E Bruce Willis bombardò Baghdad

Hollywood, i media, l’Iraq, la guerra: l’informazione e l’arte non si limitano più a raccontare o interpretare i fatti, ma li influenzano o addirittura li creano.

Lo scorso anno (24 luglio 2002), è apparso su Le Monde un articolo di Samuel Blumenfeld dal titolo “Il Pentagono e la Cia arruolano Hollywood”. I legami tra la filmografia popolare americana e i sentimenti patriottici sono sempre esistiti, ma dopo l’11 settembre questi rapporti sembrano entrati in una fase evoluta e complessa. Nel periodo classico, infatti, i film di guerra prodotti a Hollywood avevano soprattutto un carattere celebrativo, e durante gli anni reaganiani i produttori sembravano piuttosto “odorare” il vento e di conseguenza sfornavano film e personaggi che accompagnavano le tendenze della politica e della società (per fare un esempio, ci riferiamo al “Rambo” di Sylvester Stallone, che da reduce del Vietnam disadattato ed emarginato del primo episodio, diventa un autentico “freedom fighter” nei successivi sequels.)

Nell’articolo di Blumenfeld si mettono in luce alcuni aspetti ulteriori e, se si vuole, piuttosto inquietanti. Dopo l’11 settembre, il film di guerra sembra tornato “di moda”, tanto da rappresentare 1/3 dei film prodotti. E non sono più film di guerra classici (di denuncia o meno, ma comunque film con intenti di ricostruzione storica o sociale, dai classicissimi “Il giorno più lungo” sullo sbarco in Normandia, al corrosivo “Il dottor Stranamore” di Kubrik, fino ad “Apocalypse Now” o “Platoon” sulla tragedia del Vietnam). I nuovi film sembrano inserirsi in una sorta di progetto sociologico tendente a creare modelli che lo spettatore americano medio ritroverà poi (con linguaggi del tutto simili) nei telegiornali e nelle corrispondenze degli inviati nelle guerre vere. Ed allora ecco che attraverso quello strumento potentissimo che è la narrazione emotiva, si ingenerano nella psicologia dello spettatore paure, desideri di rivalsa e vendetta, accettazione di schemi culturali. Non è un caso che nei film della nuova generazione si mescoli guerra e terrorismo e che gli Stati Uniti siano costantemente sotto la minaccia catastrofica da parte di gruppi terroristici come nel recente “The sum of all fears” [1], un film Paramount tratto da un romanzo di Tom Clancy con Ben Affleck e Morgan Freeman, dove i cattivi fanno esplodere una bomba nucleare. Il film, di grande successo popolare negli Usa, diventa anche l’ambientazione per un videogame, con una penetrante capacità educativa che non si limita alle due ore della visione ma diventa addirittura un compagno di gioco per i ragazzi.

L’arruolamento di Hollywood da parte degli apparati militari si propone come strutturale. Riportiamo un passaggio dell’articolo di Blumenfeld che ci ha particolarmente colpito:

“Poco dopo l’11 settembre, l’Istituto per le Tecnologie creative dell’Università della California del Sud, sponsorizzata dal Pentagono, organizzava una serie di incontri con lo sceneggiatore Steven de Souza (autore di “Trappola di cristallo” e “58 minuti per morire”) e i registi Joseph Zito (“Delta force” e “Invasion USA”), David Fincher e Spike Jonze. L’oggetto di queste riunioni, dirette dal generale Kenneth Bergquist, era di immaginare lo scenario di attacchi terroristici e mettere a punto eventuali risposte.”

Il nome di Steven de Souza sembrerà ai più assolutamente sconosciuto, è invece l’autore di un film fondamentale nella storia del cinema d’azione americano contemporaneo, quel “Trappola di cristallo” (pessima traduzione dell’originale “Die Hard” = “duro a morire”) che è una sorta di vademecum su come si scrive un film d’azione, e che, malgrado sia un film del 1988, è ancora oggi una delle pellicole più domandate nei videoclub americani (come riportato dal Washington Post del 3 ottobre 2001).

