Info dall’Associazione Slow Food

Difesa delle risorse idriche, il rapporto tra prodotti industriali e naturali, la penetrazione degli alimenti OGM sul mercato europeo. Clarissa pubblica alcuni documenti diffusi dall’associazione Slow Food su questi argomenti.

I SIGNORI DELL’ACQUA HANNO SCOPERTO LA SETE COME BUSINESS

Le risorse idriche sono un bene economico che le multinazionali cercano di aggiudicarsi prevedendo la crescita del loro valore. È la stessa operazione già avviata con indubbio successo anche per le "minerali".
L’attenzione di molti gastronomi e gourmet si sta rivolgendo sempre di più
all’acqua. Fanno tendenza e si moltiplicano i corsi di degustazione di acque
minerali: quale va meglio col pesce, quale ha i giusti livelli di sodio per
accompagnare degnamente un arrosto, quale sgrassa di più la bocca dopo
i "piatti forti", quale permette di esaltare meglio i sapori degli antipasti
leggeri. Consiglierei ai patiti di questa nuova pratica di tralasciare le
loro masturbazioni gustative e di aprire gli occhi sugli stravolgimenti che
sta subendo il nostro pianeta. Mentre nasce questa nuova stirpe di sommelier,
infatti, e mentre i ristoranti più alla moda cominciano a proporre carte
delle acque minerali, poche multinazionali stanno comprando una dopo l’altra
le risorse idriche mondiali. Le francesi Vivendi (che possiede tra le altre
cose Universal Pictures e Canal +), Ondeo (gruppo Suez-Lyonnaise des Eux) e
Danone per esempio, oppure la Nestlé e la Coca Cola, comprano le fonti di
acqua potabile ovunque – in Italia, in Africa, in America Latina – e si
aggiudicano le migliori sorgenti di acque minerali e i marchi
d’imbottigliamento. Sta insomma delineandosi un vero e proprio oligopolio
planetario dell’acqua. Ma perché?

Visto che le risorse idriche mondiali diventano sempre più scarse (l’acqua
sulla terra oggi è il 40% in meno di trent’anni fa a causa dell’inquinamento,
della desertificazione, dell’aumento demografico), nel 1994 si è costituito
il Consiglio Mondiale dell’Acqua (l’ha voluto la Banca Mondiale), il quale si
è posto come obiettivo di stabilire una politica planetaria dell’acqua. Per
farla breve, il risultato degli studi di questo CMA è stato che l’acqua
scarseggia e quindi è un bene economico, commerciabile e da pagare a caro
prezzo. La politica adottata dunque è stata la seguente: bisogna privatizzare
le risorse idriche mondiali per gestirle meglio. Le multinazionali, che hanno
una forte presenza nel CMA, si sono gettate a capofitto. La stessa Banca
Mondiale, negoziando i prestiti nel terzo mondo, li condiziona alla
privatizzazione delle risorse idriche creando situazioni assurde. In Bolivia
nell’aprile del 2000 ci sono stati per strada 6 morti e 175 feriti dopo una
rivolta di contadini che protestavano contro Las Aguas del Tunari (consorzio
di multinazionali che comprende anche Montedison) che aveva comprato
l’acquedotto di Cochabamba: gente che guadagna pochi dollari al giorno e
lotta con la povertà si è vista aumentare le tariffe dell’acqua dal 100 al
300%. Sempre più gente non può accedere all’acqua: se si indagasse a fondo
sulle cause dei conflitti in Palestina e in Kashmir, si scoprirebbe che c’è
una forte disparità nella distribuzione idrica e questo è uno dei punti più
spinosi nel dissidio che si instaura fra le fazioni in campo.

L’acqua genera guerre, non ce n’è abbastanza per tutti e la soluzione, per la
Banca mondiale, è di venderla a quattro o cinque potentati economici. Se
penso al mio amico Raul Hernandez Garcia Diego che vive a Théuacan in Messico
(sede della più importante marca di acque minerali centramericana) e non
dorme la notte per studiarsi le tecniche più strane al fine di rendere
disponibile l’acqua in quantità sufficienti ai contadini, non trovo limite
alle ingiustizie perpetrate nel nome del liberismo. Senza andare tanto
lontano – l’agricoltura intensiva ha una sete mostruosa, per produrre una
tonnellata di cereali con i moderni metodi "redditizi" ci vogliono mille
tonnellate d’acqua – il nostro meridione lotta tutti gli anni con la mancanza
d’acqua e l’ultimo inverno ha insegnato che anche al nord dovremmo andarci
piano con gli sprechi e dovremmo tenere d’occhio questi nuovi oligopoli
multinazionali dai quali non siamo immuni.

