La lista di Bush

Le minacce dell’amministrazione americana a Siria e Iran fanno temere nuovi capitoli nella strategia della guerra al terrorismo. Cortina fumogena o rischi reali?
“What next?”, cioè: chi è il prossimo?, sembra abbia chiesto George W. Bush al suo consigliere per la sicurezza nazionale Condoleeza Rice all’indomani della vittoria americana in Afghanistan. Se non ci sono dubbi su quale sia stata la risposta, non sappiamo se la domanda sia stata ripetuta il giorno dell’abbattimento della statua di Saddam Hussein a Baghdad, simbolo mediatico e politico della vittoriosa campagna irachena. Noi non lo sappiamo, ma di certo quella domanda è circolata e circola presso coloro (giornalisti, analisti, gente comune) che cercano di comprendere dove ci sta portando la politica estera degli Stati Uniti d’America. Due nomi, sopra gli altri, sono indicati come i primi della lista di Bush: la Siria e l’Iran. E in effetti la campagna irachena da parte delle forze anglo-americane non era ancora conclusa, che da parte di numerosi esponenti dell’amministrazione statunitense sono cominciate a levarsi voci, minacce, ammonimenti contro il governo di Damasco (e in secondo ordine contro quello di Teheran) reo di possedere armamenti chimici, dare asilo ad alti dignitari iracheni in fuga, intrattenere rapporti con organizzazioni terroristiche. L’opinione pubblica mondiale ha imparato a riconoscere, ormai, lo stile di queste campagne mediatiche, e dunque a temerle: accuse non provate, innalzamento progressivo della tensione, velate minacce che si trasformano poi in dati di fatto. Si era cominciato sullo stesso piano con l’Iraq, e sotto gli occhi di tutti sono i risultati di quelle che erano evidenze di una volontà che doveva portare ad un conflitto armato. Accadrà lo stesso con la Siria? I toni si sono in pochi giorni stemperati e tutto sembra tornato ad una vigile normalità. Ma, allora, chi sarà davvero il prossimo? E dovrà proprio essercene uno?

In precedenti articoli pubblicati su questo sito (“Uomini e mosche” e soprattutto “Oil games”, nell’archivio della sezione “Divulgazione”) si era cercato di dare una analisi geopolitica del quadro in cui si muoveva la strategia americana. Si era detto che l’obiettivo finale dell’ala dei “Nuovi Conservatori”, che incarna tale prospettiva “rivoluzionaria”, era l’occupazione, politica e militare, dell’Asia centrale, ed in particolare del bacino del Caspio, come centro nevralgico, strategico, a livello geografico e per risorse naturali. Si era pure sostenuto che la seconda campagna irachena era solo una tappa (pur necessaria e fondamentale) verso l’autentico obiettivo finale: la Repubblica islamica dell’Iran. Le modalità e i risultati della guerra irachena ci confermano pienamente questa ipotesi. Come leggere dunque questo rivolgere l’attenzione anche verso la Siria, si tratta di una ipotesi reale o fa parte di un gioco diplomatico teso solo a rimescolare le carte?

Per comprendere pienamente la credibilità di un attacco militare verso la Siria da parte degli Stati Uniti, è necessario configurare il quadro che ne deriverebbe. Per le recenti guerre e per la prima guerra del Golfo, si era da molti analisti avanzato il rischio di un possibile allargamento del conflitto ai Paesi confinanti, “si può incendiare l’intero Medio Oriente” dicevano i commentatori più preoccupati (o più catastrofisti, secondo altri). Tali ampliamenti di conflitti non si sono mai verificati, e, di fatto, non esistevano presupposti politici e militari perché ciò potesse avvenire. La situazione per la Siria è molto diversa, le condizioni peculiari che legano questo stato ad altri confinanti innescherebbero, in caso di attacco bellico nei suoi confronti, tutta una serie di risposte automatiche che inevitabilmente porterebbero ad un allargamento.

