opinioni pubbliche (in questo senso è grave lo smacco verso quelle europee), sia nei confronti di molti governi alleati o potenzialmente tali.

Il tentativo di creare un consenso all’intervento armato non è comunque mancato. È stato interessante verificare come sullo scenario italiano l’informazione di massa (telegiornali e talk shows di emittenti nazionali, quotidiani a grande diffusione) si sia mossa con ambiguità, dovendo bilanciare e tenere insieme posizioni opposte: un governo nettamente schierato e solidale con gli americani ma preoccupato per l’ampio contrasto popolare alla guerra, il Vaticano esplicitamente contrario ma con una capacità di intervento solo morale, una opposizione politica apparentemente contraria “senza se e senza ma” e tuttavia incapace in molte sue parti di analizzare fino in fondo motivazioni e presupposti di questa guerra (e quindi incapace di elaborare un coerente schema logico e politico da contrapporre a quello dominante).

In questo pezzo si vuole dunque cercare di smascherare alcune tra le più macroscopiche manipolazioni da parte di organi mediatici e rappresentanti politici, manipolazioni che vengono ossessivamente ripetute al punto da essere infine tranquillamente accettate e poste come presupposto per comportamenti o decisioni politiche. Smascherare questa manipolazioni è, a nostro avviso, non solo un contributo di verità e onestà intellettuale, ma serve anche a svelare meccanismi di ripetizione di comportamenti e tecniche per la disinformazione di massa.

“Si vis pacem, para bellum” se vuoi la pace, prepara la guerra. È solo con la minaccia dell’uso della forza, è solo mostrandosi uniti e forti difronte al nemico, che si può costringere dittatori come Saddam Hussein a trattare.

Questo concetto è stato più volte ripetuto dalle più alte cariche del governo italiano, e in generale rappresenta un tipico schema di riferimento per tutte le guerre americane contemporanee, da quella del Golfo nel ’91 ad oggi. Questo schema (evidentemente ripreso da un modello politico/militare dei romani, uomini che di imperi qualcosa sapevano) è frutto dell’elaborazione di cinquanta anni di guerra fredda in cui l’equilibrio, creato dalla paura nucleare e dallo sfoggio della potenza militare, aveva parzialmente funzionato scongiurando una guerra globale, ma di fatto “costringendo” le due super potenze a confrontarsi, indirettamente, in guerre regionali a “bassa intensità” (Corea, Vietnam, Afghanistan, Nicaragua, solo per citare le più note e sanguinose). Il venir meno di un braccio della bilancia (la fine dell’Unione Sovietica), ha fatto saltare la logicità del sistema, dunque esso viene oggi utilizzato con una prospettiva ben diversa.

La finalità del “si vis pacem, para bellum” è, oggi, essenzialmente propagandistica: consente la metabolizzazione del concetto di guerra presso l’opinione pubblica preparandola psicologicamente attraverso una graduale escalation; dimostrerebbe la volontà nella ricerca della pace che viene solo frustrata dagli ostinati rifiuti del nemico di turno; consente l’appianamento o la demonizzazione, sul fronte interno, delle voci discordanti e critiche. Tale ultimo aspetto è da tenere particolarmente in considerazione per l’opinione pubblica americana che è fortemente incline al compattamento difronte ai richiami “patriotici” in tempo di crisi belliche.

Ora, che questo schema abbia una funzione solo strumentale, è ampiamente dimostrato dagli eventi storici: nel ’91 si preparò la guerra per costringere Saddam Hussein a ritirarsi dal Kuwait e si giunse al conflitto; nel ’99 si preparò la guerra per costringere Milosevic a ritirarsi dal Kosovo e si giunse al conflitto; nel 2001 si preparò la guerra per costringere i Talebani a consegnare bin Laden e si giunse al conflitto; oggi si è preparata la guerra per costringere Saddam Hussein a disarmare e si è giunti al conflitto. Anche credendo alla buona fede di coloro che propugnano questo modello, si deve ammettere che quanto meno esso è totalmente inefficace. Per il futuro resta solo la speranza che, invece di preparare la guerra, i governi occidentali comincino piuttosto a preparare la “pace”: di certo i risultati non potrebbero essere peggiori di quelli ottenuti finora.

