Cuba, tra rivoluzione e diritti umani

Il dibattito fra favorevoli e contrari all’esperienza rivoluzionaria cubana si è riacceso nell’ultimo mese, soprattutto in Italia e dentro la sinistra. Clarissa ha deciso di prendere posizione, a suo modo, dialetticamente e senza idee preconcette.

Di seguito troverete due pezzi, di Simone Santini e Georg Huygens. Li pubblichiamo insieme perchè mostrano, a nostro avviso, come sensibilità diverse trovino un facile terreno di incontro se capaci di dialogare con onestà e pulizia. Vorremmo che i lettori di Clarissa partecipassero al dibattito e ci facessero pervenire le loro idee su tematiche che riteniamo fondamentali per il nostro, prossimo, futuro. Inviate i vostri commenti a
: info@clarissa.it.

RIVOLUZIONE E DISSENSO
di Simone Santini

Quando, in seguito alle polemiche sulla repressione del dissenso a Cuba, lessi che Dario Fo lanciava una petizione in difesa del popolo cubano, mi sembrò una buona idea. Cercherò di spiegare perché.

Le vicende di questo ultimo mese mi hanno riportato alla memoria uno dei libri che sono stati fondamentali per la mia formazione culturale e politica. Parlo di “Dieci giorni che sconvolsero il mondo” del giornalista americano (a proposito di antiamericanismo) John Reed, cronaca storica e giornalistica, ma scritta con la passione di un romanzo, della rivoluzione russa del 1917. Dunque mi capitò tra le mani questo volume (ero adolescente) e rimasi subito affascinato dalla foto sgranata di copertina: un Lenin infervorato che da un palco parla alla folla, poi lessi il risvolto e scoprii che questo John Reed era uno dei pochi giornalisti “occidentali” presenti in Russia al momento della rivoluzione (unico americano se non ricordo male), e che, morto soli pochi anni più tardi, venne sepolto sotto le mura del Cremlino a Mosca (unico non russo ad avere questo onore). Si può immaginare con quanta curiosità e gioia seppi che, anni dopo, un altro americano, un attore, stava realizzando un film sulla vita di John Reed (Jack, per gli amici, come seppi poi). Il film era “Reds”, di Warren Beatty, un piccolo capolavoro, che benchè parlasse con simpatia e tenerezza di comunisti americani in, ancora, piena guerra fredda, ebbe un grande successo popolare (tra l’altro vinse molti premi Oscar). Di quel film mi rimase impressa una delle immagini finali: John “jack” Reed, ormai smessi i panni del cronista, è diventato a tutti gli effetti un attivista politico e si trova in Russia come rappresentante americano presso il Comintern (il comitato internazionale che raccoglieva i rivoluzionari dell’epoca). Reed è stanco, sfiduciato, le condizioni di vita in Russia sono pessime, la contro-rivoluzione sta logorando le speranze dei primi anni, probabilmente sta già covando i sintomi della malattia che lo ucciderà da lì a poco (il tifo). Intraprende con altri membri del Comintern un faticoso e lungo viaggio diplomatico nelle Repubbliche asiatiche nel sud della Russia, nella speranza di coinvolgere quei popoli nella rivoluzione sovietica (storicamente questo capitolo ebbe successo, infatti nacque in questo modo l’URSS, Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche). Durante un comizio Reed si rende conto che il significato di alcune sue frasi, nella traduzione, viene sapientemente e scientemente stravolto. Sul treno che li riporta a casa, Reed, furente, aggredisce il funzionario responsabile della missione diplomatica, Zinovev, e gli chiede chi abbia dato l’ordine di cambiare i suoi discorsi. Cinico e ineffabile, come ogni buon alto funzionario di partito, Zinovev gli dice che l’ordine è stato suo, che per il bene della rivoluzione era necessario non dire la verità fino in fondo, ma dire quello che gli altri si aspettavano, smussare gli angoli, appianare le posizioni non allineate. Reed esplode, e urla delle parole fondamentali: la rivoluzione è dissenso, se soffochi il dissenso, soffochi la rivoluzione! Ma non riesce nemmeno a terminare la frase che il vagone su cui viaggiano è sventrato da una esplosione: un gruppo di controrivoluzionari (oggi diremmo terroristi) sta attaccando il convoglio. Tutti cercano di mettersi in salvo, si catapultano fuori, e mentre Zinovev cerca di nascondersi al sicuro sotto il vagone, Reed, completamente disarmato, con gli occhi gonfi di rabbia e febbre di un meraviglioso Warren Beatty, inizia una folle corsa contro un invisibile nemico, tra gli spari e gli scoppi delle granate, affiancato dalle guardie rosse che stanno contrattaccando.

