Il tesoro dell’Impero

Molti si sono interrogati sulla ostinata determinazione degli Stati Uniti d’America di muovere guerra all’Iraq. Gran parte di noi sono consapevoli che le motivazioni ufficiali fossero assolutamente inconsistenti. Il vero motivo è il petrolio, si è detto. Tuttavia una riflessione più attenta ci consente, forse, d’interpretare le motivazioni ultime di questo titanico “war game”.

Il petrolio è una risorsa scarsa. La sua disponibilità, nelle quantità richiesta dal mercato energetico, è destinata a ridursi nel tempo fino al suo esaurimento. L’interrogativo cruciale è sul quando.

La nostra società opulenta è fondata sulla disponibilità di energia a basso costo. Il cittadino comune vive in questa convinzione. Per lui è inimmaginabile che il proprio status possa repentinamente modificarsi per effetto della mancanza o carenza di energia.

Le risposte che vengono fornite dalle compagnie petrolifere e dagli organi istituzionali sono d’altronde ottimistiche. Petrolio e gas, affermano, sono presenti in quantità considerevoli, il ritmo delle nuove scoperte è soddisfacente. Quindi nulla turba e turberà il sonno dei cittadini del Pianeta (ed in particolare di quelli che vivono nell’ambito Occidente) per quanto concerne eventuali problemi di natura energetica. L’innovazione tecnologica penserà al resto. Con il trascorrere degli anni verranno individuati altri tipi di energia che gradualmente, senza traumi, sostituiranno quella basata sugli idrocarburi. Il cittadino comune crede in tutto questo.

Forse non è così.

Una recente intervista rilasciata da E. Bernabè (ex ammnistratore delegato dell’ENI ed ancor prima direttore del settore “programmazione e sviluppo della stessa società) pone un serio interrogativo alle facili certezze fin qui propinate.

Secondo l’ex amministratore delegato dell’ENI tutte le maggiori compagnie petrolifere stanno rivedendo al ribasso le proprie stime sull’aumento dell’estrazione petrolifera per i prossimi anni (1) e prevede che entro il 2010 verrà raggiunta la produzione di picco (livello in cui la produzione non riesce più a soddisfare la domanda in costante crescita). Si riducono le scoperte di nuovi giacimenti mentre la domanda di petrolio aumenta del 2/2,5% annuo su base annua. Secondo le stime di questi studiosi (2) finora sono state esaurite riserve petrolifere pari al 45% del totale. Il bistrattato rapporto sui “Limiti dello sviluppo” commissionato dal Club di Roma nel 1972, accantonato perché ritenuto eccessivamente pessimista, torna alla ribalta. Attualmente, molti scienziati e geofisici ritengono, invece, che il rapporto sia ancora valido e se qualche notazione si dovesse fare è per evidenziare il suo eccessivo ottimismo. J. Rifkin nel suo libro “economia all’idrogeno” fornisce un’ampia carrellata di tesi e valutazioni: alcune ottimistiche, altre di segno opposto. Mentre le prime ritengono che verrà raggiunta la produzione di picco entro il 2030/2040 (3), numerosi specialisti forniscono previsioni inquietanti che si allineano a quelle espresse da F. Bernabè. Costoro criticano i criteri seguiti per la stima delle stesse riserve. Notano, per esempio, il salto improvviso avvenuto tra il 1985 e 1986 nelle stime sulle riserve, determinato non tanto per effettive scoperte di nuovi giacimenti, quanto per opportunità politiche seguite da molti paesi aderenti all’OPEC (dove era stata fissata una quota di produzione proporzionale alle riserve detenute). Così anche la constatazione tecnica dei limiti di sfruttamento dei giacimenti (solo una quota percentuale dello stesso, che va dal 50/60% fino all’80% con l’applicazione di nuovi metodi tecnologicamente avanzati, può essere sfruttata) può rappresentare un serio limite informativo per la determinazione della reale consistenza delle riserve petrolifere mondiali. Campbell e Laherrère, due noti specialisti con lunga esperienza “di campo” in importanti compagnie petrolifere internazionali (rispettivamente Fina e Total), prevedono la produzione di picco per il 2010. Altri specialisti sono ancora più pessimisti: Kenneth Deffeyes situa il fatidico picco tra il 2003 e il 2009.