Eppure, leggere che de Souza fosse stato “arruolato” dal Pentagono, non ci ha sorpreso affatto, è stata solo la conferma di una constatazione che avevamo fatto durante l’ultima campagna irachena. Ci era sembrato infatti che i media ufficiali (sapientemente indirizzati dalle fonti militari americane) avessero, nel raccontare la guerra, utilizzato a piene mani i cliché e gli espedienti emozionali/narrativi impiegati da de Souza in “Die Hard”. Insomma, i media americani hanno raccontato la guerra agli spettatori come un film, e non uno qualsiasi, un film di cui loro conoscevano perfettamente (evidentemente anche in modo inconscio) il linguaggio, la struttura, le emozioni, un modo che gli era, dunque, in qualche modo familiare.

Questa non è, in tutta evidenza, una scelta casuale o neutra, rivestendo molteplici ripercussioni. Prima di tutto esiste una intenzione rassicurante: se lo spettatore assiste alla guerra come in un film, allora la guerra diventa un film. Pertanto, come accade nei film, i morti (di una parte o dell’altra) fanno meno impressione, le vittime scompaiono nell’oblio della successiva inquadratura, il dolore e la distruzione sembrano parte di un videogame (appunto), e le cose brutte terminano quando finiscono i pop-corn. In secondo luogo, lo spettatore tenderà ad accettare in modo acritico ciò che gli viene narrato, proprio perché gli sembrerà normale, già visto e interiorizzato. Insomma, tutto ciò che è fiction, tutto ciò che è costruito a tavolino, sembrerà assolutamente naturale e realistico, e paradossalmente, i fatti veri sembreranno scomodi e fuori posto, in fin dei conti: inaccettabili.

Ripercorriamo dunque alcuni momenti decisivi della narrazione cinematografica di “Die Hard”, film del 1988 per la sceneggiatura di Steven de Souza e la regia di John McTiernan, rimanendo parallelamente sulle tracce della cronistoria della seconda guerra del Golfo.

Il sergente della polizia di New York, John McLane (Bruce Willis [2]), si trova in trasferta a Los Angeles ospite della moglie Holly (l’attrice Bonnie Bedelia). Holly è una donna in carriera presso gli uffici di una multinazionale nel settore delle costruzioni, la Nakatomi, con casa madre in Giappone. Durante la festa di inaugurazione della sede di Los Angeles, il grattacielo Nakatomi, appunto, un gruppo di terroristi irrompe nel palazzo e prende in ostaggio tutti gli invitati (da qui il titolo della versione italiana “Trappola di cristallo” [3]), solo John McLane riesce a sottrarsi alla cattura per una fortuita coincidenza.

I primi venti minuti del film sono estremamente lenti (soprattutto in riferimento alla spasmodica sequela di sparatorie del seguito) e servono a delineare la psicologia dei personaggi: John Mclane è un poliziotto duro ma dal cuore tenero e dotato di un sense of humor particolarmente beffardo [4]. In perenne crisi con la moglie Holly, per la quale nutre, da buon maschilista, un amore/odio per la sua capacità di affermazione nel mondo degli affari, è un uomo pratico e con saldi valori morali [5], insomma capace di portare amorevolmente nel portafogli la foto dei propri figli e nel frattempo bucherellare di proiettili il terrorista di turno. Appare chiaro il tentativo (perfettamente riuscito) di delineare il carattere dell’americano medio con in più una dose di eroismo e un alone di “spirito della frontiera”, così da innescare un processo di immediata identificazione col “buono” del film.
L’inizio rallentato consente di delineare altre due figure, apparentemente secondarie, ma dal fondamentale significato politico per l’economia della narrazione. Si tratta di due ostaggi, il signor Takagi, presidente del Nakatomi, uomo serio e ricco di umanità, ed Ellis, un collega di Holly, subito rappresentato come arrivista cinico e perfido che, ovviamente, cerca di insidiare la moglie del nostro eroe. Entrambi, pur essendo personaggi agli antipodi, moriranno in maniera del tutto simile, rappresentando, come vedremo, snodi fondamentali della vicenda.

