Chi ci libererà dai liberatori?

La frase non è mia. E’ stata detta da una graziosissima signora bruna in ufficio pubblico la prima mattina della guerra. Gli astanti sono rimasti, più che attoniti, pensosi. Le donne, si sa, hanno la capacità di svegliarvi alle tre di notte per discutere sul nulla. Questo è il “difetto” della straordinaria virtù di andare al punto in un attimo, con un’idea sola, completa, precisa. Dedico queste righe a rispondere a quella signora. Ci libererà dai liberatori chi comincerà di nuovo a pensare da uomo libero, senza pregiudizi. I pensieri che qui sbozzo appena, ma sui quali mi piacerebbe si aprisse un dibatitto serio, sono questi.

E’ ora di finirla con la riconoscenza verso gli USA. Ci hanno liberato dal fascismo e dal nazionalsocialismo. Ma l’Europa ha pagato il suo debito, e ampiamente. Basta una sola parola: Yalta (1). Dal 1945 al 1989, Polonia, Cecoslovacchia, Ungheria, Romania, Bulgaria, Estonia, Lettonia, Lituania e la Germania dell’est – terre del tutto europee – sono state cedute in comodato d’uso all’Unione Sovietica.

Per gli smemorati di tutti i colori, ricordiamo che nel 1945 gli USA avevano, ed hanno usato, la bomba atomica, i russi no. Ricordiamo che il processo di inglobamento nell’impero sovietico non è durato un mese o un anno, ma almeno un triennio. Ricordiamo che la Russia aveva avuto perdite per milioni di uomini, le infrastrutture semidistrutte. Gli USA erano al vertice della loro capacità produttiva, avevano superato la crisi economica, e avevano perso qualche centinaio di migliaia di uomini, senza nessuna vittima civile e senza che un solo mattone si fosse rotto sul territorio nazionale. E non hanno mosso un dito.

Come nessuno ha mosso un dito per l’Ungheria nel 1956 e per la Cecoslovacchia nel 1968. Chissà che cosa pensano degli USA Jan Palach (2) e tutti quelli come lui. Ricordatevelo, quando vi vengono le crisi di riconoscenza.

Facciamo finta di dimenticare il poderoso appoggio angloamericano alla rivolta del ghetto di Varsavia (3), alla liberazione dai campi di concentramento degli ebrei e di altre minoranze, all’attentato contro Hitler del 20 luglio 1944 (4) (ma c’era la clausola dell’”Unconditional Surrender” (5), giusto?) , all’obliquo interessato rapporto con le varie resistenze europee. E facciamo anche finta di dimenticare Trieste (6), l’Istria e le foibe (7).

Archiviamo addirittura, sotto la rubrica “guai ai vinti”, i bombardamenti inutili sulla Germania, sul Giappone e sull’Italia (60.000 morti: lo sapevate? – anche durante le trattative di resa). Non vorremmo fare come Geminello Alvi, che ha scritto sul Corriere, giorni fa, il migliore articolo della sua vita, ricordando Dresda (8) e l’umano trattamento riservato ai prigionieri di guerra tedeschi in Nordamerica e altrove. Le cifre di queste contabilità, necessarie ma necrofile, cercatevele da soli. Farete qualche scoperta.

Siamo tutt’altro che disponibili, invece, a dimenticare di essere stati campo di battaglia dei servizi segreti USA, perché lo siamo ancora – non è vero, senatore Pellegrino (9)?

Allora, chi ci libererà dai liberatori?

Chi avrà la volontà, nell’interesse dell’umanità intera, di edificare un mondo multipolare.

Volontà seria, non quella degli sfatti eurocrati che ci hanno inflitto le loro facce pallide e tremebonde il primo giorno di guerra.

Volontà da cui discendono alcune precise linee di riflessione strategica e, dopo, di azione.

A Fano, durante l’affollata presentazione del suo libro Il vizio oscuro dell’Occidente, Massimo Fini ha detto di vedere come opzione praticabile quella di una “Europa unita, neutrale, armata, nucleare, autarchica”.

In linea di massima, questa è la direzione da esplorare.