Risulta evidente la valenza economica di queste previsioni. Nel momento in cui l’offerta non sarà più in grado di soddisfare la domanda anche per quantità limitate, l’intera struttura dei prezzi verrà spinta al rialzo. Un aumento vertiginoso dei prezzi, che si estendesse anche ad altri comparti produttivi con inevitabili effetti iperinflazionistici, determinerebbe conseguenze catastrofiche per tutti i paesi che non dispongono di adeguate riserve in loco o il controllo sulla produzione e distribuzione di questo prezioso combustibile.

A riprova di queste affermazioni basti ricordare i riflessi negativi sulla crescita economica che si verificarono nel corso della prima crisi energetica risalente al 1973 (successiva alla guerra arabo israeliana del Kippur).

Le contrastanti valutazioni sulle reali riserve energetiche da idrocarburi rappresentano un sintomatico riflesso del gigantesco intreccio di interessi economici, analisi geopolitiche, illazioni giornalistiche su un tema che, in ogni caso, avrà un peso considerevole sul futuro degli stati e dei suoi cittadini. Non ci proponiamo in questa sede di verificare quale delle due alternative sia più realistica, ma di riflettere sulle problematiche energetiche per disporre di una chiave di lettura sull’intero quadro strategico nel quale la potenza americana intende giocare le proprie carte. In tale prospettiva anche l’opzione energetica, pur rilevante di per sé stessa, rappresenta una (e solo una) delle variabili che diverranno mezzo e strumento per la soluzione di un piano ancora più ambizioso e che ha come posta finale il dominio dell’intero pianeta.

Partendo dal momento in cui si è insediata alla Casa Bianca la nuova Ammnistrazione presidenziale, risulta subito evidente la particolare attenzione da questa rivolta alle problematiche energetiche. Viene commissionato al CFR (Council on Foreign Relations) ed al J. Baker Institute for Public Policy un rapporto denominato “Strategic Energy Challenges for the 21st Century” – Sfide Strategiche di Politica Energetica per il 21° secolo – (4).

Nel 2001 il Vice Presidente Dick Cheney dirige personalmente una task force sull’energia (National Energy Policy Development Group) le cui finalità, contenuti e partecipanti stessi vengono tenuti nascosti. In questo gruppo di lavoro partecipa anche il Dipartimento della Difesa in ossequio alle conclusioni del precedente rapporto “Strategic Energy Challanges for the 21st Century” che “sostiene la legittimità dell’intervento militare pur di assicurare gli approvvigionamenti del petrolio”.

Da queste considerazioni risulta chiaro che il petrolio è divenuto un perno fondamentale della politica estera USA per il 21° secolo. Il fine non dichiarato, ma palese nei fatti, è la conquista di una posizione di dominio nell’estrazione e soprattutto nella distribuzione delle risorse energetiche a livello planetario.

Per assicurare questo risultato l’Ammnistrazione non esita a modificare radicalmente la sua posizione ed i rapporti stessi con gli altri Stati del Mondo, così come quelli con Enti e Soggetti Sovranazionali.

Il documento presidenziale “National Security Strategy” reso pubblico nel settembre 2002 (si veda nella sezione “Documenti” di questo stesso sito) è a questo riguardo emblematico e costituisce un importante anello di continuità con le tematiche energetiche. A prima vista sembrerebbe ideato per supportare il concetto già espresso nel precedente documento “Sfide Strategiche di Politica Energetica per il 21° secolo” ampliando il corredo strategico della superpotenza USA.

La sfida finora intrapresa sembra confermare la priorità alla opzione energetica sviluppata dalla politica americana negli ultimi anni. La carta del Mar Caspio è stata completamente giocata e, a quanto pare, positivamente definita. In effetti gli USA hanno assunto presso questa regione una forte e incontrastata leadership grazie agli strettissimi rapporti instaurati tra Kirghizistan, Uzbekistan e Turkmenistan e le multinazionali petrolifere anglosassoni, nonché il diretto controllo del territorio attraverso le basi militari costruite dopo l’11 settembre. La realizzazione della pipe line che si snoda da Baku al porto turco di Ceyan (recentemente inaugurata) e, con l’occupazione dell’Afghanistan, l’inizio dei lavori per quanto riguarda il nuovo oleodotto che attraversando il Pakistan permetterà di rifornire le petroliere nell’Oceano Indiano (lavoro ovviamente affidato ad una compagnia petrolifera americana) stanno completando il quadro inerente questa regione.

La priorità ora passa al Medio Oriente detentore secondo le stime ufficiali di circa il 60% delle riserve petrolifere mondiali.

L’Iraq ne detiene ca. l’11%. L’Arabia Saudita il 25%, l’Iran il 7% senza dimenticare Kuwait (9%) Emirati Arabi (9%) che sono già di fatto sotto il controllo statunitense (5).