La prerogativa di un “inizio lento” è tipica nella costruzione delle cosiddette “crisi internazionali”. Il pubblico americano è sostanzialmente poco informato (se non addirittura ignorante) su quello che accade fuori dai propri confini: ha sempre bisogno di alcuni mesi per metabolizzare una situazione internazionale e capire che la Nazione sta magari per scatenare una guerra, ha insomma bisogno di tempo per “delineare la psicologia dei personaggi”. Questo è sempre accaduto nelle ultime guerre: la prima campagna del Golfo, l’intervento in Jugoslavia [6], e addirittura anche per la seconda guerra del Golfo malgrado si trattasse di un (cinematograficamente parlando) sequel. Unica eccezione è stata la guerra in Afghanistan, con un lasso di tempo piuttosto breve tra il casus belli e l’intervento, ma in questo caso l’evento scatenante (l’11 settembre) era fin troppo chiaro e i nemici ben delineati tanto che ulteriore trascorrere di tempo risultava superfluo.

È chiaro che esistano precisi intenti politici e diplomatici dietro la scelta di gestire le crisi internazionali come escalation di tensione, ma la gestione mediatico/spettacolare è un elemento non secondario. E se l’inizio è lento, la suspense viene rotta improvvisamente (deve esserlo, altrimenti lo spettatore comincia ad annoiarsi) da un colpo di scena, un evento che ribalti improvvisamente il ritmo.

In “Die Hard” questo evento è l’irruzione dei terroristi che occupano il grattacielo Nakatomi, una irruzione veloce, efficace, crudele, una dimostrazione di potenza [7] e capacità militare che non può che suscitare timore e perversa fascinazione. I terroristi, capeggiati dal fantomatico Hans Gruber, devono necessariamente dimostrare il loro osceno valore: l’America non può affrontare nemici di secondo ordine, tutti i nemici degli Stati Uniti sono “diabolici”, dittatori “senza precedenti”, esseri “malvagi” come il mondo ha mai conosciuto. È facile riconoscere questi profili nella propaganda contro Saddam Hussein, ma anche verso bin Laden o lo stesso Milosevic. L’effetto voluto è decuplicare le loro capacità di offesa e ingigantire le paure irrazionali del pubblico: quando la vittoria sarà assicurata, sarà stata una vittoria epocale, del “bene contro il male”, un trionfo… Per quanto riguarda l’aspetto più tecnicamente narrativo, il colpo di scena che improvvisamente spezza la tensione e fa dire finalmente: ecco, comincia il film!, è stato offerto al pubblico americano dell’ultima guerra in Iraq dal bombardamento su Baghdad alle prime luci dell’alba. Scaduto l’ultimatum, tutti avevano atteso inutilmente lo scoppio delle prime bombe, ed ormai ci si era rassegnati al fatto che lo spettacolo sarebbe stato rimandato alla notte successiva. Invece, mentre gli spettatori europei erano andati a dormire già da ore, ecco che in pieno prime time americano [8] una tempesta di fuoco si abbatte sulla capitale irachena. “Abbiamo cercato di uccidere Saddam con un attacco mirato utilizzando informazioni di intelligence” diranno poi i vertici militari per spiegare l’accaduto. Possibilissimo, ma è altrettanto certo che l’espediente narrativo è stato sapientemente dosato e adoperato.

Una trattazione particolarmente attenta deve essere svolta sulle vicende degli ostaggi. L’intera trama del film può anche essere raccontata come una sorta di meccanismo a scatole cinesi, in cui i terroristi tengono in ostaggio dei civili e le forze di polizia assediano i terroristi. John McLane è lasciato scorazzare come un guastatore fra queste linee di contrapposizione. Come si accennava precedentemente, due degli ostaggi diventano figure emblematiche: entrambe vengono spietatamente uccise mentre McLane assiste impotente, anzi, Ellis è ucciso appositamente nel tentativo di convincere lo stesso McLane a lasciarsi catturare. In entrambe le situazioni la drammaticità è sottolineata dal senso di colpa che pervade il nostro eroe, ma la sua purezza è intatta. Nel primo caso ci viene fatto assistere ad una sorta di autoanalisi: “Perché non hai fatto qualcosa per impedirlo?” ripete tra sé McLane… e ovviamente ci (e si) fornisce subito la risposta, “ragiona, ragiona… perché altrimenti avrebbero ucciso anche te!”. Anche nel caso di Ellis, personaggio perfido per il quale lo spettatore non nutre simpatia, è comunque fornita una giustificazione (e qui il gioco è addirittura scoperto). Tutta la situazione è stata ascoltata via radio dalla polizia fuori dal grattacielo, e ovviamente commentata: mentre l’ufficiale ottuso critica il comportamento di McLane, il poliziotto buono che tiene i contatti con lui lo assolve: “Ma, Cristo, capitano! Non sa leggere tra le righe? Non capisce che ha fatto di tutto per salvarlo?” dice.