Europa unita, certo, Russia compresa. Ma unita secondo un modello politico, economico, culturale e militare nuovo, più aderente sia alla storia che al quadro strategico attuale e futuro. Unita e aperta alla Cina, ai paesi arabi e all’Africa, e con buoni rapporti verso i latini del Nord, Centro e Sudamerica. Unita in quella prospettiva di Hearthland, di Eurasia-Eurafrica che è l’incubo peggiore degli angloamericani, e che invece servirebbe solo a rimettere in equilibrio il mondo.

Un modello politico nuovo, più e non meno democratico, con un allargamento delle tipologia di rappresentanza anche all’economia e alla cultura. Non è pensabile che si consideri “aperta a tutti” un’economia dove la massima sede di confronto è costituita da quel gioco truccato che si chiama borsa. Non è più accettabile che la cultura, in quanto ricerca e formazione, sia in possesso di apparati burocratici statali obsoleti e inefficienti, oppure delle cosche universitarie, o delle nuove camarille ibride industria-banche-università.

Ancora: la forma della rappresentanza deve evolvere il più rapidamente possibile verso la democrazia diretta, almeno per le questioni fondamentali. Non si può sempre appaltare ai Soloni di turno decisioni che riguardano tutti. Con la democrazia diretta, l’Italia oggi non farebbe parte della coalizione contro l’Iraq: e sarebbe bene.

Un modello culturale nuovo, con più ampio spazio alla ricerca libera e, fissati standard inderogabili, allo sviluppo dei più svariati percorsi educativi e di indagine. Non possiamo più avere licei e università costosissimi per la collettività, che sfornano perfetti rincoglioniti, i quali poi vanno dirozzati, svegliati, liberati dalla formazione professionale, o da qualche altra istituzione surrogatoria. Non è più accettabile che schiere di caudillos accademici consumino risorse per produrre pochissimo, quando ci sono istituzioni private e libere, più economiche, flessibili, di alta qualità, che fanno educazione e ricerca meglio di loro. Non possiamo perdere i contributi di singoli ricercatori o di gruppi di ricercatori, solo perché questi non hanno le risorse per sopravvivere, che invece vengono copiosamente rovesciate su istituzioni agonizzanti quando non già in fase di rigor mortis. La vita moderna è libera diversità, e la diversità è sopravvivenza. Non un granello di conoscenza deve più andare perso.

Un modello economico nuovo, innanzitutto autarchico per le materie prime (per questo l’Eurasia/Eurafrica non è amata dagli angloamericani: perché sarebbe dotata di tutte le materie prime che servono). Un modello economico a basso impatto ambientale. Un modello economico che abbia la capacità di combinare, integrare, sintetizzare tutte le generazioni di tecnologia ancora valide. Un modello economico altamente partecipativo, non pianificato ma governato democraticamente: sono i consumatori, i produttori, i ricercatori che decidono quello che è conveniente produrre, pensando all’oggi, al domani e al dopodomani. Un modello economico che dia a tutti la garanzia di un minimo vitale. Il salario di cittadinanza è una necessità. Massimo Fini citava i Communitarians e il Bioregionalismo. Noi indichiamo come decisivo il pensiero della scuola di Alain Caillé (10), quella dell’economia di dono. Già da Braverman (11) si sapeva che la tecnologia moderna è più che sufficiente a liberare dal bisogno. Senza un minimo vitale non può esserci libertà. Questo nulla dice contro il libero mercato, e tutto dice a favore di una democrazia economica effettiva. Certo, bene ha fatto Massimo Fini a precisare che i ceti medio-alti dovrebbero comprimere il loro livello di vita, che certi beni inutili non dovrebbero essere più prodotti. E allora? Se la maggioranza è d’accordo per avere tre tipi di auto, invece di trecento, e più tempo libero, migliore qualità della vita, più educazione, più spazi per il dibattito e l’autogoverno?

Dobbiamo inoltre finirla di considerare correnti ideali quali il comunismo, il socialismo, il pensiero sociale cattolico e quello fascista come delle anomalie storiche. Essi sono invece un contributo rilevante – ed europeo – alla realizzazione della triade Libertà, Uguaglianza, Fratellanza. Un contributo da analizzare, criticare, vagliare, ripensare, selezionare: ma un grande contributo. L’anomalia storica è il modo in cui queste idee sono state fatte realizzare, o si è impedito che si realizzassero.