Non stupisce quindi quanto affermato da un analista della Rand Corporation il 10 luglio 2002 al Defense Policy Board (gruppo di consulenza del Pentagono) che vede “.. nell’Iraq il fulcro tattico e l’Arabia Saudita come il fulcro strategico….” (6) per un rivolgimento dell’intera regione Mediorientale.

Conquistato l’Iraq (con una vera e propria guerra di stile coloniale), normalizzata l’Arabia Saudita (eventualmente con un rapido “cambio al vertice”), isolata l’unica vera potenza della regione, l’Iran, gli USA disporrebbero di un sostanziale dominio sulle riserve energetiche dell’intero pianeta. A questo si aggiunga la crescente attenzione dell’Amministrazione americana sull’oro nero dell’Africa sub sahariana. Si calcola, infatti, che le riserve nel continente ammontino a circa l’8% di quelle mondiali, concentrate in prevalenza in Guinea, Nigeria, Angola e Sudan. In questa area operano già attivamente numerose compagnie petrolifere americane (Exxon-Mobil Corporation, Chevron-Texaco Corporation, Marathon. Amerada Hess, ecc.) (7). La regione è stata definita strategica già nel marzo 2000 da parte dello IASP (Institute for Advanced Strategic and Political Studies), centro di analisi strategiche costituito nel 1984 a Gerusalemme, vicino alle posizioni del Likud israeliano e che con l’ascesa di Bush alla Casa Bianca ha trovato orecchi attenti anche dalla sponda atlantica.

Una nuova lettura del National Security Strategy può contribuire ad acquisire una visione più ampia ed esaustiva della strategia americana del 21° secolo.

Questa nuova dottrina “…. liquida l’ordine che ha governato le relazioni internazionali fin dal Trattato di Westfalia del 1648” (8).

In effetti viene proclamato il diritto per gli USA di colpire qualunque stato o organizzazione che possa rappresentare un pericolo per la sua sicurezza. Viene proclamato, pertanto, in modo del tutto unilaterale il diritto americano di porsi come giudice in ultima istanza di qualsiasi paese del pianeta senza dare alcuna possibilità a soggetti sovranazionali di valutare tali effettive minacce. Viene teorizzata la “azione preventiva” come strumento di soddisfacimento del bisogno di sicurezza dello stato americano. Ciò in aperto contrasto con quanto stabilito dalla Carta dell’ONU che vieta “l’uso della forza contro l’integrità territoriale e l’indipendenza politica di uno stato” organizzazione a suo tempo voluta dagli stessi USA.

Si assiste in modo parossistico all’esaltazione della forza usata, ovviamente, dall’unico Stato del Mondo che si sente nella condizione etica di esercitarla in quanto “sa” di appartenere alle forze del Bene.

Affermazioni ufficiali di questo tenore costituiscono delle aperte dichiarazioni contro i trattati internazionali, lo stesso diritto internazionale e gli organismi sovranazionali, cioè gli strumenti realizzati nel corso di secoli ed in particolare durante l’ultimo cinquantennio per assicurare un sistema di partecipazione democratica di stati liberi alle questioni internazionali. L’intento, quindi, sembrerebbe rivolto all’annientamento della potestà delle stesse Organizzazioni Sovranazionali, ONU in primis, ma anche la stessa NATO (sempre voluta dagli stessi USA) ed altre dove almeno formalmente tutti gli Stati dispongono di pari dignità.

L’opzione militare, o di altro genere, destinata comunque al raggiungimento di obiettivi di supremazia e/o di imposizione su altri stati (9) diventa per la superpotenza americana un normale strumento di politica internazionale.

Il “National Security Strategy” sancisce la nascita dell’Impero Americano. Almeno formalmente. Di fatto la radicalizzazione della politica americana ha iniziato ad esprimersi già nel corso dell’ultimo decennio del 20° secolo. La guerra del Golfo nel 1991, la guerra alla Serbia nel 1999 rappresentano fatti emblematici e utili sperimentazioni per tracciare in modo sempre più definito e puntuale questo nuovo Ordine Mondiale.

In considerazione della sua assoluta supremazia militare, la leadership tecnologica, l’egemonia economica finanziaria, l’Impero si propone il dominio del pianeta.

Utile a questo proposito è l’analisi del documento predisposto da Paul Wolfowitz e Lewis Libby “Pentagon Defence Planning Guidance” e le tesi sostenute dal PNAC (Project for a new American Century).

