Islam e Occidente: le radici di un conflitto

Conoscere per capire. L’Occidente ha trovato il nuovo nemico con cui confrontarsi a difesa della sua “civiltà”, stile di vita e modello economico. Ma storicamente le contrapposizioni e le guerre si sono sempre nutrite di ignoranza e demonizzazione dell’avversario. Pubblichiamo la relazione all’intervento del professor Giulio Soravia, noto islamista, docente di Glottologia e Lingua e Letteratura araba all’Università di Bologna, tenutosi il 14 dicembre 2001 durante il pubblico incontro organizzato a Cagli (PU) dall’Associazione onlus “Contemporaneo”.

Relazione all’intervento del professor Giulio Soravia a cura di Simone Santini.

Conoscere l’Islam è un compito imponente. In Occidente, e l’Italia non fa eccezione, questa conoscenza è spesso dettata da fenomeni collaterali e contingenti, anche se carichi di problematiche, come quelli dell’immigrazione e della convivenza con comunità aventi un credo e una cultura diversi dalla nostra. Ma dopo l’11 settembre la conoscenza, oltre che drammatica, si è fatta anche urgente e necessaria.

Dunque parlare di Islam significa prima di tutto scardinare luoghi comuni e preconcetti che, se talvolta possono trovare un qualche riscontro nella realtà, hanno bisogno di essere collocati dentro un fenomeno storico e culturale per essere intesi nella loro reale sostanza. L’Islam infatti si caratterizza per il suo essere un’entità estremamente complessa e frastagliata non riducibile alla sola questione religiosa, un’entità frutto di un processo storico che dura da oltre quattordici secoli e che ha interessato una porzione di mondo che va dalle coste africane dell’Oceano Atlantico, attraverso l’Europa e l’Asia centrale, fino all’Indonesia e alle Filippine, cioè una cultura e una civiltà che oggi rappresenta 1/5 dell’intera umanità. Spesso si commette l’errore di identificare l’Islam con il mondo arabo, in realtà oggi i Paesi e le popolazioni arabe non costituiscono nel tessuto del mondo musulmano che una minoranza quantificabile intorno al 15-20% del totale. In realtà, il più grande Paese musulmano oggi è l’Indonesia, coi suoi 200 milioni di abitanti di cui l’80% di culto islamico, seguono altri Paesi di etnia non araba, come il Pakistan, il Bangladesh e la Turchia, senza contare il fatto che numerose comunità islamiche con decine di milioni di fedeli sono presenti dall’India alla Cina. Il primo grande Paese islamico di etnia araba rimane dunque l’Egitto coi suoi 50 milioni di abitanti.

Ma oltre questi dati numerici oggettivi, nel momento in cui si pronunciano i termini “Paesi islamici”, ecco che sorgono subito grosse perplessità. Oggi i Paesi sedicenti islamici sono rappresentati nella Conferenza islamica (se ne contano oltre 50), ma sono Paesi niente affatto omogenei, con legislazioni e tradizioni profondamente diverse tra loro. Si va dalla “laica” Indonesia in cui la libertà di culto è permessa a tutti, alla Tunisia dove è vietata la poligamia mentre in altre realtà è accettata, fino all’Arabia Saudita che è addirittura priva di una Costituzione e si basa su un diritto prettamente consuetudinario.

Analizzando le strutture politiche di questi Stati ci si rende inoltre conto che essi sono presieduti nella quasi totalità da regimi non democratici: dittature militari, regni assoluti, parlamenti a democrazia limitata. Il sospetto che nasce, dunque, è che quella religiosa altro non sia che una copertura di legittimazione per questi governanti che altrimenti non ne avrebbero nei confronti delle loro popolazioni. I mass media occidentali sono piuttosto miopi nei confronti di questa realtà: da un lato ignorano i fermenti libertari e dissidenti che attraversano questi Stati, dall’altro dividono spesso questi Paesi in “buoni” o “cattivi” a seconda di contingenti o strategiche convenienze e alleanze politiche. Emblematico il caso della già citata Arabia Saudita dove regna un monarca assoluto, dove la famiglia reale è padrona del potere e nomina giudici che applicano ad libitum la legge coranica. Tale regime viene talvolta sommessamente accusato di negare elementari diritti umani, ma la sua importanza economica (per la produzione di petrolio) mette in ombra questo aspetto per considerare il Paese uno tra i più utili amici dell’Occidente.

