Per cosa si combatte in Afghanistan?

L’Occidente in Afghanistan non era più così largamente presente dalla spedizione di Alessandro Magno. La parentesi inglese di fine Ottocento non è certo comparabile con l’attuale impegno politico-militare di Enduring Freedom. Può essere utile, nel momento in cui anche un migliaio di Alpini italiani si preparano ad affrontare operazioni militari in quel lontano paese, riflettere su questo fatto.

L’Afghanistan, per quanto distante e sottosviluppato, non è un posto qualunque. E non basta a spiegare la novità di quanto sta accadendo il fatto che di lì debbano passare le nuove pipelines petrolifere progettate dalla Unocal americana. Una visione strategica imperniata solo sugli interessi petroliferi americani nella regione, per quanto determinanti, è certamente riduttiva.

Il fatto più serio è che, per la prima volta nella storia mondiale, l’Occidente anglosassone si va installando nell’area che da sud-est degli Urali si estende a sud fino all’Iran e all’Oceano Indiano: un’area descritta già nel lontano 1904 dal geopolitico inglese sir Halford Mackinder come lo Hearthland o la Pivot Area, “zona cardine” ai fini del controllo anzitutto del blocco continentale terrestre euro-asiatico e poi anche del resto del mondo – soprattutto per quella potenza che, come oggi avviene per gli Usa, detenesse il controllo mondiale degli Oceani.

Non possiamo infatti dimenticare che le operazioni in Afghanistan seguono il consolidarsi di rapporti politico-militari diretti fra gli Stati Uniti d’America e le repubbliche musulmane a nord dell’Afghanistan stesso, che, dopo la fine dell’URSS, si aggiungono a quelli, seppur spesso difficili, con il Pakistan. Ora gli Usa occupano le basi ex sovietiche di Sherabad e Sherisq in Uzbekistan, di Manas in Kirghizistan, oltre alla base area presso Baku in Azerbaigian.

La Pivot Area ha visto dunque negli ultimi anni, ben prima dei fatti dell’11 settembre, svilupparsi una penetrazione diretta da parte statunitense.

Questa situazione appare ancora più determinante per il futuro perché oggi quest’area, diversamente da come poteva apparire a Mackinder nei primi anni del XX secolo, è anche punto di incontro degli interessi strategici di Russia, Cina ed India – cioè di quei “centri principali di potere globale” come li definisce Bush nel recentissimo documento ufficiale della Casa Bianca (The National Security Strategy of the USA, the White House, settembre 2002, documento scaricabile dal sito http://www.whitehouse.gov/nsc/nss.html), ancora in grado di competere, almeno a livello regionale, con gli Stati Uniti.

Tutte e tre queste potenze però, a diversi gradi di intensità e di complessità, attraversano momenti critici: perso da un decennio il ruolo di competitore ideologico mondiale del sistema capitalistico, dissoltasi la sua area di influenza e controllo nell’Est europeo, la Russia permane in una condizione di crisi sia sul piano politico-economico (negli ultimi dieci anni il PIL russo si è dimezzato) che della sua sicurezza, minacciata proprio dall’elemento islamico radicato sia nelle aree ad est del Mar Caspio che nell’area petrolifera caucasica (conflitto in Cecenia).

La Cina, per quanto abbia sicuramente superato meglio della Russia la transizione post-comunista, dovrà misurarsi nei prossimi anni con le conseguenze socio-politiche del proprio stesso forte sviluppo economico e del nuovo più alto profilo come potenza con aspirazioni egemoniche in Asia.

L’India, dilaniata dal confronto storico fra musulmani e induisti, in bilico fra sviluppo e crisi sociale conseguente ai processi di globalizzazione, rimane stretta fra le contemporanee tensioni territoriali, religiose e politiche con Cina e Pakistan.

Per tutte e tre queste potenze – la diretta presenza angloamericana nel cuore del mondo asiatico, al centro del pericoloso incrocio dei loro confini, rappresenta un elemento inedito e per molti versi preoccupante, in grado di destabilizzare equilibri che hanno faticosamente e non sempre pacificamente resistito a mezzo secolo di dopoguerra.

