Nassiriya: Il significato di un sacrificio

Siano onorati gli italiani caduti in Iraq, come tutti coloro che pagano con la propria vita l’adempimento del proprio dovere.

Non basta però render onore a chi ha versato il suo sangue: anzi, onorarli veramente obbliga in primo luogo chiedersi quale sia davvero il significato del loro purissimo sacrificio.

Siamo quindi davanti alla ripresa di un tema cui già nell’ormai lontano 2001, su queste stesse pagine, si è fatto riferimento, nel momento in cui il governo italiano aveva deciso l’invio di un contingente italiano in Afghanistan (“Per cosa si combatte in Afghanistan” di Gringoire nella sezione “Divulgazione”).

Oggi ci viene detto che questi caduti sono “l’amaro prezzo della pace”; nelle nostre scuole verranno presentati come eroi della pace.

Purtroppo non è così, ed è ora necessario dirlo con tutta chiarezza.

Il predominio anglosassone, completamente disfrenatosi dopo la caduta del muro di Berlino, non ha affatto portato pace e libertà nel mondo: le vicende dei Balcani, dell’Africa (dalla Somalia al Congo), del Medio Oriente (dalla Palestina al Kashmir), dell’America Latina (dalla Colombia alla Bolivia), dell’Asia. Ovunque un proliferare di conflitti, in ogni gamma di intensità, che hanno prodotto centinaia di migliaia di caduti, di vittime civili: ovunque l’intervento occidentale non è stato in grado di stabilizzare le situazioni e di risolverne le cause profonde.

Anzi, sorge sempre più forte l’impressione che nella strategia generale delle potenze anglosassoni, il peace keeping serva piuttosto a determinare condizioni di indebolimento cronico del tessuto politico, economico-sociale, culturale di aree strategiche; al solo scopo di consentire una presenza costante in quelle aree, in nome appunto della pace e della libertà: il recente storico discorso del presidente statunitense Bush sul Medio Oriente testimonia in maniera chiarissima questa volontà di dominio.

Una seconda maniera con cui si spiegherà il sacrificio di questi nostri caduti sarà che essi erano in Iraq per difendere i “valori occidentali”.

Anche su questo è il momento di cominciare ad essere veritieri.

L’Occidente è una parola sempre meno chiara: abbiamo appena visto le difficoltà di definire l’identità europea nella futura costituzione dell’Unione. Se per Occidente si intende il processo storico con cui dal VII-VI secolo avanti Cristo un’area della umanità intraprese un percorso in nome della libertà e della spiritualità individuale, che ha trovato nella Parola del Cristo l’indicazione decisiva per il suo sviluppo nella futura storia del mondo – allora dobbiamo dire che, anche su questo piano, le differenze maturate nell’ultimo decennio tra Europa e mondo anglosassone sono gravi e rimarchevoli.

L’Europa non può procedere nella medesima direzione su cui si sono indirizzate le potenze anglosassoni, poiché farlo significa con ogni evidenza rinnegare quel percorso di libertà interiore e di giustizia sociale cui potrebbe volgersi per sua natura il vero Occidente. Oggi l’identità europea ha un senso proprio e solo nel riuscire a distinguersi dalla interpretazione anglosassone di Occidente: una interpretazione al centro della quale sta la libertà intesa in senso economico e la conoscenza in senso materialistico. E questa non è la linea di sviluppo che ha fatto la grandezza della civiltà europea.

Lo scontro di interessi, sempre più palese, a livello strategico, economico e politico, manifestatosi duramente proprio a seguito dell’intervento “alleato” in Medio Oriente, non è che la manifestazione esteriore di questo elemento profondo, il cui valore non è pienamente chiaro nemmeno ai principali attori di questo scontro, di cui stiamo vedendo soltanto il principio.

In tale ambito, la posizione italiana, se anche solo dovessimo parlare di semplici “interessi nazionali” è particolarmente grave; e per questo particolarmente doloroso e lacerante il sacrificio dei nostri soldati e compatrioti. L’Italia, per la linea intera della sua storia, non ha reali motivi di configgere con il mondo arabo e mediterraneo in generale. Troppi e troppo profondi sono i legami che ci collegano e non ci dividono dall’area mediterranea e mediorientale: venir meno a questa visione, significa imprimere alla nostra storia una direzione che non può che essere rovinosa.