La stessa nascita storica dell’Islam ci offre degli spunti di ulteriore riflessione sulla natura variegata di questa religione e sulle istituzioni politiche che, almeno a parole, si fondano su di essa.

Fin dalla morte del profeta Mahammad (Maometto) avvenuta nel 632 d. C. i successori si pongono il problema di come organizzare lo Stato nascente, il quale tra l’altro si stava espandendo politicamente e territorialmente. Quello che diverrà nei secoli il modello di Stato islamico altro non è, quindi, che una teorizzazione a posteriori di uno Stato di fatto, così voluto e concepito da califfi sulla base di esigenze e momenti particolari. Accanto alle necessità di fatto che determinano la nascita di istituzioni e pratiche che poi divengono regola, ci sono le lotte interne, lotte essenzialmente di potere che poi si riverberano sulla dottrina e sulla pratica religiosa. Nel 661 d. C. il legittimo successore di Maometto, Alì, suo cugino e genero, viene usurpato dal governatore della Siria Mu’awiya che fonda la dinastia degli Omayyadi. I seguaci di Alì non riconoscono il nuovo califfo e danno vita ad una si’à (scisma) fondando così una nuova corrente politica e religiosa, quella sciita. Oggi gli sciiti sono presenti soprattutto in Iran dove rappresentano la religione di Stato, ma anche in Iraq, Libano ed altre regioni. Quindi, oltre l’apparente unità religiosa che nasce dal messaggio del Corano, l’Islam fin dall’inizio si spacca, e la frattura è ancora oggi ben profonda, una frattura che nasce su divisioni e interessi politici.

E questo spiega perché oggi esistano oltre 50 Stati islamici, tutti diversi fra loro, con interpretazioni diverse dell’Islam. Questo spiega perché anche all’interno dell’ortodossia (Islam sunnita, che si contrappone a quello sciita) esistano ben quattro scuole di diritto perfettamente riconosciute, per cui un giudice nel fornire una sentenza può liberamente ispirarsi ad una di esse o mescolarle insieme senza nessuna remora di coerenza.

Tutto ciò appare poco comprensibile per la nostra cultura, ma l’Islam è una religione acefala, in cui l’unico capo è l’entità trascendente, Dio, in cui tutti gli uomini sono liberi e uguali e sottomessi solo a lui. Un noto versetto del Corano recita: “In verità vi ho creato da uomo e da donna e ho fatto di voi popoli e tribù [diversi] a che vi conosciate reciprocamente, e il migliore tra voi è colui che più teme Iddio.” Dunque nel Corano la diversità, voluta dallo stesso Dio, è fattore di arricchimento e reciproca conoscenza, e nessun uomo può vantarsi di essere migliore di un altro e arrogarsi il diritto di giudicarlo poiché il solo Dio ha la chiave della conoscenza. Ma dovere di ogni uomo è quello di percorrere il cammino della propria, umana, conoscenza, un percorso che rispecchi il principio di “libera ricerca dell’uguale”, che lo metta direttamente e senza intermediazione in contatto con gli altri uomini e col trascendente. Per questo l’Islam non ha un clero e non possiede quell’apparato ecclesiastico paragonabile con la tradizione cristiana. Il musulmano deve studiare, non accettare supinamente quello che gli viene imposto dai maestri, ma capire e migliorarsi attraverso un percorso critico interiore e personale. Un altro versetto del Corano dice: chi è sulla via della conoscenza è sulla via di Dio.