Come se non bastasse, questo crocevia centro asiatico di potenze globali è anche il crocevia delle aree religiose mondiali cristiano-orientale, islamico, induista e confuciano ed è anche il più potente punto di concentrazione mondiale di armamenti nucleari, di cui sono dotati sia la Russia, che la Cina, l’India ed il Pakistan, oltre ovviamente agli stessi Stati Uniti.

Rispetto poi alla situazione cui si fa in genere riferimento, il Grande Gioco russo-britannico di fine Ottocento per il controllo del cardine afgano, oggi si dimentica un ulteriore elemento di straordinario rilievo: il fatto cioè che, diversamente da allora, l’Occidente atlantico conta nella regione sulla presenza dello Stato di Israele che, nel conflitto causato dall’occupazione della Palestina, si è imposto come una potenza militare senza confronti nell’area, a maggior ragione da quando ha concluso un accordo politico economico militare con la Turchia (fino a quel momento tradizionalmente ostile), che ha in qualche modo completato il solido sbarramento filo-occidentale a ovest dell’area mediorientale.

Se si considera la capacità di proiezione navale mondiale anglosassone, oramai inavvicinabile da alcun altro Stato neanche su aree oceaniche circoscritte, ci si accorge che di fatto la presenza in Afghanistan dell’Occidente completa per la prima volta nella storia una sorta di accerchiamento del continente asiatico da parte anglosassone.

Occorre infatti tenere ben presente che gli Stati Uniti sono storicamente in primo luogo una potenza asiatica, per il ruolo strategico determinante che svolgono nell’Oceano Pacifico, almeno da quando dispongono delle basi aeronavali nelle isole Hawai e che, sempre nel Pacifico, l’Australia ha da sempre fiancheggiato le strategie economiche, politiche e militari anglosassoni.

Ne consegue che sia India che Cina che Russia (in quanto potenza anche asiatica) possono percepire l’azione in Afghanistan con ancora più forte preoccupazione, al di là delle dichiarazioni di solidarietà e adesione alla lotta contro il “terrorismo” mondiale, per i rispettivi ruoli in Asia.

Mentre, a causa del ruolo di Israele, la medesima percezione di accerchiamento è certo presente anche nei Paesi arabi del Medio Oriente e in tutta quella fascia di religione islamica che dal Medio Oriente si spinge fino all’Indonesia ed al sud est asiatico.

Né si deve pensare che tale situazione nasca a seguito della reazione statunitense ai fatti dell’11 settembre 2001: la storia recente dimostra che l’attuale intervento diretto in Afghanistan non è un puro atto difensivo, bensì il risultato di una strategia di lungo periodo che gli Stati Uniti perseguono lucidamente almeno dalla fine degli anni Settanta, a partire cioè dalla caduta dello shah Reza Pahlevi in Iran (1978). Senza dimenticare che gli ascendenti di tale strategia sono presenti in realtà fino dalla progettazione anglo-americana del futuro assetto postbellico, nel corso della Seconda Guerra Mondiale.

Molti sono infatti gli elementi che rivelano che gli Stati Uniti hanno lucidamente utilizzato il potenziale islamista per dare il colpo di grazia decisivo alla potenza russa comunista, approfittando del critico momento di passaggio che l’Urss iniziò ad affrontare nell’era post-brezhneviana, quando si manifestavano cioè le prime esigenze di una revisione profonda dell’assetto sovietico – oggettivamente non più in grado di sostenere in termini di efficienza politico-economica il ruolo di grande potenza mondiale dell’Unione sovietica.

Non è oramai evidente solo il fatto che gli Usa abbiano utilizzato spregiudicatamente i mujahiddin islamici, addestrandoli armandoli finanziandoli come freedom fighters (combattenti della libertà, secondo la definizione del presidente Reagan) dopo l’invasione russa in Afghanistan (dicembre 1979): molti sono gli elementi che fanno ritenere che questa stessa invasione sia stata scientemente provocata prima e diplomaticamente avallata durante, proprio nella consapevolezza di aprire non solo una crisi decisiva nel regime sovietico ma anche uno spazio alla penetrazione nell’intera Pivot Area mondiale.