Non ho raccontato questo episodio per semplice gusto cinefilo, è una esemplare rappresentazione, in chiave emotiva, di un dibattito politico che ha attraversato il cuore e le menti degli uomini del 20° secolo: quando la rivoluzione si scontra col dissenso, quando le idee romantiche si scontrano con la faticosa e quotidiana costruzione di una Patria, quando la fantasia va al potere e si scontra col cinismo e la necessaria mediocrità degli uomini grigi. Ebbene, tutti questi temi sono tornati di attualità, in modo triste e luttuoso, per le vicende di tre sequestratori e dirottatori cubani giustiziati, e per le condanne contro esponenti del dissenso, accusati di cospirazione dal regime di Fidel Castro.

Cuba, dunque. Scrive Josè Saramago, premio Nobel per la letteratura, comunista da sempre, sullo spagnolo El Paìs del 14 aprile 2003: “Dissentire è un diritto che si trova e si troverà scritto con inchiostro invisibile in tutte le dichiarazioni di diritti umani passate, presenti e future. Dissentire è un atto irrinunciabile di coscienza. Può essere che dissentire porti al tradimento, ma questo deve essere sempre dimostrato con prove irrefutabili. Non credo che si sia agito senza lasciare adito a dubbi nel processo recente da cui sono usciti condannati a pene sproporzionate i dissidenti cubani. E non si capisce perché, se c’è stata cospirazione, non sia stato espulso il responsabile della Sezione di interessi degli Stati Uniti all’Avana, l’altra parte della cospirazione… Ora arrivano le fucilazioni. Sequestrare una nave o un aereo è un crimine severamente punibile in qualsiasi paese del mondo, ma non si condanna a morte i sequestratori, soprattutto tenendo conto che non ci sono stati morti. Cuba non ha vinto alcuna eroica battaglia fucilando quei tre uomini, ma ha perduto la mia fiducia, ha frustrato le mie speranze, ha defraudato le mie illusioni.” E poi, portando fino in fondo questo suo ragionamento, Saramago conclude con nettezza e amarezza: “Io sono arrivato fino qui. Da adesso in avanti Cuba continuerà la sua strada, io mi fermo”.

Un padre del comunismo italiano, uomo di riconosciuta rettitudine morale da ogni parte politica, Pietro Ingrao, non ha usato parole meno dure nel suo articolo scritto per il Manifesto del 16 aprile 2003: “Le notizie che giungono da Cuba sono allarmanti e non consentono silenzi. Il 3 di aprile si sono svolti in diverse sedi dell’isola processi contro 78 «dissidenti», o – per usare parole più secche – oppositori del regime castrista. Sommando le varie condanne comminate a questi oppositori si arriva a centinaia e centinaia di anni di carcere. Sono cifre agghiaccianti. E per questi processi parlare di rito sommario è un eufemismo un po’ ridicolo. Né si può ingannare noi stessi: è impossibile che in questi veri e propri processi lampo siano stati garantiti elementari diritti di difesa, né ci si sia stata quella necessaria, elementare prudenza, che pure è il sale obbligato, quando si decide sulla libertà o sulla prigionia degli individui e dei gruppi. Gli imputati erano oppositori del regime castrista, anzi – usiamo pure la parola forte – cospiravano contro il regime? E che altro essi potevano fare visto che a Cuba difettano essenziali diritti di parola, di organizzazione, di lotta politica pubblica e riconosciuta? E questo ancora oggi, dopo quarant’anni dai giorni dell’insurrezione armata e della emergenza rivoluzionaria. E inoltre dove sta scritto che anche ai cospiratori in manette – quando non sono in condizioni di nuocere – non si possono, non si debbano concedere elementari poteri e strumenti di difesa? La giustizia – questa parola così solenne e alta – ha bisogno come il pane del contraddittorio pubblico e prolungato. Senza di che l’aula del tribunale diventa una farsa, un inganno feroce.” Dopo la condanna inappellabile, Ingrao cerca di comprendere, ma ancora, il giudizio che ne esce è senza giustificazione di sorta: “Si dirà: tutto questo è necessario a Castro per tutelarsi dai complotti americani. Io temo invece che ciò aiuti Bush a dire: vedete come è indispensabile la superpotenza americana… Io non dimentico ciò che dall’insurrezione cubana è venuto come speranza e simbolo per un Terzo mondo soffocato dall’imperialismo, e anche per la difficile lotta della sinistra anticapitalistica nell’Occidente avanzato… credo di afferrare, di capire quanto ancora oggi Cuba agisca come speranza: prima di tutto per il continente centro-americano in cerca di riscatto, e oltre ancora. E ancor più adesso che la superpotenza americana ha proclamato – dinanzi al mondo – l’avvento dell’era della «guerra preventiva». Ma tanto più se la questione è ormai questa – e si vede sul campo – non possiamo illuderci di superare una tale prova con i processi sommari e le fucilazioni fulminanti”.