Il primo di questi meccanismi automatici sarebbe l’attacco delle milizie Hezbollah (filo iraniane e filo siriane) dal sud del Libano verso Israele. Queste milizie, che sono il braccio armato di una sorta di stato islamico dentro lo stato libanese, vedrebbero nella fine della Siria, che finora li ha protetti, la loro stessa fine: è ovvio che reagirebbero verso il nemico di sempre, Israele. A sua volta lo stato ebraico risponderebbe automaticamente agli attacchi (come ha sempre fatto dagli anni ’80 in poi) e questo porterebbe la guerra dentro la precaria situazione libanese, composta da una miriade di milizie dalle più diverse ispirazioni, politiche, razziali e religiose, che dopo la lunga e sanguinosa guerra civile negli anni passati, è oggi pacificata grazie all’intervento dell’esercito siriano, appunto, che ha imposto una tregua di fatto e vigila con una sorta di protettorato. Subito dopo è da prendere in seria considerazione la possibilità concreta di sommosse all’interno dei Territori palestinesi, in cui le fazioni islamiche di Hamas e della Jihad hanno fortissimi legami, militari oltre che ideologici, con le corrispondenti fazioni libanesi. A questo punto sarebbero fortemente sollecitate le masse palestinesi che si trovano in Giordania, che, contro un regime filo-occidentale, potrebbero a loro volta innescare rivolte e sommosse. Il rischio che ciò avvenga anche in Egitto è minore, ma non trascurabile. Questa dunque la sequenza: attacco americano alla Siria, automatico attacco degli Hezbollah contro Israele, rappresaglia di Israele e molto probabile riaccendersi della guerra civile in Libano, sommosse palestinesi nei Territori occupati, repressione di Israele, destabilizzazione e probabili tumulti popolari in Giordania, possibilità che avvenga anche in Egitto. Insomma, un quadro sconvolgente di conflitto generalizzato.

Per correre il rischio di dover fronteggiare una situazione del genere, gli Stati Uniti dovrebbero ambire ad una posta in gioco molto alta. La Siria ha questo valore per gli Usa? Dal punto di vista strategico questo stato mediorientale non è così appetibile: è decentrato rispetto al centro di interesse odierno, e in quell’area sono già sufficienti le rendite di posizione offerte da Israele e Turchia, senza dimenticare il ruolo del “nuovo” Iraq. Non si trova su rotte commerciali fondamentali, infatti dall’Iraq sarebbe molto più semplice giungere sul Mediterraneo, o comunque verso l’Europa, attraverso la Giordania a est, e la Turchia a nord. Non è particolarmente ricco di risorse naturali, estrae petrolio solo per quanto sufficiente alle richieste interne. Pur essendo un territorio vasto è in gran parte desertico, la popolazione è stimabile sui 15 milioni. In compenso la Siria ha un esercito ben armato e organizzato (le maggiori spese sono state affrontate, nei trenta anni del regime di Hafez el Assad e di suo figlio Bashar adesso, proprio per mantenere un esercito imponente in vista di un sempre possibile scontro con Israele) e si tratta di uno stato con un tipo di economia prevalentemente autarchico, poco ricattabile e destabilizzabile con pressioni esterne. L’attuale leadership siriana non è poi così inesperta come viene ventilato da alcune parti: certo, Bashar Assad è giovane e si è trovato al potere quasi per uno scherzo del destino (si legga il bellissimo articolo di Alain Gresh sui giochi di potere in Siria apparso su Le Monde Diplomatique del luglio 2000) ma il “dottor” Bashar è uomo intelligente e culturalmente molto preparato, ha inoltre dimostrato di sapersi muovere con sufficiente destrezza dentro il complicato gioco delle alleanze tribali in Siria (unica vera debolezza del suo regime). Una guerra contro la Siria, dunque, non sarebbe né troppo breve, né indolore. Contro Saddam gli Usa si sono “scelto” il nemico, un nemico a cui, tra l’altro, hanno sempre lasciato larghe vie di uscita. Nel ’91 il raìs sapeva benissimo che l’obiettivo non era far cadere il suo regime (anzi, tutt’altro, come hanno dimostrato i fatti), e nell’ultima guerra, mentre nel sud si è combattuto duramente per due settimane, Baghdad è stata conquistata in tre giorni senza praticamente combattere, nel frattempo Saddam spariva nel nulla (vedremo se e quando ricomparirà). Con la Siria questo non potrebbe accadere: sarebbe una guerra da combattere fino in fondo.

Unici ad avere un vero e sostanziale vantaggio da un cambiamento di regime in Siria sarebbero gli israeliani, per i quali la Siria è rimasto l’unico paese confinante o limitrofo davvero ostile. Un cambiamento di regime a Damasco potrebbe significare la possibilità di accedere alle risorse idriche contestate nel sud del Libano, con il fiume Wazzani che lì scorre e che Israele vorrebbe poter sfruttare integralmente e unilateralmente, progetto apertamente contrastato dai libanesi. Secondariamente significherebbe togliere forza ai gruppi terroristici palestinese che possono ricevere aiuti dai siriani. Ma Israele sarebbe disposta ad una guerra per un fiume, anche se le risorse idriche sono fondamentali per quell’area geografica?