“Zbigniew Brzezinski, segretario alla Sicurezza nazionale dell’amministrazione Carter, si è addirittura felicitato della «trappola» tesa ai sovietici nel 1978, manovrando gli attacchi dei mujahiddin (organizzati armati e addestrati dalla Cia) contro il regime di Kabul: una manovra che ha spinto alla fine dell’anno successivo i sovietici a invadere il territorio afgano” (N. Chomsky, “Terrorismo, l’arma dei potenti”, Le monde diplomatique/il Manifesto, dicembre 2001).

Dalle famigerate carte dell’archivista del KGB Vasily Mitrokhin, ora raccolte nell’ambizioso Cold War International History Project (CWIHP) del Woodrow Wilson International Center dello Smithsonian Institute di Washington, emergerebbero infatti elementi decisivi per far ritenere che il KGB (e in esso il futuro premier russo Yuri Andropov) fu spinto da agenti americani alla decisione di invadere l’Afghanistan, facendo appunto scattare quella trappola.

Così come è oramai di pubblico dominio il fatto che gli Stati Uniti abbiano presentato, tra luglio e agosto 2001, una sorta di ultimatum al regime talebano, nel quale si minacciava un intervento militare diretto, dopo il fallimento di trattative svoltesi fin dai primi mesi del 2001: prima dunque che, a fornire motivi internazionalmente più che sufficienti ad avviare l’intervento militare in Afghanistan, sopravvenisse l’attentato dell’11 settembre (Brisard – Dasquié, Bin Laden, la verité interdite, Denoël ed., 2002).

Sarebbe opportuno che in Europa questi fatti divenissero subito, prima cioè che tutto si trasferisca sul piano militare, argomento di discussione pubblica, superando le superficiali semplificazioni di quella informazione di largo consumo che sta ormai riducendosi, sui mass media, a pura propaganda bellica.

Sarebbe necessario cioè che gli europei aprissero un dibattito sul fatto che gli interessi dei Paesi dell’Unione Europea coincidano davvero con la spinta decisiva che l’amministrazione Bush sta dando alla acquisizione del controllo diretto sulla Pivot Area mondiale da parte anglosassone – nella quale a pieno titolo si inserirà la futura guerra in Iraq, con tutte le ulteriori incognite che essa può comportare.

Per quanto poi specificamente riguarda l’Italia, le domande sono ancora più complesse e le risposte determinanti: la posizione italiana, infatti, di connessione fra le due sponde del Mediterraneo (quella europea e quella nordafricana), per un verso, e, per l’altro, di fronteggiamento dell’area balcanica, dove mondo europeo, mondo slavo e musulmano si incontrano almeno da mezzo millennio – esige una visione lucida dei rischi che comporterà un ancor più marcato appiattirsi del profilo italiano sulla politica di potenza anglosassone.

Con tale appiattimento, infatti, rischia di chiudersi per molto tempo ogni possibilità di dialogo e di costruttiva interazione con queste due aree, strategiche per il futuro dell’intera Unione Europea e per il ruolo italiano in essa.

Bisognerà pure decidersi anche a valutare, appieno e pubblicamente, se la grande strategia imperiale anglosassone di accerchiamento dell’area eurasiatica non contenga in definitiva, per di più nel momento in cui gli Usa attraversano una gravissima crisi economica e sociale, seri elementi di minaccia anche per il futuro sviluppo dell’Europa – con il cui processo di unificazione, a breve termine, quella spregiudicata strategia andrà inevitabilmente a collidere.

La risposta a queste domande è un dovere, almeno nei confronti di quei soldati europei che stiamo inviando in Oriente: rischiano e rischieranno la loro vita per difendere la libertà di tutti o per portare a compimento una strategia di dominio mondiale, perseguita da tempo dalle élites anglosassoni?

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