Questi schemi sono ripercorribili per la comprensione di fatti avvenuti durante la guerra, le cosiddette “stragi al mercato” in cui molti civili sono rimasti uccisi per due missili caduti fuori bersaglio. Anche per l’Iraq i media avevano costruito un “meccanismo a scatole cinesi” con Saddam Hussein che teneva in ostaggio l’intero popolo iracheno, e gli americani che assediavano Saddam nel tentativo di liberarli. Ora, di danni collaterali ce ne sono stati molti (alcune migliaia di vittime civili secondo stime indipendenti), ma, fra tutti, solo i morti del mercato hanno avuto una risonanza mondiale. C’è subito da dire che quelle stragi non sono affatto avvenute dentro mercati ma semplicemente su strade di quartieri residenziali con negozi, ma la notizia “strage in un mercato di Baghdad” offre l’immediata immagine di una carneficina, di povere donne massacrate mentre stanno facendo la spesa, molto più che il bombardamento di operai in una fabbrica di trattori [9]… senza trascurare che l’impressione causata dalla strage nel mercato di Sarajevo, durante la guerra di Bosnia, ha ancora oggi una presa drammaticamente immediata nell’immaginario collettivo. Ebbene, quei morti hanno lo stesso significato degli ostaggi sacrificati nel nostro film, per essi valgono le stesse giustificazioni: sono morti per un bene più grande! abbiamo fatto di tutto per salvarli! gli errori non si possono totalmente eliminare, se non agivamo, loro avrebbero ucciso noi! Ebbene, il meccanismo psicologico è semplice: se è evidente che molti morti civili in una guerra ci saranno, mostriamoli noi prima che lo facciano altri, e facciamolo al momento opportuno, in modo che, narrativamente, li possiamo giustificare come limitati e tristemente necessari. Ecco che una tragedia imbarazzante diventa un episodio utile.

Da un altro punto di vista, l’uso strumentale degli ostaggi appare ancora più cinico con la vicenda (magnificamente hollywoodiana) del soldato Jessica Lynch. Mentre nel film la massa degli ostaggi era impersonato dal volto della sola Holly, e tutti gli sforzi di McLane sono in fondo indirizzati alla sua liberazione, così, nella coscienza del pubblico americano, la vittoria finale venne sapientemente associata dai media e dalle notizie lasciate trapelare dai militari, alla liberazione della povera e sfortunata soldatessa. E infatti, nel film come nella campagna irachena, McLane e le truppe di occupazione soffrono, vengono ferite, incontrano difficoltà, rischiano la sconfitta… finché non giunge, come uno squillo di tromba, la liberazione di Jessica/Holly a decretare l’inizio della riscossa finale. Da quel momento le truppe americane non incontreranno più la resistenza tenace delle prime due settimane, l’armata di Saddam svanisce e lo stesso assedio di Baghdad si rivela inutile. È bene ricordare a chi non ne avesse avuto notizia, che reportage giornalistici realizzati dopo la guerra hanno documentato che l’intera storia di Jessica Lynch è stata creata e sceneggiata a tavolino, che Jessica era rimasta ferita in un incidente automobilistico, che non è mai stata catturata dalle milizie irachene, mai torturata o seviziata, e che anzi, ricoverata e curata in un ospedale civile, venne riportata in ambulanza verso le linee alleate ed incredibilmente rimandata indietro. La stessa liberazione non è stata un’ardita azione delle Forze speciali, ma un semplice prelievo (avvenuto al momento opportuno) dopo che l’ospedale era stato evacuato. [10]

Altri aspetti curiosi e apparenti coincidenze possono essere messe in risalto continuando nel parallelismo, vediamo quali.