Anche in questo caso bisogna tenere conto di diversi fattori e possibili scenari. Primariamente ci pare che la leadership israeliana non abbia ancora preso (almeno visibilmente) una decisione definitiva su come risolvere la questione palestinese e si stiano contrastando due visioni: da un lato attendere e verificare la riuscita del nuovo corso moderato che si sta attuando al vertice dell’Autorità palestinese con l’elezione del nuovo premier Abu Masen. Se questa riuscisse, Israele potrebbe anche accettare la nascita formale di uno Stato palestinese, ma solo se debole politicamente ed economicamente. Per Israele sarebbe un passaggio accettabile da una situazione di controllo coloniale ad uno neo-coloniale sulla Palestina, con una popolazione araba che potrebbe tornare ad essere quella massa di manodopera a basso costo che era stata prima delle varie intifada (e la disastrata economia israeliana ne avrebbe davvero bisogno). L’altra visione è invece quella di una sorta di “soluzione finale” con la deportazione forzata della popolazione palestinese in Giordania (come apertamente auspicato da alcuni partiti ebraici fondamentalisti). Questa possibilità sarebbe però praticabile solo in una situazione di assoluta emergenza, in un conflitto regionale di “tutti contro tutti” che la giustificasse e la facesse digerire all’opinione pubblica mondiale (cioè in uno scenario simile a quello precedentemente descritto in seguito ad un attacco alla Siria). Le priorità sono però diverse. In una intervista a The Times del 5 novembre 2002, il premier israeliano Sharon disse che, una volta risolta la questione irachena, gli americani avrebbero dovuto affrontare per primo il problema Iran. “L’Iran fa di tutto per entrare in possesso di armi di distruzione di massa e di missili balistici” ha affermato Sharon “questo è un pericolo per il Medio Oriente, per Israele e per l’Europa. L’Iran è dietro al terrore in ogni parte del mondo". Il premier israeliano sa benissimo quali sono i veri nemici e i veri pericoli per lo stato ebraico. E non esita a “denunciarli”.

I riflettori si spostano, dunque, e in maniera convincente, sull’Iran. In un articolo dell’analista John Stanton pubblicato sull’autorevole sito di informazione Global Research (la versione originale è leggibile su www.globalresearch.ca/articles/STA303B.html) questa ipotesi viene indagata in maniera puntuale e specifica. Si mettono in luce fatti recenti (come il bombardamento durante la guerra in Iraq, per mezzo di alcuni missili “impazziti”, su tre raffinerie iraniane nel sud. Si pensa che questo sia stato fatto volontariamente per “saggiare” i sistemi di sicurezza aerea iraniani), e soprattutto si anticipano piani segreti da applicare da qui al 2004, soprattutto nel campo della comunicazione. Scrive Stanton:

Tra l’aprile del 2003 e il novembre del 2004, gli USA, l’Inghilterra e Israele accelereranno le operazioni per creare instabilità in Iran e si occuperanno di una campagna di disinformazione globale per destabilizzare le guide politiche e militari iraniane. Ciò condurrà a poter dare agli americani l’immagine di uno Stato diviso dai conflitti interni e dal dissenso. I media rivedranno la questione della crisi degli ostaggi dell’ambasciata americana in Iran [episodio risalente al 1979 dopo la rivoluzione khomeinista, n.d.r.] e mostreranno spezzoni del periodo 1978-80 per aumentare la fame di guerra degli americani. Ciò includerà immagini dei seguaci di Khomeini che impiccano e uccidono gli uomini della polizia segreta dello Shah. Film come "Sally Field’s Not Without My Child", che ritrae molti iraniani come esseri maligni, saranno messi in onda da tutti i networks. Reza Pahlavi, il figlio dell’ex Shah dell’Iran, sarà ospite sempre più frequente di CNN, Fox, ABC, NBC, CBS e PBS. Immagini del bombardamento delle basi dei Marines Usa in Libano, di sui sono accusati gli Hezbollah con l’appoggio degli iraniani, saranno diffuse e stampate. Intanto, a Washington DC, il 17 marzo 2003, ai parenti dei Marines USA uccisi in Libano, è stato permesso di procedere ad una causa per danni di 2 miliardi di dollari contro il governo iraniano. In accordo con il qualche volta credibile Washington Post, "il giudice Royce C. Lamberth ha stabilito che i sopravissuti e i familiari delle vittime possono intentare causa contro l’Iran in base ad una legge del 1996 che permette ai cittadini USA di ricorrere ad azioni legali contro le nazioni che sponsorizzano il terrorismo. "Le forze armate Usa… incarnano tutto ciò che provoca il risentimento dei nemici di questo stato", scrisse Lamberth. "Il fallimento nel permettere ai militari di intentare azioni legali creerebbe un incentivo perverso per gli stati che sponsorizzano il terrorismo a colpire il personale militare USA non combattente". Centinaia di familiari hanno testimoniato e raccolto prove al fine di redigere un documento sul ruolo dell’Iran nel bombardamento. Una volta che l’Iraq sarà occupato con successo i media volgeranno la loro attenzione a questa causa.