Nel 1998 Saddam Hussein ha cacciato gli ispettori dell’ONU che controllavano il disarmo dell’Iraq. Perché lo ha fatto se non aveva nulla da nascondere?

Questo argomento è uno dei cavalli di battaglia di coloro che considerano il regime dell’Irak come una minaccia reale degli equilibri internazionali per la sua vocazione a possedere e utilizzare armi di distruzione di massa. Tale affermazione è stata fatta in numerosi contesti informativi da più di un personaggio, quasi mai è stata contestata, al punto da essere ormai comunemente accettata come “vera”. In realtà risulta essere profondamente inesatta, e sotto molti punti di vista.

Nel 1998 la missione Unscom dell’Onu, che dal ’91 presiedeva alla distruzione degli armamenti irakeni e ne controllava il riarmo, fu ritirata unilateralmente dal suo capo, Richard Butler, sotto la pressione di Washington. Lo stesso Butler sosteneva che la decisione fu la necessaria conseguenza dell’ostruzionismo di Baghdad verso le ispezioni, la missione fu dunque ritirata, non cacciata. Se le cose stessero realmente così si dovrebbe solo mettersi d’accordo sulle parole, di fatto il ritiro o la cacciata sarebbero comunque da imputarsi al comportamento del regime. Viene però da porsi alcune domande: perché Saddam Hussein accetta gli ispettori dal ’91 al ’98? perché durante quegli anni consente che presiedano all’azzeramento del suo arsenale (così come viene riconosciuto pubblicamente da un altro ispettore, Scott Ritter) e quando il lavoro è praticamente terminato comincia un ostruzionismo tale da costringerli ad andarsene?

Il 6 giugno del 1999 (come afferma Fulvio Scaglione nel suo reportage Requiem per Saddam pubblicato su Famiglia Cristiana) il segretario generale dell’Onu, Kofi Annan, in ultima analisi il responabile definitivo della missione Unscom, ammette che alcuni ispettori di quella missione avevano spiato l’Irak per conto degli Stati Uniti e ciò aveva “recato grave danno alle Nazioni Unite”.

Alla luce di tale affermazione (da cui ogni altro ragionamento dovrebbe derivare, mentre invece viene costantemente occultata), la ricostruzione dei fatti appare ben diversa: l’Irak accetta gli ispettori nel ’91, questi svolgono il loro lavoro con successo fino al ’98, alcuni di loro vengono scoperti come agenti americani e Baghdad accusa la missione di spionaggio, Richard Butler ritira la missione accusando gli irakeni di ostruzionismo. Solo alla stregua di questa ricostruzione, ognuno può finalmente trarre le conclusioni che ritiene opportune.

È vero, la situazione umanitaria dell’Irak odierno è molto grave. Purtroppo ci si è trovati davanti a una scelta dolorosa: lasciare a Saddam Hussein la possibilità di imperversare con le sue armi di distruzione di massa, oppure cercare di bloccarlo facendo ricorso anche all’embargo economico. Tuttavia noi siamo sensibili alle sofferenze della popolazione civile irakena, per questo nel ’96 è stato varato, sotto l’egida dell’Onu, il programma “oil for food” che consente al regime di vendere una quantità di petrolio per poter acquistare cibo e medicinali. Il problema è che Saddam preferisce spendere i suoi soldi in armamenti piuttosto che sfamare il suo popolo. La colpa del disastro dell’Irak è tutta sua.

La presentazione in questi termini della situazione derivante dall’embargo all’Irak da parte delle Nazioni Unite rappresenta la mistificazione di uno dei più gravi atti contro l’umanità della storia contemporanea. In dieci anni l’embargo ha causato un numero imprecisato di morti, tutte le fonti indipendenti concordano sulla misura di alcuni milioni, di cui moltissimi bambini (più di 500mila secondo l’Unicef e l’Organizzazione mondiale della Sanità) su una popolazione totale compresa tra 20 e 25 milioni: cioè un autentico genocidio (che dire delle giornate della memoria sull’olocausto con lo slogan: bisogna ricordare affinchè non accada mai più?!).