Insomma, l’acqua si sta trasformando pian piano nel petrolio di questo nuovo
millennio e dando il via alle privatizzazioni questo processo di
trasformazione si accelera in maniera spaventosa. Per questo voglio
sottoscrivere anch’io il Manifesto dell’Acqua che molte Ong stanno
promuovendo. L’acqua è alla base della vita, è insostituibile, dovrebbe
essere di tutti. Quello che sta accadendo è analogo al fenomeno della
brevettabilità della vita: oggi tutto ha un prezzo, tutto si compra in barba
all’etica, ma chi non ha i soldi come fa? Non credo che Francesco d’Assisi
quando pregava "Laudato sì mi signore per sor’acqua, la quale è molto utile
et umile et pretiosa et casta" per "pretiosa" intendesse che costava molto
cara.

Carlo Petrini

UN BRACCIO DI FERRO SEMPRE PIU’ DURO FRA INDUSTRIA E NATURA

Dopo i tentativi striscianti di legalizzare i vigneti transgenici il gioco degli equivoci arriva addirittura nella scodella della colazione.

La deriva industriale che sta prendendo la nostra agricoltura è sempre più
evidente e preoccupante. Lo dimostrano gli interventi legislativi che si
susseguono a livello europeo e nazionale. Non passa settimana senza che ci
troviamo a commentare leggi assurde, direttive che penalizzano i piccoli
contadini e gli artigiani ancora legati alle stagioni e ai ritmi naturali
della campagna. Sono leggi scritte con il chiaro intento di favorire le
grandi industrie alimentari, che non fanno altro che creare confusione tra i
consumatori, nonché rabbia nei produttori più modesti (soltanto come
dimensioni), i quali sono stufi di vedere diminuire il loro già esiguo potere
concorrenziale. Insomma, sono leggi che non hanno nulla a che vedere con le uniche leggi cui dovrebbe sottostare l’agricoltura: quelle della natura. Ma com’è possibile che lo Stato debba stabilire ufficialmente quand’è fresco il latte? Lo sanno anche i bambini che il latte è fresco da quand’è munto per non più di un paio
di giorni. Non dopo otto o quattordici giorni!

Per carità, non voglio fare il reazionario o il luddista attaccato alla
bucolica campagna che fu, c’è bisogno di regolamentazione perché il mondo è
pieno di furbi, ma la sensazione stavolta è proprio quella di una sonora
presa in giro: la querelle che ha tenuto banco in questi ultimi giorni,
relativa alla durata del latte fresco, rappresenta l’ennesima prova
schiacciante che l’industria governa la nostra agricoltura (e la natura) e mi
piacerebbe che tutti gli italiani si rendessero conto di quel che è successo.
Il Ministro delle Attività Produttive Antonio Marzano ha firmato, nell’agosto
2001, una circolare che recita: "la definizione di latte fresco (che secondo
la legge 169/89 non può durare per più di quattro giorni N.d.A.) non può
ovviamente applicarsi anche ai latti confezionati in altri stati membri
dell’Unione Europea ed avviati verso il mercato italiano". Pronti, via! e la
Parmalat s’inventa "FrescoBlu" il latte che rimane fresco per otto giorni.
Soliti strombazzamenti pubblicitari consequenziali e la massaia è convinta
del miracolo. Ma non è così perché quel prodotto non è latte fresco, è latte
trattato in modo che non vada a male secondo i tempi della natura:
l’etichetta mente, ma può farlo per legge. L’evidenza del tranello è
lapalissiana, non mi dilungherò su quest’aspetto approfondito in settimana da
tutti i giornali. La cosa che mi sembra interessante sottolineare è che siamo
di fronte a un mucchio di gente che parla, parla, e poi razzola malissimo. La
Parmalat, forte dei suoi stabilimenti in tutto il mondo, produce "FrescoBlu"
in Germania e lo vende in Italia, sfruttando quella circolare ministeriale
dell’agosto 2001. Ora capisco meglio cosa intendeva Callisto Tanzi,
presidente della Parmalat, quando è intervenuto a Parma il 29 novembre 2001
al Forum Nazionale sulla qualità alimentare italiana: alla presenza dei
Ministri e del Presidente del Consiglio sosteneva, dopo che tutti avevano
parlato di materie prime e legame con il territorio come requisiti
fondamentali per la qualità, che è necessario decentralizzare le attività
produttive per portare la qualità italiana all’estero.