La sindrome dello zio Tom. Uno schema piuttosto tipico della filmografia americana, è quello di affiancare al protagonista (generalmente un bianco) un caratterista di colore (che qui definiamo negro buono, riprendendo il classico romanzo americano “La capanna dello zio Tom”). Questa tecnica ha avuto la sua consacrazione con la serie tv “Miami Vice”, in cui il detective bianco (wasp) Sonny Crocket (Don Johnson) è coadiuvato dal nero Ricardo Tubbs (Philip Michael Thomas). L’idea della coppia interrazziale, nata così a metà degli anni ’80, viene riproposta con successo in “Die hard” episodio I e III [11], e diventa strutturale in un’altra serie di successo, “Arma letale” con Mel Gibson. Tutte queste unioni hanno delle caratteristiche ben specifiche e schematiche, funzionali a raggiungere una serie di obiettivi. Primo (funzione commerciale): con due personaggi così assortiti si raggiungono due target di pubblico differenziati. Secondo (funzione consolatrice): lo spettatore bianco è gratificato dal fatto che il personaggio con cui si immedesima sia talmente benevolo da accettare un compagno di colore… purché, terzo (funzione del dominio): sia chiaro che il protagonista resta il bianco, è lui l’eroe e lui soltanto… per cui, quarto (funzione educatrice): allo spettatore afroamericano viene detto chiaramente che può essere un negro buono e quindi essere ammesso nella società dei bianchi, nella misura in cui accetti di restare, in ogni caso, in secondo piano.

Fatte queste dovute premesse, bisogna specificare che il negro buono è un personaggio assolutamente positivo e benevolo, generalmente un padre di famiglia, dotato di grande buon senso e comprensione, forse un po’ troppo remissivo. In “Die hard” è impersonato da un corpulento sergente [12] che tiene i contatti via radio tra la polizia assediante e McLane all’interno del Nakatomi. Questo tra l’altro consente tutta una serie di espedienti narrativi, per cui la scena può essere continuamente ribaltata fra interno ed esterno, ed alcuni passaggi psicologici, come gli sfoghi emotivi, possono essere raccontati al pubblico attraverso il meccanismo della radiocronaca.

Lo schema della sindrome dello zio Tom è stato utilizzato perfettamente dalla comunicazione politico/militare in entrambe le guerre del Golfo. Nel ’91, il generale Norman Schwarzkopf fu affiancato dal capo di stato maggiore Colin Powell… e il ribaltamento dei ruoli è stato illuminante. Se infatti per la gerarchia militare (e la catena di comando dovrebbe essere sacra) Schwarzkopf era un sottoposto di Powell, sul piano comunicativo era il generale bianco l’assoluto protagonista, guerriero e filosofo, condottiero e scienziato. Powell restava sullo sfondo, bonariamente, come l’uomo su cui si può sempre fare affidamento, solido e comprensivo. Si può pensare ad una casualità… ed invece no, nella recente guerra l’operazione è stata ripetuta nonostante le molte difficoltà. Da un lato Powell era stato speso in un altro ruolo (quella della colomba prima e dell’accusatore poi) e non poteva più ricoprire il personaggio, dall’altro, il comandante sul campo, il generale Franks, era assolutamente privo di comunicativa e dunque inadatto a diventare un altro Schwarzkopf. Ma gli sceneggiatori del Pentagono hanno estratto i conigli dal cilindro: il ministro della difesa Donald Rumsfeld era il perfetto comunicatore bianco, capace di bacchettare nei suoi infuocati interventi chiunque capitasse nel suo mirino: i giornalisti americani troppo critici, gli alleati europei troppo poco alleati, gli infidi amici arabi, e finalmente anche i nemici iracheni. Sul campo era il generale Brooks a tenere le quotidiane conferenze stampa dalla base di Doha, era lui, con fare metodico e rassicurante, a raccontare agli americani l’andamento della guerra giorno dopo giorno. Brooks ha due caratteristiche, è di colore ed è un arabo di origine libanese: un perfetto negro buono.