L’imposizione dell’embargo avvenne nel ’91 conseguentemente alla prima guerra del Golfo. Se impedire il riarmo dell’Irak con il blocco delle frontiere e l’imposizione delle zone di non sorvolo a nord e sud del Paese, poteva avere un senso politico/militare subito dopo la fine della guerra, impedire l’accesso di generi alimentari e medicinali apparve subito come una punizione cinica e insensata nei confronti della popolazione civile. Questa punizione si è poi protratta per dieci lunghi anni su uno stato già fiaccato da una lunga precedente guerra (contro l’Iran), causando una regressione generale della società irakena e portando al disastro umanitario che si diceva. I tentativi per giungere alla revoca dell’embargo sono incappati contro la fermezza di due nazioni, Stati Uniti e Gran Bretagna, i quali, come membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, hanno bloccato ogni tentativo e richiesta.

Contro chi avanza l’ipotesi che la situazione della popolazione irakena fosse già disagiata prima dell’embargo, proponiamo alcune cifre che spazzano via ogni dubbio (fonte è la testata giornalistica del Televideo Rai): il tasso di malnutrizione della popolazione infantile è passato dall’1% dell’89 al 21% attuale; la mortalità infantile è più che raddoppiata fino a raggiungere il 10,8%, un tasso simile a quello di Etiopia e Burkina Faso; la percentuale di accesso all’acqua potabile era del 93% della popolazione, ora è scesa al 47%; gli analfabeti erano il 15%, ora sono il 47%.

L’analisi della fluttuazione della disponibilità alimentare per calorie della popolazione ci offre uno spunto molto interessante: nel 1989 l’irakeno medio aveva una disponibilità giornaliera di 3100 calorie, nel 1996 era scesa fino a 1200 calorie, poi con l’inaugurazione del programma “oil for food” è risalita fino alle odierne 2200. Questo dimostra chiaramente come, anche con un moderato allentamento delle sanzioni, la situazione per la popolazione sia subito migliorata e dimostra pertanto come i morti e le privazioni fossero conseguenza diretta dell’embargo.

L’altro argomento forte, e cioè che il regime spenda i soldi in armamenti invece che in cibo, appare assolutamente grottesca: se si ammette che Saddam acquista armi sul mercato del contrabbando internazionale, una domanda nasce spontanea: che senso ha avuto un embargo decennale con milioni di morti se poi il regime ha la possibilità di armarsi grazie al contrabbando? Se invece si ipotizza che Saddam utilizzi i soldi provenienti dal programma “oil for food” si compie un deliberato atto di disinformazione. Tale programma è stato approntato tecnicamente proprio per scongiurare tale possibilità, esso funziona in questo modo: si dà al regime la possibilità di vendere sul mercato internazionale una quantità di petrolio predefinita; i ricavi di tale vendita sono messi sotto custodia presso banche con sede a New York; il regime fornisce al Consiglio di Sicurezza dell’Onu una lista di prodotti che si intende acquistare; il Consiglio approva o boccia ogni singola voce, le merci approvate vengono acquistate con i fondi a disposizione; le merci vengono portate in Irak e quindi distribuite. Pertanto è chiaro come il regime irakeno non abbia mai l’autonoma disponibilità dei fondi, anzi, il controllo del Consiglio di Sicurezza (in cui, è bene ricordare, siedono i rappresentanti di USA e GB) è talmente penetrante che in passato sono state bocciate forniture di ambulanze, strumenti diagnostici, vaccini, per il timore che una volta giunti in Irak potessero essere modificati per costruire armi di distruzione di massa. Tale situazione ha portato alla ribellione degli stessi funzionari dell’Onu che presiedevano al coordinamento dei programmi umanitari: se i due precedenti (Dennis Halliday e Hans von Sponeck) si sono dimessi per non essere “complici” del disastro umanitario, l’attuale coordinatore, il portoghese Lopez Da Silva, scrive (così come riportato da Famiglia Cristiana): “I miglioramenti ci sono stati ma sono artificiali e, se il Programma si fermasse, il ritorno alla situazione del 1995 sarebbe ancora più rapido del declino tra il ’90 e il ’95. Prima delle sanzioni, il cittadino iracheno medio aveva contanti e proprietà. Oggi no: la sua dipendenza dai servizi e dai salari distribuiti dallo Stato, che in pratica è l’unico datore di lavoro, è totale”.

Tirate le somme, a cosa sono servite le sanzioni in questi anni? A distruggere il tessuto sociale di una Nazione, a provocare il suo imbarbarimento, a rendere i civili ancora più schiavi e dipendenti nei confronti del loro dittatore. In nome di cosa? È evidente: in nome della libertà del popolo irakeno!