Possiamo ravvisare questa evoluzione della politica americana, con il passaggio da uno stato di “primus inter pares” assunto nel corso dell’ultimo decennio dagli USA a quello di “dominus” per l’attuale corso storico.

D’altronde, come qualsiasi Impero, il potere viene ricercato e assimilato secondo una duplice finalità: la conservazione nel tempo e la gestione in termini monopolistici. Quest’ultimo aspetto è da intendersi come l’assoluta indisponibilità a condividere il potere con altri soggetti (stati) anche se posti in condizioni di relativa inferiorità.

Se non ci sono dubbi sulla nascita dell’Impero, altrettanto ovvia è la necessità da parte di questo di rafforzarsi e potenziarsi in una prospettiva di medio/lungo termine ricercando e acquisendo nuovi strumenti di supremazia.

L’egemonia sulle fonti energetiche risponde pienamente a questi obiettivi e diventa un fattore di competizione e di controllo economico a livello planetario indispensabile per una politica imperiale. Costituisce il quarto fattore di competizione geopolitico che va ad associarsi sinergicamente agli altri tre già menzionati: supremazia militare, leadership tecnologica, controllo dell’economia e della finanza.

Le economie dei paesi industrializzati e quelle dei paesi arretrati, ma caratterizzati da alti tassi di sviluppo quali India e Cina in particolare, necessitano di notevoli importazioni di petrolio e gas naturale per assicurare il sostenimento energetico delle rispettive economie.

La centralizzazione delle risorse energetiche diverrebbe, pertanto, lo strumento per un efficace, costante e pervasivo controllo su tutte le potenze regionali che al momento sono ancora in grado di contrastare la volontà imperiale seppure in misura parziale e limitata.

Il petrolio diverrebbe una formidabile leva in mano all’Impero per disporre di un potere monopolistico a livello planetario che rappresenta la condizione essenziale per la sua conservazione nel tempo.

Questa esigenza strategica è particolarmente inquietante se rivolta all’U.E. e alla Cina.

Nel primo caso, molti analisti in particolare americani ( e ciò , forse, non è un caso) concordano nel ritenere l’Occidente, costituito fondamentalmente dal Nord America e dai paesi dell’Europa occidentale, non più come una civiltà omogenea indirizzata al raggiungimento di analoghi fini e dunque destinata ad una inevitabile alleanza(10). Essi mettono in rilievo le differenze che separano sempre più la civiltà anglossassone da quella europea (continentale) e gli interessi antitetici che le dividono e contrappongono. E’ sufficiente pensare a quelli più noti: gli accordi di Kyoto, la giurisdizione del Tribunale penale internazionale, l’aumento delle tariffe doganali americane sull’acciaio, il sistema di difesa missilistica nazionale, l’abrogazione del Trattato ABM da parte degli USA, l’unilateralismo di Washington, il ruolo della Turchia nel mondo occidentale, ecc. (11). Gli stessi sono concordi nel ritenere che la realizzazione di una Europa Unita non solo in termini economici ma anche istituzionali e politici possa manifestare sempre più le differenti nature ed i diversi orientamenti tra il Vecchio Continente e gli USA.

Questo rappresenterebbe un pericolo per l’Impero. La nascita di una potenza dimensionalmente analoga (a livello economico/finanziario ed in termini culturali) a quella americana ricondurrebbe ad una logica multipolare, inaccettabile per una visione imperiale.

Tornando all’egemonia sulle risorse energetiche, questa leva potrebbe venire usata in modo diretto per un effettivo ridimensionamento della potenza economica europea (minore crescita economica per effetto dei maggiori costi energetici). Oppure, tesi ancora più probabile, l’approvvigionamento di idrocarburi potrebbe sottostare a logiche “politiche” dove gli stati “amici”, termine molto usato dall’Impero che sottintende una visione dei rapporti internazionali sempre più imperniata sul bilateralismo asimmetrico, verrebbero premiati per la loro docilità ai desiderata del gigante americano. A questo proposito è significativo l’articolo di J. Hulsman “Cogli la ciliegina, l’America usa la debolezza europea” pubblicato in Limes 1/2003, dove l’autore indica come presumibile elemento disgregatore del disegno europeo quello di costruire un’area globale di libero scambio dove anche gli eventuali paesi europei possano aderire (si indica, tra l’altro, quale finalità strategica, quella di disporre di un’Europa né troppo debole né troppo forte e, ancor di più, il timore per qualsiasi evoluzione europea in senso istituzionale, di politica estera e di sicurezza comune). Sono facilmente prevedibili quali ulteriori contrasti e antagonismi introdurrebbe una tale politica in una Unione già ora piuttosto fragile e frammentata.