La caduta di Saddam. Il mondo seppe che la guerra era finita quando tutte le televisioni mostrarono in diretta l’abbattimento della statua di Saddam Hussein. Oggi possiamo ben dire che anche quel episodio venne costruito a tavolino. La folla festante, mostrata con continui campi stretti, era composta da non più di alcune centinaia di persone fatte convenire appositamente. I militari americani che materialmente abbatterono la statua erano in contatto diretto con il comando in Florida (da cui partì immediatamente l’ordine di rimuovere la bandiera a stelle e strisce che un improvvido gendarme aveva posto sulla faccia di Saddam). Tutto si svolse in un limite temporale da prime time televisivo americano (alle 8 di mattina sulla costa orientale, quando gli americani fanno la prima colazione e guardano il telegiornale del mattino). Molti ricordano i problemi “tecnici” incontrati dai guastatori: prima un gruppetto di iracheni armati di scale ed inutile cordame si affannò inutilmente ai piedi della statua. Poi giunsero finalmente i blindati americani che la imbracarono e scardinarono, tanto che i commentatori poterono argomentare che gli iracheni, da soli, non erano stati in grado di abbattere nemmeno l’effige del dittatore. Non sottovalutiamo poi che i ritardi consentirono la creazione dell’evento mediatico, con il montare di una certa suspense ed un picco dell’audience a tutto vantaggio dei networks televisivi. Ma a parte questi aspetti propagandistici, l’emblema della caduta come sinonimo di vittoria è utilizzato anche in “Die Hard” (tra l’altro in maniera stilisticamente esemplare).

Giunti allo scontro finale, eliminate tutte le figure intermedie, si affrontano faccia a faccia, come in un duello western, il capo dei terroristi, Gruber, e il nostro McLane. La lotta diventa fisica e lasciate le armi, i nostri cercano di sopraffarsi vicendevolmente con la sola forza dei muscoli. McLane rischia più volte di soccombere finché non riesce a scaraventare (letteralmente) fuori da una finestra del grattacielo il terrorista. Mirabile la ripresa del volto di Gruber e l’effetto speciale che da una soggettiva stretta ce lo fa vedere cadere lentamente (è un ralenty) nel vuoto [13] col terrore misto a stupore che si dipinge sul suo volto. Subito dopo c’è uno stacco e la folla dei poliziotti e gruppi di soccorso che sta assistendo all’evento, plasticamente ci ricorda la folla in attesa sotto la statua di Saddam, e più in generale i milioni di telespettatori nelle loro case.

Il cattivo giornalista. Quando John McLane comincia la sua personale battaglia con azioni da tipico guerrigliero dentro il Nakatomi, i terroristi non sanno chi hanno di fronte, e soprattutto non sanno che sua moglie Holly è una degli ostaggi. Ma quando la notizia dell’attacco diventa di pubblico dominio e alcuni giornalisti “ficcanaso” si immischiano nella vicenda, ecco che l’identità di McLane e il rapporto di parentela vengono svelati in diretta televisiva, con conseguenze che potrebbero diventare tragiche. I terroristi cercano evidentemente di trarre profitto dal legame affettivo che lega uno degli ostaggi al loro “disturbatore”, e lo usano per far venire allo scoperto McLane ed eliminarlo: il piano ovviamente fallisce e di nuovo insieme, alla fine della vicenda, John e Holly escono dal grattacielo sostenendosi a vicenda e portando addosso i cruenti segni della battaglia… ma invece di godersi il riposo del guerriero e la ritrovata armonia coniugale, ecco che sono subito “aggrediti” da una troupe televisiva, e lo stesso giornalista “ficcanaso” pone loro una tipica domanda sul genere: cosa si prova in questi momenti? La risposta è data da Holly (non più Holly Gennaro, il nome da ragazza usato in azienda, ma di nuovo Holly McLane, come ci tiene a precisare) con un perfetto e massiccio diretto sulla mascella del cronista davanti allo sguardo di stupita ammirazione del marito. E l’unica preoccupazione del cronista, cinico e sfrontato, è quella di chiedere al suo operatore se ha ripreso tutta la scena.