Questo dibattito, prevalentemente interno alla sinistra, si è arricchito per la presa di posizione di altri intellettuali che hanno assunto una posizione che potremmo definire, se non giustificazionista, almeno “contestualizzatrice”. In particolare, il giornalista Gianni Minà ha ricordato che se si vuole parlare di diritti umani e libertà a Cuba, bisognerebbe fare lo stesso per molti altri paesi dell’area, in cui questi valori sono stati drammaticamente negati per decenni, e che la presenza e la pressione degli Usa in quel contesto è tale da costituire una sorta di indebita e continua ingerenza negli affari interni di altri stati. Dall’arrivo a Washington della nuova amministrazione, poi, tale ingerenza sarebbe tornata ad essere, nei confronti di Cuba, particolarmente aggressiva e destabilizzante, con tentativi continui di provocazione e minaccia. Minà ricorda poi (in un articolo per Il Manifesto del 3 maggio 2003) che anche il Vaticano, nella persona del segretario di stato, cardinale Angelo Sodano, non ha rinnegato l’apertura di credito concessa da Giovanni Paolo II a Castro con la sua storica visita a L’Avana, e che benchè provando “profonda pena e dolore” per i recenti avvenimenti, il Pontefice è convinto che “il presidente Castro possa condurre il popolo di Cuba a nuovi traguardi di democrazia”. A questa autorevole posizione bisogna aggiungere l’appello firmato da un folto gruppo di intelletuali e rappresentanti della società civile (tra gli altri: Perez Esquivel, Rigoberta Menchù, Luis Sepulveda, Fernando Solanas, Garcia Màrquez, Eduardo Galeano) nel quale si dice chiaramente: “Oggi esiste una dura campagna contro una nazione dell’America Latina… l’assedio del quale è oggetto Cuba può essere il pretesto, infatti, per una invasione. Di fronte a questo opponiamo i principi universali di sovranità nazionale, di rispetto dell’integrità territoriale e del diritto alla autodeterminazione, principi imprescindibili per una giusta convivenza fra le nazioni.”

La difesa più accorata è infine stata fatta, ovviamente, dallo stesso presidente Fidel Castro nel corso di un torrenziale (4 ore) discorso televisivo alla nazione, durante il quale il “Lider maximo” più che difendersi, ha in realtà attaccato. “L’arresto di varie decine di mercenari, che tradiscono la loro patria in cambio dei privilegi e del denaro che ricevono dagli Stati Uniti, e la pena capitale a delinquenti comuni, che (…) hanno sequestrato un’imbarcazioni di passeggeri nella baia dell’Avana, sono stati la conseguenza di una cospirazione ordita dal governo degli Stati Uniti e dalla mafia terrorista di Miami” ha detto Castro, che non ha risparmiato pesanti accuse all’incaricato d’affari americano a L’Avana James Cason, e che ha definito “fascista” l’amministrazione Bush accusandola di cercare pretesti per “un’aggressione militare contro Cuba”. Nessuno è stato risparmiato, nemmeno i massimi esponenti politici spagnoli di governo e opposizione, Aznar e Felipe Gonzales, rei di ipocrisia per aver criticato Cuba dimenticando il comportamento della Spagna verso i Paesi baschi e il suo ruolo nella guerra del ’99 contro la Jugoslavia. Il massimo di autocritica a cui giunge Castro è il seguente: “Cuba è pienamente cosciente del costo politico delle misure che si è vista obbligata a prendere… ci è dispiaciuto contrariare molti dei nostri amici e un gran numero di persone nel mondo, la cui sensibilità… rispetto alla pena di morte conosciamo perfettamente e per molti aspetti condividiamo”. Ma, siamo in guerra, e condanne e pena di morte continueranno: «i sequestratori devono sapere che subiranno processi sommarissimi e non dovranno attendersi clemenza” (virgolettati tratti da Il Manifesto del 27 aprile 2003).