Ma se tali principi sono la sintesi dell’estrema forza spirituale e libertaria dell’Islam, dall’altro ne sono anche il punto debole. È possibile infatti, e storicamente questo è spesso avvenuto, che personaggi dotati di particolare carisma e capacità di attrarre le masse popolari si siano auto-investiti di forza messianica, anche se tale fase per l’Islam si è di fatto conclusa con l’avvento dell’ultima profeta Maometto. Tale aspetto ha consentito di ammantare di religiosità messaggi politici, manipolando concetti e situazioni. Per comprendere quanto si sta dicendo, è sufficiente fare riferimento al concetto di jihad ormai tristemente noto anche in Occidente ed arbitrariamente tradotto dai media come “guerra santa”. Originariamente il jihad era una parola araba con la quale si intendeva lo “sforzo” sulla via di Dio, appunto lo sforzo della conoscenza, lo sforzo per discernere il bene dal male. Ecco che dunque ogni uomo deve compiere il suo jihad, e nella scelta, anche quotidiana, fra bene e male deve cercare il bene e difendersi dal male. Difendere se stesso quindi, ma se necessario, anche la sua comunità, il suo popolo… se dovesse essere necessario anche con l’uso delle armi. Ecco come in questa progressione, quello che è un concetto originariamente solo spirituale, filosofico, di approccio alla vita, diviene uno strumento politico per mobilitare le masse contro il nemico. È può capitare che durante una guerra (come quella decennale fra Iran e Irak) entrambe le parti dichiarino di combattere il proprio jihad, e molti siano disposti a sacrificare la propria vita per esso.

I rapporti tra Occidente e Islam sono da sempre rapporti difficili perché si tratta di rapporti tra “vicini”. Nascono storicamente nella difficoltà sotto molti aspetti: già nell’alto Medioevo, sotto Carlo Magno, il Mediterraneo non è più il mare nostrum ma in esso le flotte musulmane la fanno da padrone. Nasce dopo qualche secolo quel fenomeno sociale, oltre che militare, che va sotto il nome di crociate. È interessante notare come gli stessi storici arabi dell’epoca raccontino le crociate non come guerre della croce, ma come guerre e basta, spedizioni militari susseguitesi durante più secoli. E se certamente le crociate hanno rappresentato il conflitto, il contatto così prolungato ha portato anche all’incontro e allo scambio. Gli esempi sono molteplici: i medici dell’università di Bologna che al seguito delle crociate vengono in contatto con la medicina araba (che poi ereditava la tradizione classica di Gaveno e della medicina indiana) e la riportano in patria con il rifiorire in occidente di questa scienza; Fibonacci che conosce i matematici e astronomi arabi e comincia ad utilizzare i numeri arabi rivoluzionando la matematica europea; Dante che conosce “il Libro della Scala” che parla dell’ascesa del profeta in cielo e lo usa per trarne ispirazione per la sua Divina Commedia.

Tutto ciò ci parla di grande vicinanza, ed inevitabilmente di scontro. Nel Rinascimento la contrapposizione è fortissima: nel 1453 cade Costantinopoli con l’occupazione dei Turchi ottomani, e per tutto il ‘500 la guerra fra cristiani e musulmani è la regola nell’Europa orientale, ma si tratta di guerre di espansione territoriale con motivazioni politiche, e in cui a ben guardare la religione ha poco a che fare.