Secondo Stanton, poi, alla fine del 2004, dopo che l’attuale amministrazione americana avrà vinto le elezioni e ottenuto il nuovo mandato quadriennale per George W. Bush, tutto l’apparato sarà pronto per il momento decisivo. Condividiamo il quadro generale di questa analisi e i suoi tempi di realizzazione, non crediamo però che si tratterà di una nuova invasione militare sullo stile iracheno. Ad esempio Noam Chomsky, in un’intervista rilasciata a SchNEWS prima della guerra in Iraq, pensa che gli apparati militari e spionistici alleati (Usa, Gb, Israele) stiano pensando ad un nuovo Kosovo in salsa persiana:

Il fatto è che la guerra con l’Iran è probabilmente già iniziata. È noto che circa il 12% della forza aerea israeliana è nel sud-est della Turchia. Sono lì perché si stanno preparando per la guerra contro l’Iran. Non si preoccupano per l’Iraq. Pensano che l’Iraq sarà una passeggiata, mentre l’Iran è sempre stato un problema per Israele. È l’unico paese della regione che loro non possono gestire e sono stati, dopo gli Stati Uniti, a lungo sul punto di invaderlo. Secondo un rapporto la forza aerea israeliana sta ora volando al confine iraniano per azioni spionistiche, per provocazione, e cose del genere. E non si tratta di una piccola forza aerea. È più grande della forza aerea britannica, più grande di ogni potenza NATO ad eccezione degli Stati Uniti. Probabilmente essa è già in movimento. Si dice che ci siano in atto sforzi per istigare il separatismo azero, il che ha un qualche senso. È quello che tentò di fare la Russia nel 1946, si vuole separare l’Iran, o ciò che ne rimane, dai centri di produzione petrolifera del Mar Caspio. Dopodiché lo si potrebbe spartire. Probabilmente tutto questo è già in atto e ad un certo momento verrà fuori una storia su come un domani l’Iran ci potrebbe distruggere, sicché dovremmo sbarazzarci di loro oggi. O almeno questo è il piano.