Nessuno ama la guerra, e la scelta del conflitto è sempre una tragedia e una sconfitta. Ma come si può fermare altrimenti un dittatore come Saddam che durante gli anni del suo regime ha sempre aggredito gli stati confinanti e massacrato il proprio popolo? Si dovrebbe rimanere inerti come sostengono i pacifisti?

Di nuovo, questa impostazione è inaccettabile e ammettendone la buona fede, miope. La storia moderna dell’Irak rappresenta un tipico esempio di come l’Occidente si è rapportato con le Nazioni in via di sviluppo e che possedevano un’importanza vitale per la loro posizione strategica e per la ricchezza delle risorse naturali. Il dittatore Saddam Hussein non è caduto da una nuvola sul trono di Baghdad in un giorno di pioggia: gli sponsor del criminale Saddam hanno nomi e cognomi ben precisi ed abitano negli Stati Uniti, in Gran Bretagna, in Francia…

Il partito di Saddam Hussein giunge al potere in Irak con un colpo di stato nei primi anni ‘60, il golpe fu appoggiato dalla CIA per abbattere un governo nazionalista contrario agli interessi petroliferi delle multinazionali occidentali. Saddam Hussein scala la gerarchia del potere sfruttando abilmente la sua capacità di organizzazione dei servizi segreti irakeni, diventa vice-presidente e nel ’79 raggiunge l’apice del potere. Saddam Hussein è visto in Occidente come un modernizzatore laico e un ottimo partner commerciale, è indifferente che dimostri fin da subito la sua attitudine criminale con la repressione interna nei confronti degli oppositori politici e delle minoranze etniche. Le amministrazioni Reagan-Bush senior e quella della signora Thatcher forniscono tutto il necessario per far scendere in guerra l’Irak contro l’Iran khomeinista, una commissione del senato americano ha dimostrato nel ’94 che furono gli stessi Stati Uniti a fornire a quel regime le famigerate armi di distruzione di massa, compreso l’antrace che arrivava direttamente dal Pentagono. Saddam, forte di tale protezione, non esita ad usare i gas contro gli iraniani e contro i curdi nel 1988.

Nel 1990, dopo l’invasione del Kuwait, l’Occidente sembra improvvisamente svegliarsi dal torpore e si accorge di cosa sia realmente Saddam, ma di nuovo, se si leggono i fatti oltre la propaganda, la “conversione” appare solo di facciata. Benchè militarmente sconfitto il dittatore di Baghdad rimane saldo al timone di comando, le truppe americane che avevano partecipato a Desert Storm rimangono a guardare la Guardia Repubblicana irakena che reprime nel sangue la rivolta sciita nel sud, e anni dopo anche una rivolta curda nel nord che doveva portare ad un colpo di stato, viene tradita dall’amministrazione Clinton e Saddam rimane al suo posto. In effetti, se si osserva la situazione del Golfo nell’estate del ’90 (prima della guerra) e poi nell’estate nel ’91 (alla fine della guerra), si nota una sola sostanziale differenza: l’occupazione militare permanente degli USA con le basi in Arabia Saudita, Kuwait, Emirati Arabi… Ci si è interrogati per anni sui motivi per cui le truppe statunitensi non avessero mai finito il lavoro nel Golfo e si fossero fermate a poche decine di chilometri da Baghdad. La risposta più logica è la seguente: come potevano giustificare i governi della penisola arabica difronte alle loro opinioni pubbliche la presenza militare statunitense di occupazione ? Solo con il resistere, oltre i confini, della fantomatica minaccia del mostro Saddam Hussein… il dittatore offre ancora i suoi servizi ai nemici, essendo semplicemente l’uomo giusto al posto giusto, è Saddam l’elemento chiave per il mantenimento degli equilibri politici della penisola arabica sotto l’egida delle forze militari americane.

La resa dei conti attuale denota non una volontà di giustizia ma semplicemente un cambiamento di fase: Saddam Hussein ha terminato la sua funzione ed ora può essere abbattuto, la ridefinizione delle strategie per il Medio Oriente farà il suo corso, forse Saddam verrà ripagato con un esilio dorato al termine della guerra, forse verrà eliminato.