Ho voluto raccogliere queste voci per rendere più chiari i contorni della vicenda, per avere un quadro di prima mano rispetto alle polemiche e alle implicazioni che ne derivano.

Una cosa appare subito chiara (purtroppo, direi, per Cuba e i cubani): che questa isola caraibica sconta oggi il fatto di essere un simbolo, il simbolo della lotta per l’emancipazione del Terzo mondo e contro l’imperialismo, un simbolo per la costruzione di una via alternativa alla globalizzazione culturale ed economica, il simbolo dell’idealismo rivoluzionario di Che Guevara contro il meschino opportunismo dei signori del potere. Che poi di questi simboli esista anche un pur pallido riflesso dentro la quotidiana vita politica e sociale di Cuba… questo è tutt’altro discorso. Certo è che, ancora oggi, io preferirei nascere in una qualsiasi famiglia cubana piuttosto che in Guatemala o Haiti, ma anche nei quartieri ghetto, neri o ispanici, di una qualsiasi città industriale del nordamerica. Spesso si fa riferimento ai livelli della sanità e dell’istruzione a Cuba come esempio di eccellenza relativamente all’area geografica (ma talvolta anche in assoluto), ed in ogni caso, una esperienza statale che difenda prima di tutto le fasce deboli della sua società (anziani e bambini) merita solo per questo attenzione e rispetto. Che poi a Cuba ci sia un regime dittatoriale, sono i fatti a dirlo. E allora, se non fosse un simbolo, quella cubana potrebbe essere una delle tante esperienze politiche, più o meno riuscite, più o meno autoritarie, dell’America Latina. In fondo, e lo sostiene Giuliana Ferrara, se anche Pinochet, trascurando il fatto di aver fatto sparire qualche migliaio di oppositori (ricordate il film Missing di Costa Gavras?), ha fatto qualcosa di buono per l’economia del suo Cile, perché non si potrebbe dire una cosa del genere per il “dittatore illuminato” (espressione di Gabriel Garcia Màrquez) Fidel Castro? Non si può e non si potrà mai dire perché la simbolica Cuba sarà sempre per i suoi detrattori un’incarnazione del peggiore sistema politico possibile, per i suoi ammiratori sarà comunque una speranza da difendere e salvare indipendentemente da quello che accade al suo interno. E per chi cerca di leggere la realtà (e io spero di essere tra questi) con sincerità e obiettività, la Cuba di Castro non sarà mai abbastanza libera, mai abbastanza democratica, mai abbastanza rivoluzionaria. Mi rendo conto di chiedere a questo paese qualcosa che non viene chiesto a nessun altro: dare il benessere, dare la democrazia, dare la libertà, dare il socialismo. E lo chiedo a loro, in fondo, non solo perché ritenga che questo sia un bene per il popolo cubano, ma perché questa speranza, questa idea, serve a me che vivo tutto sommato libero e benestante nella parte fortunata del mondo. Scusa Cuba, te lo dico col cuore, io ti chiedo di essere migliore e più forte degli altri perché ci sono milioni di persone, sia in Occidente che altrove, che hanno bisogno di pensare che esista un posto, su questa terra, dove non tutto è perduto, in cui la possibilità di creare un mondo libero, tra uguali e fratelli, sia ancora una opportunità da perseguire.