Decentralizzare per poterci dare "FrescoBlu", ecco cosa intendeva. Capisco cosa intendeva Domenico Barili, vicepresidente Parmalat, al Tavolo
Nazionale per l’Agroalimentare del 28 gennaio di quest’anno, quando diceva al
Ministro delle Attività Produttive che per promuovere la qualità
dell’agroalimentare italiano all’estero è fondamentale l’esperienza di
Parmalat, che ha internazionalizzato l’azienda portandola in 33 paesi.
Intendeva: grazie per la circolare, per "FrescoBlu" abbiamo studiato una campagna pubblicitaria bellissima.

Tutto questo è sempre avvenuto sotto il naso del Ministro delle Politiche
Agricole e Forestali, Giovanni Alemanno, il quale viaggia in lungo e in largo
per l’Italia per conoscere i problemi dell’agricoltura e intanto alle spalle
gli preparano delle belle sorprese. Stessa cosa è avvenuta per la
legalizzazione delle viti transgeniche: Alemanno si trova per la seconda
volta in quindici giorni a rincorrere per riparare ad autogol clamorosi.
La natura è una cosa maledettamente seria, almeno lei non prendiamola in giro
come i consumatori. Loro, se va bene, decreteranno il fallimento di un
prodotto: la natura no, lei potrebbe vendicarsi e allora sì che staremo "freschi".

Carlo Petrini

DECISIONE UE SUL COMMERCIO DELLE VITI TRANSGENICHE

Grave passo indietro dell’UE sulla commercializzazione delle viti transgeniche. Slow Food invita ad attivarsi per salvare il patrimonio vitivinicolo internazionale e per difendere il diritto all’informazione dei consumatori.

Oggi a Bruxelles si approva la direttiva Europea 68/193/Cee sulla
commercializzazione dei materiali di moltiplicazione vegetativa della
vite, aprendo definitivamente il mercato europeo alle viti e ai vini
geneticamente modificati. E’ una sconfitta del buon senso, delle grandi tradizioni del vino italiano ed europeo e dei diritti del consumatore alla possibilità di decidere e di scegliere.

Il provvedimento in approvazione, il cui iter è iniziato già nel 2000,
ha avuto il parere contrario di molte associazioni di categoria, tra i
quali quello del comitato scientifico dell’OIV, (Office International et
Intergouvernamental de la vigne et du vin), e l’opposizione di migliaia
di firmatari da tutta Europa e non solo, che hanno aderito alla campagna
di Slow Food contro le viti GM.

Slow Food invita:

– i Consorzi di tutela delle Doc e Docg d’Italia e i loro omologhi
organismi nel resto d’Europa ad attivarsi per modificare tutti i
disciplinari esplicitando la non ammissibilità di OGM per la produzione
dei loro vini;

– i produttori a battersi per ottenere una legge che garantisca la
trasparenza dell’etichetta e, nel frattempo, a prendere autonomamente
l’iniziativa di indicare che il loro vino è "OGM free";

– l’Associazione delle Città del Vino ad esigere, per le città aderenti,
il divieto della coltivazione di viti GM sul loro territorio;

– i politici italiani a non ritornare indietro sulle dichiarazioni
favorevoli alla moratoria esistente sugli OGM.

Slow Food prosegue l’attività di sensibilizzazione e vigilanza con tutti
i mezzi a sua disposizione e auspica iniziative simili da parte degli addetti ai lavori e degli addetti dell’informazione.

Ufficio stampa Slow Food, Valter Musso, Alessandra Abbona, Paola Nano
tel. 0172 419615, 419666 v.musso@slowfood.it, s.abbona@slowfood.it,
p.nano@slowfood.it. Sito Internet: www.slowfood.it

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