E finiamola anche di dire che c’è coincidenza fra gli ideali della Rivoluzione Americana e di quella Francese. Non è vero. L’America del Nord è la terra della libertà in senso strettamente individuale, al massimo settario, al massimo lobbystico. Come avrebbe detto Nietzsche, l’America ha generato una libertà nelle cui cantine urlano i cani dei peggiori istinti. La Rivoluzione Francese invece ha concepito una libertà come equilibrio fra soggetto autocosciente, soggetto giuridico-politico e soggetto economico. E’ l’Europa la terra della libertà, non gli USA: essi sono solo lo spazio dell’individualismo, che può essere libero in quanto opprime o sfugge all’oppressione. Non esiste un meccanismo di regolazione delle reciproche libertà, che non sia la compassione (il conservatorismo compassionevole…) o la parità delle forze sempre in tensione. Forze, non diritti. Le classi dirigenti americane hanno passato decenni a demolire quel poco di Welfare State che era stato messo in piedi ai tempi del New Deal.

Infine, serve un modello militare nuovo. Nucleare? Forse. Sicuramente difensivo, capace di una difesa ad altissimo costo per l’avversario, ma con capacità di proiezione all’esterno. Sicuramente basato su tutte le forme della “guerra senza restrizioni”, dalla guerra economica a quella culturale. Non dimentico delle lezioni della guerriglia e della guerra di popolo, della difesa popolare e della difesa civile. Non dimentico delle possibilità offerte dalle nuove tecnologie.

Ecco, gentile signora, noi crediamo che è su queste linee che bisogna impostare il lavoro per liberarsi dei liberatori. Chi ci libererà? Quelli come Lei e come noi, per cominciare.

Ma sappiamo anche benissimo che cosa faranno nel frattempo i liberatori.

Lo stiamo già vedendo. Da decenni.

(1) La conferenza di Yalta (febbraio 1945) sancì la divisione dell’Europa in due zone di influenza, quella russa e quella occidentale

(2) Giovane cecoslovacco che si dette fuoco a Praga il 16 gennaio 1969 per protestare contro l’occupazione della Cecoslovacchia da parte dei russi nell’agosto 1968, dopo la famosa Primavera di Praga, durante la quale la stessa Cecoslovacchia tentò di avviare un percorso autonomo verso un “socialismo dal volto umano”

(3) Dal 18 gennaio al 5 maggio 1943 gli ebrei del Ghetto di Varsavia ingaggiarono una disperata battaglia contro gli occupanti tedeschi, mettendoli in seria difficoltà. Non furono aiutati né dagli angloamericani, né dai russi, né dalla resistenza polacca, sostenuta dagli uni e dagli altri. L’antisemitismo polacco è abbastanza noto per non necessitare di commenti. Quanto agli altri…

(4) L’attentato a Hitler del 20 luglio 1944, a seguito di un complotto di militari e civili, fu preceduto da una serie di contatti con gli alleati, che erano perfettamente a conoscenza della cosa e delle proposte politiche dei congiurati (pace separata, regime democratico in Germania, alleanza con gli occidentali per bloccare i russi). Al di là di ogni altra considerazione, il progetto si scontrò con la posizione della resa incondizionata come unica “opzione” lasciata alla Germania.

(5) La clausola dell’ Unconditional Surrender (resa incondizionata) fu stabilita nella conferenza alleata di Casablanca del gennaio 1943. Essa suscitò grande perplessità, e qualche franca opposizione, negli stessi stati maggiori alleati, in quanto era chiaro che avrebbe spinto il popolo tedesco a resistere fino all’ultimo uomo, sapendo che non c’era speranza di una pace negoziata. Il che puntualmente avvenne. Chi abbia avuto contatti personali con normali cittadini tedeschi – non nazionalsocialisti – sa che la difesa di Berlino fino all’ultimo nacque in quella convinzione.