Gli oppositori incarcerati erano in gran parte fautori del cosiddetto “progetto Varela”(in onore del sacerdote e uomo di cultura Felix Varela, una sorta di don Sturzo cubano vissuto nell’800) cioè della richiesta di un referendum istituzionale che chiedesse al popolo cubano di esprimersi in merito al ripristino di alcune libertà: di espressione e di stampa, di impresa privata, di associazione politica. Tale richiesta era costituzionalmente legittima, essendo appoggiata dalla raccolta di 10.000 firme, il regime l’ha osteggiata, preferendo chiamare il popolo ad esprimersi su un contro referendum (una specie di plebiscito) che sancisse la immutabilità del sistema socialista. Perché avere paura del progetto Varela (o qualunque altro progetto) se il popolo cubano vuole davvero la sua patria socialista? Perché non sfruttare questa opportunità per contarsi pubblicamente e limpidamente davanti al mondo? E dopo aver vinto quel referendum, alzare la posta in gioco: indire elezioni per costituire una assemblea consultiva del popolo, una tribuna in cui possano trovare voce non solo gli esponenti del partito comunista cubano, ma anche cattolici e liberali, affinchè non siano più costretti a cospirare ma abbiano un organo istituzionale attraverso cui esprimersi. Anche io ho paura, come John Reed, che soffocando il dissenso si soffochi la rivoluzione. Anche io temo, come Pietro Ingrao, che la chiusura dia un pretesto ai veri nemici di Cuba (che stanno a Washington e Miami) per cancellare la sua esperienza politica e sociale.

Nemmeno io amo gli appelli, spesso le situazioni sono troppo complicate per ridursi ad un semplice essere “pro” o “contro”, ma talvolta anche un appello è utile se serve per prendere coscienza di una questione, per responsabilizzarsi e farsene carico (I care, avrebbe detto don Milani). E allora io sarei disposto a sottoscrivere un appello che dicesse:

Esprimo il personale dolore per le esecuzioni capitali comminate a Cuba, esprimo rammarico e delusione per la censura delle libertà di pensiero ed espressione, esprimo solidarietà al popolo cubano nella speranza che riesca a difendere, con sempre maggiore democrazia e partecipazione, la sua rivoluzione.

APPELLO PER I DIRITTI UMANI A CUBA? NOT IN MY NAME

di Georg Huygens

Il mio amico Simone Santini mi ha proposto di pubblicare su CLARISSA un appello per i diritti umani a Cuba. Sono e resto contrario. Cercherò di spiegare il perché.

Innanzitutto, ho passato la giovinezza a sentire appelli per questo e per quello, dal Vietnam alla Cecoslovacchia. Non sopporto gli appelli senza arruolamenti di volontari disposti a morire per quella causa. So che è vietato dalla legge italiana ed europea: ma so anche che in materia di volontari per le cause più disperate noi italiani abbiamo una tradizione non seconda a nessuno. Non conosco persone che si siano arruolate per andare in Vietnam, o in Cecoslovacchia. Qualcuno è andato in Palestina, qualcun’altro in Libano: poca roba, e spesso legata a circuiti terroristici a dir poco sinistri. Conosco invece qualcosa su cosiddetti Freedom Fighters impiegati sotto l’egida angloamericana in Jugoslavia [1], il che mi fa supporre che le leggi siano come la gomma da masticare.
Conseguentemente, lanciare appelli restando a casa mi fa schifo.

Secondo punto: il regime cubano ha fatto fucilare tre dirottatori. E allora? Se il diritto penale di quello Stato prevede la pena di morte (a cui personalmente sono contrario per ragioni spirituali), non vedo il problema. Avevano dirottato un traghetto? Sono stati passati per le armi. Non mi pare che da noi sarebbero stati trattati molto meglio. Le polizie occidentali hanno una lunga esperienza di costruzione di appropriati scontri a fuoco con dirottatori e trrrorists (come dice l’ottimo Bush: quando saprò pronunciare la parola come lui, chiederò la cittadinanza americana – lo prometto), e se sia meglio la pena di morte o l’ergastolo lo lascio decidere a chi ama questo ordine di discussioni. E quanto ai regolari processi, bene, questo è un discorso che in Italia, da Piazza Fontana in avanti, nessuno deve permettersi di fare. L’Italia – sì, l’Italia intera, col suo popolo immemore e la sua innominabile classe politica e culturale – ha perso il diritto storico di dare lezioni di diritto penale a chicchessia, fin quando non venga fuori tutto, ma proprio tutto, su quelli che si sono convenuti chiamare gli anni di piombo.