Nei secoli successivi l’egemonia comincia a volgere a favore dell’Europa, in cui si vivono periodi certo burrascosi ma di grande progresso sociale, scientifico e tecnologico, mentre il mondo islamico vive un momento di profondo appannamento, quasi soffocato dall’Impero ottomano e dal vecchiume delle sue istituzioni. Ma nel XIX sec. anche per il mondo arabo sembra esserci una rinascita: filosofi, intellettuali, letterati che conoscono bene il mondo europeo e i fermenti che nascono dalla rivoluzione francese, e che dunque guardano con interesse e speranza a ciò che arriva dal vecchio continente. Purtroppo la risposta europea a questo tipo di aspettative è solo di ordine coloniale: nel 1830 la Francia occupa l’Algeria, nel 1882 la Tunisia, poi anche l’Italia e tutte le altre potenze avranno il loro momento. Sui giornali e nelle pubblicazioni di questo periodo, ad esempio in Francia, il mondo arabo viene considerato in una grave fase di decadenza, e si fa risalire tutto ciò alla religione, dandolo come fatto scontato e senza spiegazioni scientifiche, e l’Islam è visto solo come momento oscurantista, reazionario e repressivo. Le numerose risposte degli intellettuali libanesi ed egiziani non hanno cassa di risonanza in Europa, non interessano, anzi queste idee che demonizzano il sud del Mediterraneo sono necessarie per la politica coloniale dei vari Stati. La realtà però è ben diversa: basti pensare al ruolo della donna nell’Islam, aspetto che oggi viene aspramente criticato dagli occidentali. Ebbene, nel 1880 Amin Kasar scrive un libro intitolato “La liberazione della donna” e idee progressiste sono presenti a tal punto nelle società arabe che nascono ovunque scuole per donne parificate a quelle maschili, i movimenti femministi anticipano quelli europei, e le donne avranno il voto in Egitto e Turchia molto prima che in Italia.

Queste realtà non vengono conosciute in Europa, anzi, agli antichi pregiudizi vanno ad aggiungersi quelli dell’epoca coloniale. Esistono poche eccezioni, come quella dello studioso Carlo Alfonso Marino, il quale analizzando la situazione turca con la soppressione del califfato da parte di Kemal Ataturk negli anni ’20, cercava di frenare l’ottimismo con la quale venne ricevuta in occidente quella svolta, ammonendo che si trattava solo di problemi e giochi di potere interni, per cui la formale riconversione laica dello Stato turco corrispondeva in realtà alla presa di potere dei militari, senza una effettiva democratizzazione delle strutture. E Marino pensava allora (ma le stesse parole potrebbe ben valere per il presente) che l’Occidente recepisce e valuta i fatti di quelle parti del mondo con un’ottica distorta e ignorante. E qualcuno insinua il dubbio che tali distorsioni non siano solo dovute a incapacità o incomprensione, ma in qualche modo addirittura auspicate e favorite. Con la caduta del muro di Berlino l’Occidente ha perso il suo contraltare: se da un lato questo ha significato la vittoria di un sistema di valori, dall’altro si è persa una importante caratterizzazione. Se non esiste “l’altro”, l’Occidente come sistema sociale ed economico ha ancora ragione di esistere? Ecco quasi la necessità di ricrearsi un nemico, un sistema che in qualche modo giustifichi le scelte compiute dall’Occidente come dettate da una forza maggiore, cioè dalla necessità di difendersi e contrastare “il male” o “l’inciviltà” . Non pochi hanno scritto che la guerra del Golfo scoppiò proprio in questo scenario di creazione di un nuovo blocco contrapposto, ed ecco allora che le differenze, le complessità dell’altro devono essere annullate, taciute, mistificate: l’Islam non è più un “mondo” con mille sfumature ma si trasforma in stereotipo.

Quando si parla di Occidente come culla della democrazia parlamentare e dello Stato laico in contrapposizione alle teocrazie islamiche ci si dimentica delle responsabilità coloniali e neo-coloniali, delle intromissioni politiche che hanno favorito regimi dittatoriali, che hanno soffocato il dibattito interno e il libero svolgersi delle dinamiche democratiche. E se qualcuno, come Enrico Mattei, ha cercato di condurre una politica economica delle fonti energetiche più rispettosa dei Paesi produttori ma confliggente con le multinazionali, ecco che il suo tentativo viene stroncato con una morte che rimane misteriosa solo per chi non vuol leggere i fatti.

La realtà dell’Islam è molto più complessa di quella che ci presentano i nostri mezzi di informazione. L’uomo comune ha la sensazione di un mondo repressivo che schiaccia la dignità delle persone, e non si fa distinzione alcuna fra politica (=potere) e religione come messaggio spirituale.