(6) Il 1° maggio 1945 Trieste fu occupata dall’esercito jugoslavo; l’occupazione durò fino al 12 giugno. In questi 40 giorni la popolazione fu maltrattata e molti italiani vennero barbaramente assassinati nelle foibe. Trieste venne infine liberata dagli Americani e fu sottoposta a un governo militare alleato, mentre la striscia della costa occidentale istriana rimase sotto l’occupazione jugoslava. Con il Trattato di pace di Parigi (1947) Trieste doveva diventare uno stato libero smilitarizzato, ma questo stato non fu mai costituito. Il territorio attorno a Trieste venne diviso " de facto" in due zone: la Zona A, che si estendeva da Duino a Trieste ed era amministrata dagli Angloamericani, e la Zona B, che da Capodistria arrivava sino a Cittanova ed era amministrata dagli Jugoslavi. All’occupazione alleata si oppose buona parte della cittadinanza triestina, dando luogo a vere e proprie insurrezioni, adeguatamente represse dagli occupanti. I nuovi confini, stabiliti con il Trattato di Parigi, comportarono un cambiamento fondamentale nell’Italia nord-orientale: l’Italia, infatti, perse molti territori in Istria, di conseguenza ci fu un esodo in massa ( circa 350.000 persone) della popolazione istriana verso Trieste, verso l’Italia e anche in altre parti del mondo. Con il Memorandum di Londra ( 5 ottobre 1954 ) la Zona A divenne italiana e quella B slava. Dal 1964 Trieste è il capoluogo della regione della regione Friuli Venezia-Giulia. Il 10 novembre 1975 venne firmato il Trattato di Osimo tra Italia e ex Jugoslavia e la Zona A divenne definitivamente italiana. Anche i confini di ambedue gli stati vennero riconosciuti e in questo modo l’Italia rinunciò definitivamente ai territori in Istria. Lo " status quo " venne così legalmente riconosciuto.

(7) Il 1° maggio 1945 Trieste fu occupata dall’esercito jugoslavo, l’occupazione durò fino al 12 giugno. In questi 40 giorni molti italiani vennero barbaramente assassinati nelle foibe. Le foibe sono profonde cavità carsiche. La tecnica più diffusa era di legare le vittime le une alle altre con il filo spinato, sparando poi sulle prime, in modo che trascinassero nella foiba tutta la fila. Chi sopravviveva alla caduta aveva agio di morire con comodo per fratture, soffocamento, fame, ecc.. Si risparmiano al lettore ulteriori dettagli macabri.
Il disegno di genocidio fu condotto senza distinzioni politiche razziali ed economiche o di sesso ed età; furono arrestati fascisti ed anti-fascisti (anche partigiani), cattolici ed ebrei, industriali, dipendenti privati ma anche agricoltori, pescatori, donne, vecchi, bambini, e soprattutto, i servitori dello Stato (carabinieri, poliziotti, finanzieri, militi della Guardia civica, ecc.). I morti sono stimati prudenzialmente in circa 12.000.