Terzo punto: i dissidenti. Scusate, ma qui senza informazioni di dettaglio io difese d’ufficio non ne faccio. Non la penso esattamente come il vicesindaco di Empoli Massimo Marconcini (Comunisti Italiani), che ha affermato: “Fidel Castro non è un feroce dittatore, ma un rivoluzionario. Le condanne contro i dirottatori, che il governo cubano ha riconosciuto terroristi, non possono essere assimilate alle esecuzioni per reati comuni, come avvengono nella tanto declamata democrazia americana, ma se si vuole si avvicinano agli episodi di violenza, per altro giustificabile, della lotta partigiana contro i nazifascisti…Le uccisioni sono fatti spiacevoli che spero non si ripetano, ma bisogna anche capire che Cuba sta difendendo la propria indipendenza dalle interferenze della CIA e degli Stati Uniti” [2]. Non la penso come lui, trovo i suoi paragoni storici alquanto spericolati, ma potrebbe darsi che – sui fatti – Marconcini abbia ragione. Anche su CLARISSA si è parlato dell’ineffabile generale Lyman Lemnitzer (vedasi “L’arte di farsi attaccare: L’OPERAZIONE NORTHWOOD” pubblicato su questo sito, n.d.r.), giusto? Gli uomini cambiano, i modelli operativi no, o almeno più lentamente.

Quanto ai 28 anni di galera, ai maltrattamenti e alle galere in genere, consiglio alle anime belle: a) di informarsi sullo stato reale del sistema carcerario italiano e sulle reali procedure di polizia per certe categorie di reati; b) di leggersi quello che dice la Costituzione sulle finalità della detenzione. E poi vedano se hanno ancora voglia di firmare appelli per Cuba.

Idem dicasi, e lo affermo con la massima brutalità, sulla repressione del dissenso e dei reati d’opinione in Italia nell’ultimo quarto del XX° secolo. I sentimentali di turno hanno dimenticato, io no: ricordo molto bene come si lavorava nei riguardi degli opposti estremismi. Ricordo molto bene i “teoremi” e le pratiche conseguenti di certe Procure della Repubblica. Vogliamo poi parlare di quel mostro giuridico ed umano che è stata ed è la legislazione sui pentiti? E quindi, ripeto: non abbiamo più il diritto di dare lezioni a chicchessia.

Pensiamo semmai a cambiare le cose in Italia: poi, magari, possiamo anche salire in cattedra.

Quarto punto: perché si parla di Cuba proprio ora? Pensateci un po’. Perché ci si agita tanto per Cuba e molto meno per la Corea del Nord? Lo lascio alla vostra immaginazione. Io ad ogni buon conto non sono disponibile a fare un favore a chi ha tutte le carte in mano, cioè gli USA, e ne fa un uso a dir poco spregiudicato.

Quinto punto, che intitolerò – in memoria di Tocqueville – “della democrazia in America”. Leggo le seguenti affermazioni di Richard Pipes, direttore del Middle East Forum: “L’Iraq ha quindi bisogno, e lo scrivo con una certa trepidazione [sic], di un uomo forte iracheno, ma di orientamento democratico. Potrebbe suonare come una contraddizione ma è già successo altrove, per esempio con Ataturk in Turchia e con Chiang Kai-Shek a Taiwan”[3].

Scusatemi, ma per scrivere cose del genere ci vuole la faccia come il culo, e l’espressione non è volgare, è tecnica. Su Mustafa Kemal Ataturk ho letto una bella biografia di Jacques Benoist-Méchin [4]. Vero, che ha modernizzato la Turchia e l’ha condotta alla democrazia. Vero che era un grande soldato ed un politico di alta levatura. Vero però che era un sanguinario di prima forza, anche a livello personale: direi un artista della repressione. Studiate, e poi mi saprete dire.

E Chiang Kai-Shek? Il filisteo Pipes parla di Taiwan, notate. Ora, a me pare di ricordare che l’ottimo Generalissimo abbia esercitato anche sul continente, prima di finire a Taiwan. Ora, a me pare di ricordare un romanzo di tal André Malraux, La condizione umana, che allude – forse inesattamente – ad una delle tante operazioni di repressione di Chang Kai-Shek. Da quelle parti si andava a diecine di migliaia di morti a botta. Ma forse il filisteo Pipes non lo sa, e pensa solo al “democratico” reggitore dell’isola di Taiwan: una democrazia, come dire?, diretta (dal Generalissimo e dalla sua bellissima signora).