Quindi non si può chiedere ai pacifisti cosa fare in alternativa alla guerra, la guerra è lo strumento principale di questo tipo di politica, è questo tipo di politica che genera mostri a proprio uso e consumo. I pacifisti non possono fare altro che pensare una opposta conduzione delle relazioni internazionali e nella drammaticità attuale dichiarare: “non nel mio nome”.

L’Irak possiede armi di distruzione di massa. Spetta al regime fornire le prove del suo disarmo se non vuole andare incontro a “gravi conseguenze”.

Questo concetto, ormai accettato senza troppe discussioni, ribalta ogni principio minimo di civiltà giuridica: si tratta di una vera e propria “inversione dell’onere della prova”. Da quando, in epoche ormai remote, le regole della convivenza civile hanno abbandonato metodi ordalici (in cui i contendenti si sfidavano in prove fisiche e il vincitore aveva il premio di esprimere la verità), l’onere della prova spetta, per ovvietà logica prima di tutto, a colui che accusa. Se valesse il contrario, se cioè si costringesse l’accusato a fornire la prova di non aver commesso un fatto, ci si troverebbe di fronte alla necessità di fornire spesso prove diaboliche (come dicevano i Padri del diritto durante il medio evo).

Pertanto, abbandonare questi principi significa rinunciare alla civiltà giuridica occidentale (a proposito di scontro tra civiltà…) per tornare ad una sorta di stato di natura in cui è il più forte che detta legge. Gli americani possono accusare impunemente e presentare a sostegno dossier di prove che non resisterebbero a nessun vaglio critico indipendente, e lo possono fare perché tanto spetta agli altri dimostrare la propria innocenza, perché la verità non nasce più dal confronto obiettivo sui fatti. La potenza, non la ragione, decide da che parte sta la verità. La civiltà ormai usa la forza, il diritto lasciamolo ai barbari.

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Quelli presentati sono solo alcuni macroscopici esempi di disinformazione e manipolazione. Il loro intento è, a nostro avviso, non solo la diffusione di notizie false a scopo propagandistico, ma soprattutto quello di creare nel campo della comunicazione un “rumore di fondo” (espressione coniata in questo contesto dal giornalista Giulietto Chiesa) e schemi di ragionamento politico che nel lungo periodo propaghi, presso l’opinione pubblica, la corruzione delle analisi personali, il senso di confusione, il senso di inadeguatezza verso argomenti troppo grandi o complessi per essere giudicati da una persona comune. Il tutto è evidentemente funzionale al mantenimento dello status quo.

In termini più generali, questa analisi ci permette di rilevare due aspetti fondamentali e inquietanti. Primo: la ormai definitiva scomparsa (salvo benemerite eccezioni) dell’inchiesta giornalistica investigativa sui media di massa; o meglio, le uniche inchieste investigative riguardano mondi che non riguardano più la politica, mentre si fa grande sfoggio di mezzi per informare su casi eclatanti di cronaca nera o rosa (il caso Cogne, per citarne uno fra i tanti, e i fidanzamenti delle veline sull’altro versante). Questo ha portato un tangibile degrado della qualità professionale del giornalista, sempre più addetto alla diffusione di modelli culturali artificiosi, sempre meno “inviato” per leggere e conoscere la realtà.

Secondo: stupisce e preoccupa che anche coloro che avrebbero l’accesso a canali informativi di massa, perché ad esempio partecipano a talk shows su emittenti nazionali (ci si riferisce in particolare a rappresentanti dei partiti politici di opposizione o grandi firme del giornalismo), tendano ad appiattirsi sugli schemi proposti e quasi mai contestino apertamente, magari prendendo spunto da dati reali e sotto gli occhi di tutti, le “strutture” dei modelli informativi. Perché non lo fanno? Incapacità? Calcolo politico o personale? Gioco delle parti?

Solo internet e alcuni quotidiani o periodici con riferimenti culturali precisi, e quindi con utenza di nicchia e già sostanzialmente “avveduta” su certi argomenti, riescono allo stato attuale ad essere, purtroppo, voci fuori dal coro. Una speranza: se è vero che il battito d’ali di una farfalla in Cina può provocare un ciclone sull’atlantico, forse molti soffi di verità possono far cambiare il vento della comunicazione. Basta non smettere di soffiare…

Mercoledì, 19 marzo 2003

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