In definitiva un quadro di questo tipo che perduri per diversi anni equivarrebbe a far abortire qualsiasi reale velleità europea di riacquistare la propria autonomia politica. Senza una propria identità politica, l’Unione, ammesso che in un contesto così drammatico si possano contenere anche eventuali tendenze centrifughe, si ridurrebbe ad un’area di libero scambio economico e finanziario funzionale agli interessi della globalizzazione.

Con riferimento alla Cina, ci si potrebbe limitare a questa considerazione: la scommessa dell’attuale direzione politica è quella di dotare il paese, nell’arco di pochi anni, di una struttura economica moderna e da paese industrializzato. La scarsità di energia limiterebbe drasticamente le possibilità di sviluppo futuro. Di conseguenza, il possibile sorpasso del PIL cinese rispetto a quello americano entro il 2020, verrebbe per molti altri anni ancora procrastinato se non definitivamente escluso con immaginabili conseguenze anche sulla attuale leadership interna. Ciò equivarrebbe a contenere le potenzialità cinesi entro dei limiti che sarebbero perfettamente congeniali agli interessi americani. La Cina diverrebbe un vastissimo mercato perfettamente inserito nell’economia globalizzata (avendo, tra l’altro aderito anche al WTO), con un reddito pro capite di medio livello, caratterizzato dalla presenza di valide risorse umane che verrebbero destinate per lavorazioni a medio basso contenuto tecnologico e valore aggiunto complementari agli interessi delle multinazionali occidentali, orientate alla delocalizzazione manifatturiera e del terziario avanzato. Il probabile cambio al vertice ed una prevedibile democratizzazione della società completerebbero il quadro di una potenza demografica di primaria importanza che ha mancato il suo obiettivo economico senza il quale vengono meno anche gli obiettivi di crescita nel campo della ricerca e dell’innovazione tecnologica nonché del potenziamento militare. Tutti elementi, questi, di assoluto rilievo per poter accarezzare l’obiettivo di divenire una potenza regionale nonché uno dei protagonisti principali del Pianeta, fine a cui l’attuale dirigenza politica fa espresso riferimento.

La politica di “contenimento” e “indebolimento” verso le attuali potenze regionali verrà concretizzata subito dopo che gli USA avranno completato il proprio intervento nel Medio Oriente per instaurare la loro leadership. Gli USA comprendono che il tempo gioca a loro sfavore, non solamente per le ragioni addotte poc’anzi per Cina e Unione Europea, ma anche per la relazione inversa che lega la strategicità del petrolio al passare del tempo. Infatti, proprio l’Europa (conscia della sua vulnerabilità energetica), è impegnata nella ricerca di valide alternative all’uso degli idrocarburi ed in particolare del petrolio e vede nel futuro la possibilità di affrancarsi da tale dipendenza.

Il decisionismo dell’Amministrazione americana, che viene scambiato in modo superficiale per arroganza e tradizionale mancanza di diplomazia del partner d’oltre Oceano, diventa invece il mezzo più efficace per raggiungere gli obiettivi prefissati ma anche per lanciare dei chiari messaggi alla Comunità internazionale “consigliata” a non ostacolare le operazioni intraprese e ad accettare la visione unilaterale dell’Impero.

Nota 1) Il manifesto 11/02/03 di Francesco Piccioni

Nota 2) Il manifesto 2/01/03 Francesco Piccioni

Nota 3) J. Rifkin, Economia all’idrogeno p. 17.

Nota 4) Il manifesto 21/02/03 p.18 di Ritt Goldstein
Nota 5) Il Sole 24 ore p.7 5/3/2003 di M. Platero

Nota 6) Il Manifesto del 21/2/03 di Ritt Goldstein

Nota 7) Le Monde Diplomatique gennaio 2003 pag. 15

Nota 8) International Herald Tribune 3/10/2002 di William Pfaff, articolo menzionato da M. Blondet p. 163 “Chi comanda in America”.

Nota 9) Si consiglia, a questo riguardo, la lettura di “Guerra senza limiti” di Q. Liang e W. Xiangsui a cura del Generale F. Mini, Libreria Editrice Goriziana.

Nota 10) Il manifesto pag. 24 del 6/12/02 di Kupchan

Nota 11) Limes 1/2003 pagg. 141 e segg. Di J. Hulsmanp

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