Sono queste le Democratic Vistas per l’Iraq e, quindi, per Cuba? Si citano due dittatori sanguinari del secolo scorso, come alternativa a Saddam e magari anche a Castro (non è una estrapolazione indebita: ricordatevi della tendenziale costanza dei modelli operativi)? Ma allora era tutto vero, quello che si diceva di Pinochet, dei colonnelli greci, e via discorrendo… Allora è vero che esistono dittatori e dittatori. E perché non parliamo di Franco e di Salazar, questi due perspicui modelli di democrazia, nonché autentici pilastri dell’Occidente – questa espressione bastarda! – : finché hanno fatto comodo, s’intende.

Che si tengano Castro, allora: così come in Iraq tanto valeva che si tenessero Saddam, se l’alternativa deve essere gente con le mani lorde di sangue come Ataturk o Chiang Kai-Schek.

E io dovrei lanciare appelli per i diritti umani e la democrazia a Cuba? Non, merci – come diceva Cyrano de Bergerac.

Un solo appello lancerei a Cuba:

Non fatevi fregare. Inventatevi una vostra democrazia. E fate in fretta. Spuntate le armi dell’umanitarismo imperialista con la massima velocità, senza cedere al modello “democratico” occidentale. Qualcosina potreste trovare nella vecchia Jugoslavia o nella Cina attuale. Partite di lì, o da dove vi pare, per fare una democrazia più rappresentativa di quella occidentale. Non c’è un altro sistema. Dimenticate Marx e tornate a José Martì [5]. Ma – soprattutto – fate in fretta.
E’ Martì che ha detto: “E’ preferibile vincere o cadere senza alcun aiuto piuttosto che contrarre debiti di gratitudine con un vicino così potente” [6]. Un modello cubano, autoctono (per usare una parola cara a Martì), di democrazia è l’unica via per (provare a) salvare l’indipendenza nazionale.
Se no, avete chiuso.

Questi, molto brevemente, i motivi per cui non ci sarà il mio nome sotto appelli ai diritti civili e alla democrazia a Cuba e, sarei tentato di dire, in quasi ogni altro posto. In circa mezzo secolo di vita, agli appelli per i diritti civili ho visto seguire quasi sempre guerre, occupazioni, dittature, anarchia, limitazioni della libertà e della sovranità nazionale in tutte le salse. E, andando più indietro nel tempo, appelli alla democrazia, al progresso, alla modernità, perfino al cristianesimo (?) hanno giustificato di tutto, dal più spericolato nazionalismo ai bombardamenti a tappeto sui civili.

Perciò, quando sento parlare di democrazia, diritti umani e relativi appelli, tocco ferro e comincio a pregare.

E, quindi, ribadisco: not in my name.

[1] C’è anche un bel giallo che sfiora il tema: M. G. DANTEC, La sirena rossa, Hobby&Work, Milano 1997

[2] Corriere della Sera, 28 aprile 2003, pag. 11

[3] Corriere della Sera, 28 aprile 2003, pag. 9. Pipes è una figura della massima rilevanza dell’attuale establishment USA

[4] J.BENOIST-MECHIN, Mustafa Kémal ou la mort d’un empire, Club des Editeurs, Paris, 1959

[5] José Martì (1853-1895): è ritenuto l’apostolo dell’indipendenza di Cuba. Uomo politico, giornalista, poeta, scrittore e pensatore straordinario, cadde nella battaglia di Dos Rìos. E’ spesso paragonato al nostro Mazzini. E’ stato uno dei primi a comprendere in modo straordinariamente vivo l’evoluzione imperialista degli USA. Per attualità ed ampiezza quasi profetica di pensiero è autore che non si può fare a meno di conoscere per capire la storia dell’America Latina. Su di lui, si veda come introduzione: C.VITIER, R. FERNANDEZ RETAMAR, Martì, Erre Emme, Roma 1995

[6] questa frase conclude un discorso pronunciato da Fidel Castro il 10 ottobre 1968, in occasione del centesimo anniversario dell’inizio della guerra di indipendenza dei Cubani contro la Spagna. Cfr. Martì, cit., pag. 184

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