Per l’ultima guerra la copertura giornalistica è stata maggiore rispetto alle guerre precedenti (Afghanistan, Kosovo). Rispetto al ’91, in cui il solo Peter Arnett della CNN forniva corrispondenze da Baghdad, quasi tutte le maggiori testate giornalistiche e televisive avevano i loro inviati sul luogo [14]. Non è sfuggito come due situazioni, l’afflusso di molti giornalisti a Baghdad e soprattutto la presenza di televisioni arabe (come Al Arabia e la più nota Al Jazira), abbia permesso uno spettro informativo leggermente più completo e consapevole rispetto ad altre situazioni. In Italia abbiamo avuto delle buone corrispondenze grazie a Giovanna Botteri del Tg3 o Gabriella Simoni per Mediaset [15], e sempre più spesso le immagini della CNN o di Sky venivano sostituite nelle dirette tv da quelle dei canali satellitari arabi. Ciò nonostante, il quadro globale dell’informazione è rimasto omogeneo, insufficiente e sterile, eppure sono bastate queste piccole increspature per far montare furiose polemiche tra Rumsfeld e i giornalisti americani che cominciavano a criticare la strategia militare dopo due settimane di guerra apparentemente non vittoriosa, e per far aumentare (casualmente?) in maniera tragica il numero di giornalisti uccisi per errore. Sia in Afghanistan che in Iraq, le postazioni delle reti arabe sono state più volte colpite da missili impazziti, e il culmine è giunto con il bombardamento dell’Hotel Palestine, a guerra ormai di fatto conclusa, dove risiedevano tutti i giornalisti occidentali, da parte di un tank dell’esercito americano. Nell’occasione morirono due giornalisti e tutti i testimoni (tutti giornalisti) furono concordi nel denunciare l’attacco come ingiustificato e gratuito. Ma dal punto di vista scenico quel colpo di cannone contro gli operatori dell’informazione aveva, né più né meno, lo stesso valore del vigoroso cazzotto sferrato da Holly McLane al giornalista ficcanaso, quasi un monito a futura memoria sul fatto che anche un minimo di indipendenza giornalistica, in tempo di guerra, non è accettabile.

Nel concludere questa panoramica fra Guerra e Hollywood, pare opportuno far riferimento ad una preoccupante tendenza rilevata nelle pellicole degli ultimi anni. Sempre più spesso, nei film d’azione, gruppi terroristici cercano di attaccare gli Stati Uniti utilizzando ordigni nucleari. Abbiamo già citato il più recente “The sum of all fears”; possiamo inoltre far riferimento a “Broken Arrow” in cui un ufficiale corrotto dell’aviazione (John Travolta) ruba delle bombe atomiche per rivenderle sul mercato nero e ne fa esplodere una come ammonimento; oppure pensiamo ad “Attacco al potere” (1998) con Denzel Washington che sventa una minaccia nucleare portata contro New York da terroristi arabi. Molto interessante in questa pellicola è la risposta data dal potere (impersonato ancora una volta da un generale col volto di Bruce Willis), che contro una campagna di terrore decide di sospendere i diritti civili della popolazione (una sorta di annuncio del Patriot Act post 11 settembre); ci riferiamo ancora a “The Peacemaker” (1997) con George Clooney e Nicole Kidman: l’ambientazione è sempre New York e il terrorista stavolta è un serbo.

È possibile trarre un significato profondo da questa tendenza? Sicuramente si è instillata nel pubblico americano l’irrazionale paura di un attentato di questa tipologia all’interno degli Usa [16], a maggior ragione dopo le Twin Towers. Questo ha già cominciato a pagare in termini di rendita nella comunicazione politica di massa. Quando si chiedeva a Bush di fornire le prove che giustificassero l’attacco all’Iraq, la prova provata, la “smoking gun”, i writers della Casa Bianca confezionarono uno splendido discorso per il presidente. Bush disse che l’inazione era un crimine, poiché dopo l’11 settembre il fumo della “smoking gun” poteva assumere la forma di un fungo atomico. Tale immagine poetica ebbe un effetto emotivo davvero forte presso l’opinione pubblica americana, e fu talmente efficace da fare il giro del mondo. Ma il successo comunicativo non poteva essere così completo se il terreno non fosse stato sapientemente preparato. Poi, come è stato dimostrato, la minaccia nucleare irachena è risultata molto gonfiata, per non dire completamente inventata, ma poco importa, era servita al suo scopo, scopo che si ripresenterà tale e quale quando si dovrà trovare un pretesto per un intervento in Iran (e le polemiche sul programma nucleare iraniano sono già cominciate).

Nel lungo termine, poi, intravediamo un rischio ancora maggiore, e cioè che presso l’opinione pubblica possa farsi strada la familiarità col concetto di guerra atomica, e accettabile il ricorso da parte degli Stati Uniti all’uso di armamenti nucleari come strumento di difesa. Dopo 50 anni di terrore per un possibile olocausto nucleare, si tratterebbe di un epocale cambiamento culturale. Ma la filmografia popolare non è uno dei mezzi più efficaci per questo scopo?