L’ idea di uno smembramento dell’Iran in zone di influenza potrebbe, in effetti, avere molto senso, e specialmente se fosse provato un legame, su cui si dovrebbe indagare molto approfonditamente, tra l’ala religiosa fondamentalista iraniana e la fazione dei neoconservatori americani. Tale legame sarebbe nato alla fine degli anni ’70, quando un gruppo di personaggi che erano espressione dell’apparato militare/industriale/spionistico all’interno del partito repubblicano, scelse come cavallo elettorale l’allora governatore della California, Ronald Reagan, che da lì a poco sarebbe diventato, infatti, presidente degli Stati Uniti. Di quel gruppo facevano parte: George Bush Sr, Dick Cheney, Donald Rumsfeld, Richard Perle… dopo 25 anni sono gli stessi a guidare l’amministrazione americana. La tesi di un “complotto” fu espressa in un’intervista, per un documentario trasmesso lo scorso anno da Rai 3 nella trasmissione “C’era una volta”, da Bani Sadr, primo presidente laico dell’Iran rivoluzionario prima della svolta definitiva in senso teocratico, secondo cui la destra americana e gli ayatollah iraniani strinsero una sorta di patto diabolico. La vittima principale sarebbe stato il tentativo di costruire un Iran progressista: lo stesso Bani Sadr fu costretto all’esilio, e venne favorita l’ascesa al potere dell’ala fondamentalista di Khomeini, il quale si collocava sullo scacchiere internazionale in una posizione equidistante tra Usa e Urss. Nello stesso tempo gli ayatollah ricambiavano il favore: è noto che fu proprio la mancata soluzione della crisi all’ambasciata americana di Teheran (un gruppo di studenti islamici sequestrò i funzionari dell’ambasciata per mesi) ad essere l’elemento decisivo che fece perdere le elezioni presidenziali a Carter in favore di Reagan. Tale legame non sarebbe stato episodico se si ricorda la vicenda del cosiddetto scandalo “Irangate” o “Iran/Contras connection” avvenuto nel 1985, quando gli Stati Uniti vendettero illegalmente armamenti all’Iran (si era nel pieno della guerra Iran-Iraq) e utilizzarono i ricavati per finanziare la guerriglia “contras” che combatteva la rivoluzione sandinista in Nicaragua. Quell’intreccio di traffici occulti (armi, droga, guerriglieri, mafiosi) si fermò alle porte della stanza ovale. Le prove del coinvolgimento diretto di Reagan e Bush non vennero mai trovate e gli unici condannati furono due “manovali” dell’operazione, il consigliere per la sicurezza nazionale, l’ammiraglio John Poindexter, e il colonnello dell’esercito Oliver North. Se tali legami sono realmente esistiti, è lecito ritenere che potrebbero tornare alla ribalta in questa fase (i gruppi di potere, come abbiamo visto, sono gli stessi), e lo smembramento dell’Iran vedrebbe come vittima sacrificale (di nuovo) il tentativo riformista dell’attuale presidente Khatami, la zona rivierasca del Caspio cadrebbe sotto influenza americana, il resto del paese potrebbe continuare ad essere governato dai gruppi teocratici.

Oltre alle ipotesi di invasione e smembramento, esiste una terza via che personalmente ci sentiamo di avvalorare come la più probabile. Non dimentichiamo che due degli obiettivi principali dell’invasione dell’Iraq erano indirizzati proprio contro l’Iran. Primo: completare l’accerchiamento militare cominciato in Afghanistan. Secondo: avere il controllo del petrolio iracheno non solo per bassi interessi finanziari (miliardi di profitti per le compagnie americane), ma anche e soprattutto per utilizzare il greggio come una efficacissima arma contro gli avversari. Avere la possibilità di influire direttamente sul prezzo del greggio decidendo la quantità da immettere sul mercato, significa controllare lo sviluppo di intere aree economiche che dipendono dal petrolio o che di questa materia prima sono grandi esportatori. Ovviamente ci riferiamo a Cina ed Europa nel primo caso, alla Russia nel secondo (sul tema: “Il tesoro dell’Impero” di Lovanio Berardinelli su questo stesso sito nella sezione “Divulgazione”). Se questa politica viene analizzata per quanto riguarda un singolo stato, gli impatti possono essere devastanti: il petrolio può essere usato come una autentica arma di distruzione di massa contro l’Iran che dipende in maniera vitale dall’esportazione del greggio. Far diminuire il prezzo internazionale del petrolio di un 20% significherebbe incidere in maniera drammatica sul prodotto interno di questa nazione (in condizioni già precarie). Uno o due anni di questa “cura” significherebbe diminuzione dei salari, contrazione dei consumi, aumento della disoccupazione. Il tessuto sociale dell’Iran, che soffre di gravi tensioni interne, potrebbe non resistere all’urto di questa nuova prova. I movimenti rivoluzionari all’interno dell’Iran hanno sempre preso il via dalle università di Teheran, i giovani studenti furono i principali artefici della cacciata dello Scià, ed ora appare chiaro che un grave malessere serpeggi di nuovo dentro gli atenei contro l’ala conservatrice degli ayatollah. I servizi segreti americani (che da decenni organizzano colpi di stato nel mondo) potrebbero trovare terreno fertile per far scoppiare, a tempo debito, tumulti e sommosse che si propagherebbero a macchia d’olio. Addirittura potrebbe essere sufficiente questo per un collasso delle strutture statali e un ribaltamento del regime dall’interno. Se non lo fosse, aprirebbe in ogni caso la strada ad un intervento diretto (non necessariamente su ampia scala) degli americani. Ricordiamo le parole di Bush pubblicate dal Washington Post il 23 luglio 2002: “Se al popolo iraniano venisse concesso il diritto di scegliere, sicuramente sceglierebbe la libertà, e non troverebbe un amico migliore degli Stati Uniti nel suo cammino verso la democrazia”. Amen.

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