Si considerino alcune situazioni emblematiche: la pena di morte nei Paesi islamici. Essa viene praticata diffusamente rinvenendo la sua giustificazione nel Corano, ma molti ritengono che questa sia una manipolazione: i casi in cui viene prevista la pena di morte nel Corano sono casi in cui la sanzione è assolutamente di tipo morale. Si prenda il caso dell’adulterio: nel Libro sacro si dice che quello è un crimine talmente odioso che il trasgressore meriterebbe la pena di morte, ma altro poi è dire che qualcuno debba materialmente applicarla, si parla piuttosto di morte civile del reo. L’approccio corretto è invece quello del califfo Omar, il quale di fronte al ladro a cui doveva essere amputata la mano diceva: costui ha agito per necessità, noi lo abbiamo costretto a rubare non riconoscendogli diritto di sopravvivenza. È dunque solo in uno Stato perfetto, in quello stato utopico che esiste solo nella mente di Dio, che sarebbe possibile applicare la pena di morte, ma in un tale Stato non se ne sentirebbe più il bisogno perché non esisterebbero né ladri né assassini, al contrario gli Stati terreni, imperfetti per loro natura, non possono applicare la pena di morte che è una prerogativa divina.

Anche l’imposizione del velo alle donne, altro stereotipo visto molto negativamente in Occidente, non trova legittimazione nel Corano. Esso ha motivazioni piuttosto culturali trovando la sua origine nei costumi e tradizioni di alcuni Paesi. In realtà la base religiosa è insussistente, anzi, la religione islamica vieta con una chiara norma che possa esistere qualsivoglia tipo di imposizione e costrizione, e se in alcuni Paesi ciò è previsto, è a causa di una interpretazione del tutto arbitraria.

Come si diceva in precedenza, l’Islam è una realtà molto diversificata proprio perché si è impiantato su culture e modelli sociali molto differenti fra loro. Se noi osserviamo le comunità islamiche europee, comprese quelle autoctone, formate ad esempio da cittadini di nazionalità italiana ma di fede musulmana, e non le guardiamo come “corpi estranei”, ci rendiamo conto di una situazione ben diversa. Chiediamoci: cosa vogliono i musulmani italiani? Vogliono forse portare la poligamia nel nostro Paese? Ben pochi hanno fatto una ricerca seria su cosa vogliono i musulmani in Italia (a tal proposito interessante è il libro di Magdi Allam “Islam-Italia”), da anni i fedeli stanno cercando di stipulare un’intesa con lo Stato italiano così come hanno fatto molti altri culti, dalle confessioni protestanti, agli ebrei, fino ai testimoni di Geova. La difficoltà, per cui oggi non esiste ancora una intesa, è di origine esclusivamente tecnica, proprio per la difficoltà di rappresentanza, visto che i musulmani non hanno (per quanto si diceva prima) una vera istituzione che formalmente li identifichi e rappresenti. Però delle bozze di intesa presentate dalle varie associazioni islamiche esistono, e le richieste sono piuttosto generiche e omogenee: si parla di orari per le preghiere, riconoscimento di alcune festività, si affronta il problema delle mense pubbliche poiché i musulmani hanno alcune restrizioni alimentari (come accade per gli ebrei)… ma ad esempio, non c’è nessun accenno al diritto di famiglia! Se si prevede che possa celebrarsi un matrimonio di coscienza in moschea, appare del tutto normale che gli effetti civili di tale matrimonio dovrebbero essere riconosciuti dall’ordinamento italiano e che se taluno contraesse più matrimoni incorrerebbe nel reato di bigamia come previsto dai codici. I musulmani non vogliono mettere in discussione quella che è la laicità dello Stato, anzi, forse la questione è proprio opposta. Essi richiedono che lo Stato sia ancora più laico per avere ancora maggiori garanzie sul rispetto delle loro specificità, e se fuori dall’Europa questo modello di Stato può essere estraneo, esso è visto come fatto di estrema importanza dalle comunità autoctone, e come tale perfettamente accettato perché patrimonio della tradizione democratica europea ed italiana.

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