(8) All’inizio del 1945 il destino militare della Germania di Hitler era ormai segnato: gli anglo-americani la stringevano sul Reno e dal Nord Italia, le truppe di Stalin sull’Oder. A Dresda non vivevano solo i suoi 630mila abitanti di "razza teutonica" e, in buoni rapporti reciproci, alcune decine di migliaia di prigionieri inglesi. Nelle sue strade, nelle sue stazioni, nei suoi ricoveri la splendida città ospitava, stracolma, centinaia di migliaia di sfollati provenienti dalle regioni della Germania dell’Est. Il 13 e il 14 febbraio gli aerei da guerra alleati ne fecero una città morta. I vertici militari e governativi inglesi e statunitensi dissero che gli obiettivi dell’azione militare erano stati lo scalo ferroviario di Dresda e le sue industrie militari. Queste e quello però furono appena scalfiti dalle bombe. "Si è stupiti -scrisse il 22 febbraio 1953 in un suo editoriale il giornale di Monaco Suddeutsche Zeitung- per la straordinaria precisione con cui furono distrutte le zone residenziali della città, ma non le installazioni importanti (dal punto di vista militare e industriale, n.). La stazione centrale di Dresda (dove s’erano affollati i profughi e che non rappresentava lo snodo principale -collocato in periferia- per il trasporto merci e truppe, n.) era piena di pile di cadaveri, ma le linee ferroviarie erano solo lievemente danneggiate e dopo un breve periodo furono di nuovo in funzione.". Le bombe furono lanciate di proposito da ben altra parte, nel corso di tre incursioni scientificamente temporizzate. La prima, durata dalle 22.13 alle 22.30 del 13, servì per innescare nei quartieri proletari e nel centro della città una tempesta di fuoco. Il terribile fenomeno era già stato scatenato dalla Raf nell’estate del 1943 ad Amburgo e in seguito in altri centri minori della Germania. Si era sempre trattato, però, di un’imprevista conseguenza del bombardamento. Nell’incursione su Dresda, invece, essa fu pianificata a tavolino. Furono lanciati a tal fine due tipi di bombe: da un lato le block buster che, con i loro spostamenti d’aria, servirono a tirar giù i muri e i tetti dei fabbricati; dall’altro lato gli spezzoni incendiari, che appiccarono il fuoco ai mobili, alle stoffe e alle travi in legno degli interni. Il diluvio fu concentrato ossessivamente negli stessi punti, in un’area molto ristretta, in modo da surriscaldare l’atmosfera, produrre violente correnti ascensionali e risucchiare l’aria dalle zone vicine con un vento infernale a bassa quota. L’effetto voluto si realizzò. Già alle 22.30 un vento caldo cominciò ad alitare verso il centro di Dresda a 60-70 chilometri all’ora. Le vittime -fino a quel momento- erano "solo" poche migliaia. Sotto terra, nei rifugi, quasi tutti i cittadini e gli sfollati erano vivi. Attendevano lì il cessato allarme. E fu la loro rovina. Alle 23.00 il vento di fuoco aveva superato i 130 chilometri orari, a mezzanotte i 200. I piccoli incendi si fusero in un solo rogo, alimentato da un colossale mantice atmosferico. L’uragano di fuoco portò la temperatura a valori così alti che gli organismi umani nascosti nei rifugi si dissolsero o furono arrostiti. Nei ricoveri più profondi, l’ondata termica non superò i livelli di guardia, ma l’aria, satura di monossido di carbonio, divenne presto irrespirabile, e centomila e più larve di esseri umani agonizzarono in preda al soffocamento progressivo, fino alla morte per disidratazione e per avvelenamento. La seconda incursione su Dresda non era ancora incominciata. Ebbe il via all’1.23 del 14 coll’obiettivo di alimentare la tempesta di fuoco e di lasciare sul terreno i soccorsi nel frattempo giunti dalle città vicine. (È la tecnica del doppio colpo che le democrazie occidentali avevano da poco inventato e che hanno riutilizzato -sempre per il bene dell’umanità, naturalmente!- nella primavera scorsa contro i popoli jugoslavi.) A mezzogiorno del 14 febbraio, la terza incursione: come avvoltoi, i caccia "Mustang" statunitensi si fiondarono sulla città in fiamme e, a volo radente, mitragliarono le colonne di profughi che cercavano di fuggire dall’inferno di Dresda. Morirono 135.000 persone (documenti tedeschi arrivano a conteggiarne 202.000).

(9) Giovanni Pellegrino, senatore della Repubblica, presidente della commissione stragi, autore di SISDE – Segreto di Stato – La verità da Gladio al Caso Moro, Einaudi, Torino, 2000, testo quasi d’obbligo per capire che cosa è successo in Italia, per quello che dice, per quello cui allude e per quello che non dice. L’autore, a parere di chi scrive persona intellettualmente più che onesta, è l’espressione di quella parte della sinistra che ha capito tutto, ma che da un lato vorrebbe non crederci e dall’altro non ha ancora trovato il coraggio morale di fare l’ultimo passo, quello cioè di riconoscere il volto imperialista della cosiddetta liberazione. Riconoscimento che peraltro nulla toglie al valore dei combattenti della Resistenza, e alle loro motivazioni ideali. Semplicemente, sono stati usati. Non sono stati né gli ultimi, né i soli, a sinistra come a destra, come lo stesso Pellegrino ben sa.

(10) Alain Caillé, Critica della ragione utilitaria, Bollati Borighieri, Torino 1991. E’ solo una delle opere di questo importante studioso, fondatore del Movimento Antiutilitarista

(11) Harry Braverman, Lavoro e capitale monopolistico. La degradazione del lavoro nel XX secolo, Einaudi, Torino, 1978

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