[1] Letteralmente “La somma di tutte le paure”: ci sembra un titolo particolarmente esemplificativo ed evocativo.

[2] Willis era all’epoca già noto negli Usa per la popolare serie televisiva “Moonlighting” (ritrasmessa durante l’estate 2003 su Rai3) in cui interpreta con maestria un detective privato fanfarone e surreale, ma era ancora pressoché sconosciuto per il grande schermo; saranno “Die Hard” e i successivi episodi a rendere Willis una star internazionale.

[3] Forse l’intento era quello di richiamare il titolo di un film di grande successo, “Inferno di cristallo”, interpretato da Paul Newman.

[4] E’ una caratteristica di quasi tutti i ruoli impersonati da questo attore, al punto da creare una tipologia di interpretazione “alla Bruce Willis”; fanno eccezione le recenti e mature prove negli immaginifici “Il sesto senso” e “Umbreakable” di M. Night Shyamalan.

[5] Quelli tradizionali: famiglia, patria, Dio… gli stessi del colonnello Jessep del Jack Nicholson di “Codice d’onore”, legal thriller in ambiente militare con Tom Cruise e Demi Moore. Se “Die Hard” è il classico esempio di film reaganiano, “Codice d’onore” è di stampo nettamente clintoniano.

[6] Addirittura, in questo caso, prima di ordinare i bombardamenti il presidente Clinton fu costretto ad uno discorso televisivo con tanto di cartina geografica per mostrare agli americani dove si trovassero il Kosovo e la Jugoslavia.

[7] Una “dimostrazione di geometrica potenza” avrebbe detto qualcuno in altri tempi.

[8] Dalle 19 alle 22 seguendo i fusi orari dalla costa occidentale a quella orientale.

[9] Durante la guerra in Jugoslavia, gli operai morti nelle fabbriche bombardate non fecero particolarmente notizia. I danni collaterali che gli occidentali videro in televisione furono i profughi albanesi bombardati per errore mentre cercavano di fuggire dalla “repressione” di Milosevic: un altro caso estremamente dimostrativo dei meccanismi che stiamo illustrando.

[10] Come riportato dalla Bbc, The Guardian, e altri canali indipendenti, in Italia, tra gli altri, dalla Repubblica e dal Corriere della sera.

[11] Mentre viene abbandonata nel secondo episodio, casualmente, quello che riscosse minor successo.

[12] Per una incredibile coincidenza (è detto senza ironia), la soldatessa di colore Shana Johnson che venne catturata durante i primi giorni di guerra dagli iracheni e mostrata in televisione, assomiglia fisicamente in maniera impressionante all’attore di Die Hard, tanto da poterne essere la figlia.

[13] Una scena del tutto simile in “Air Force One” dove un gruppo di terroristi russi sequestra l’aereo presidenziale americano e tiene in ostaggio lo stesso presidente (Harrison Ford), finché lui personalmente non si ribellerà alla situazione e nello scontro finale getterà di peso fuori dall’aereo il capo terrorista (Gary Oldman).

[14] Alcuni anche al seguito delle truppe, ma solo “embedded” cioè “incastonati” dentro i reparti armati e quindi sostanzialmente e necessariamente “voci di parte”.

[15] Colgo l’occasione per uno sfogo polemico: Simoni e Macchiavello, altro inviato di guerra, sono pressoché gli unici a potersi senza vergogna fregiare della qualifica di giornalista all’interno di una redazione, quella di Studio Aperto di Italia1, composta altrimenti da raccoglitori di pettegolezzi e rimestatori di cronaca nera. Giordano, il direttore cresciuto alla corte di Gad Lerner, ha confezionato un telegiornale talmente terrificante che gli consentirà sicuramente una prestigiosa carriera: chi scommette che tra qualche anno lo vedremo alla conduzione dei più importanti Tg o giornali nazionali?

[16] E poco importa che un attacco del genere sia tecnicamente impossibile da parte di una entità che non sia uno stato, per costi, tecnologia richiesta e necessità di opportuni test di verifica.

Print Friendly, PDF & Email