Occorre dirlo, ed avere il coraggio altresì di affermare una volta per tutte (ed una volta tanto) che, a questa stregua, assai più si giustificava l’intervento nella seconda guerra mondiale a fianco della Germania, dato che esso era reso in qualche modo inevitabile (e molte sono le prove storiche per poterlo affermare) a tutela degli interessi mediterranei e marittimi del nostro Paese dinanzi all’imperialismo britannico.

Una terza motivazione con cui si giustificherà ancora il sacrificio dei nostri caduti sarà quello della fedeltà dovuta ai nostri alleati.

È questa la motivazione più terribilmente insidiosa, poiché risuscita il dramma e riannoda il nodo irrisolto della nostra storia recente, quello del tradimento dell’8 settembre 1943, di cui è appena ricorso il sessantesimo anniversario.

Ebbene, anche qui occorre avere il coraggio di dire che, nel momento in cui un’alleanza ci spinge verso il rinnegamento della nostra identità, confligge contro i nostri anche più immediati interessi e ci colloca in una posizione sovente antitetica rispetto all’indirizzo appena nascente della politica comune europea – è un’alleanza da abbandonare. Questo va fatto però ora, cioè chiaramente e coraggiosamente, motivandolo espressamente e non attendendo il momento (sperabilmente il più lontano possibile) in cui eventi tragici e irrimediabili ci dovessero condurre ad un voltafaccia come quello che ci ha tolto la dignità di combattenti e l’onore di Nazione nel ’43.

Questo può essere fatto oggi, quando grandi Paesi come Francia, Germania, Russia hanno motivatamente espresso la loro netta contrarietà all’intervento alleato in Medio Oriente; quando il faticoso enuclearsi di una politica estera e di una identità militare europea richiede un’analisi spassionata e una determinazione forte nella scelta della nostra collocazione politica nel quadro internazionale. E sarebbe dunque ipocrita nascondere dietro il moralismo della fedeltà atlantica il tradimento alla nostra vera identità di italiani e di europei.

In questo senso, la NATO è un problema di fondo dell’attualità a cui occorre dare una risposta, poiché il suo totale assoggettarsi alle esigenze anglosassoni nel teatro europeo, mediterraneo e mediorientale non può che urtare contro le esigenze europee: dal problema dei rapporti con la Russia a quelli con il mondo arabo.

Le scelte del governo italiano, nelle edizioni di centro-sinistra non meno che in quelle attuali di centro-destra, per soggezione agli alleati anglosassoni, portano dunque la responsabilità finale della nostra presenza in Iraq. Ma negli ultimi mesi, è doveroso oggi sottolinearlo, stiamo rimarcando una novità di assoluto rilievo, che, se percepita con altrettanta e altrettale chiarezza nel mondo arabo, può spiegare questo colpo terribile inferto al nostro Paese.

Stiamo parlando della netta scelta di campo a favore di Israele.

Essa rompe un faticoso, per molti versi discutibilissimo, ma tuttavia vitale tessuto di relazioni con il mondo arabo, che si era conservato attraverso le tante vicende del secondo dopoguerra; va in conflitto con gli stessi orientamenti prevalenti nell’Unione Europea; si scollega da posizioni, su questo piano assolutamente significative, come quelle della Santa Sede, assai più caute e attente.

Con quali ragioni? Per quali scopi? Il nostro governo non ha affrontato in nessun modo pubblicamente questi temi; né li affronta a fondo la nostra stampa, a parte il suo vanitoso compiacimento per la singolarità di un politico ex neofascista in cammino verso la patria inverata del sionismo mondiale.

In conclusione. Quale significato di questo sacrificio, giacché esso non ha un significato per la pace, non per la civiltà occidentale, non per la fedeltà all’alleato? Esso appare con tragica immediata chiarezza il primo prezzo che l’Italia paga alla volontà di dominio mondiale dei nostri alleati e agli interessi di potere, ricercato non mediante strategia ma attraverso strumenti servili, della nostra classe dirigente.

Un sacrificio vano, dunque? No, mai. Il sacrificio della vita non è mai vano. Nel sangue di questi uomini e nel dolore delle persone che li hanno amati e di quanti, come noi, li attorniano con la loro solidarietà, possono iniziare a illuminarsi come volontà e come dovere le scelte fondamentali sulla nostra collocazione come Nazione, a chiarificarsi, dopo la smarrimento di sessant’anni, la nostra identità come Popolo e a definirsi la nostra Missione nel millennio così tragicamente iniziato. Questa è la sola ragione che può ancora darci speranza.

13 novembre 2003

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