Il sistema alimentare ad un bivio: qualità o cibi spazzatura

Relazione sull’intervento di Marco Moruzzi, consigliere ed ex assessore dell’Agricoltura della Regione Marche al convegno "Alimentazione e Salute" svoltosi a Mondolfo (PU) nel 2001. A cura di Simone Santini.

Per difendere la nostra salute tutti i giorni, nel momento in cui mangiamo, è necessario un forte collegamento tra chi consuma e chi produce. Chi produce oggi è l’agricoltore, non l’industria alimentare. L’industria alimentare in questi anni ha profondamente trasformato il cibo che arriva tutti i giorni sui nostri tavoli e questo, spesso, ad insaputa dei consumatori. Sono stati introdotti cibi e sostanze che in passato non esistevano. In alcuni casi sono sostanze estranee, in alcuni casi derivano da tecniche che si sono avviate ed evolute in agricoltura. In altri casi derivano da processi di trasformazione che hanno dimenticato la nostra millenaria esperienza e quindi hanno affrontato il problema della conservazione, della lotta all’ossidazione dei cibi, con tecnologie nuove di cui non sono state approfondite a sufficienza le controindicazioni e per le quali oggi abbiamo di fronte agli occhi i problemi.

Sicuramente dobbiamo puntare il dito sull’agricoltura che non si è occupata per molto tempo, in particolare negli ultimi anni, dell’aspetto qualitativo, che si è occupata soprattutto di aumentare le quantità del prodotto perdendo di vista altri aspetti. Abbiamo assistito ed assistiamo a fenomeni al limite dell’incredibile: allevamenti intensivi dove si usano mangimi che vengono prodotti dagli scarti dell’industria, o addirittura fatti con deiezioni di altri animali, perché le deiezioni sono proteine che possono essere utilizzate e riciclate (questa è una pratica normale nell’allevamento dei maiali, ad esempio).

Questo è avvenuto nella nostra agricoltura: un utilizzo indiscriminato di tutte le metodiche che permettono di avere un aumento delle quantità di prodotto e una riduzione dei costi del prodotto stesso. Peraltro queste riduzioni dei costi delle materie prime non si sono neanche automaticamente trasferite sul consumatore. Pensate che un chilo di grano viene pagato a un agricoltore 250 lire e un chilo di pane viene pagato dal consumatore 5, 6, 7 mila lire al chilo, quindi noi destiniamo la gran parte del denaro che paghiamo non all’agricoltore, ma ad altri soggetti che si inseriscono fra l’agricoltore e il consumatore. E c’è un ulteriore aspetto che si può illustrare con un esempio: quanto lavoro, quanto impegno c’è dietro la produzione di una bottiglia di vino? necessita di tempi lunghi, dalla materia prima alla trasformazione, continui investimenti, imbottigliamento ed etichettatura. Ma se confrontiamo il prezzo di supermercato tra una bottiglia di Coca Cola (cioè un prodotto tipicamente industriale composto solo da acqua, zucchero e additivi) e una bottiglia di vino si nota che la differenza non è tantissima: evidentemente c’è qualcosa che non torna! Vi sono evidentemente delle politiche nel settore alimentare che vengono a valorizzare dei prodotti e a penalizzarne altri. Ma non si possono comparare i prodotti alimentari con altri prodotti commerciali: un alimento viene ingerito e introdotto nell’organismo, e le controindicazioni non possono essere dimenticate.

Un altro esempio lampante: la fonte è la pagina sui prezzi agricoli de Il Sole 24 Ore. E’ estremamente istruttiva. Vediamo quanto costa, su queste pagine, la carne di pollo: 1.500 lire al chilo. Vediamo quanto costa il prodotto che pensiamo quel pollo mangi normalmente, il granoturco: 250 lire al chilo. Non c’è bisogno di essere né agricoltori né esperti di allevamento e di tecnologie alimentari: con 6 chili di granoturco non si fa un chilo di carne di pollo. Quel pollo, ovviamente, viene da un tipo di zootecnia che non è quella che pensiamo ma ne è anzi molto lontana. Per ottenere la mangimistica che viene utilizzata negli allevamenti, da cui si ricava la carne di pollo a 1.500 lire al chilo, si ricorre a qualsiasi metodo pur di abbassare i costi.

Quali sono queste tecniche? Ad esempio animali che sono messi in condizione di non muoversi per accrescere più rapidamente la quantità di carne e di ossa. Ci sono alcune aberrazioni verso le quali la legislazione non ha avuto preoccupazione, perché in fondo la carne di pollo ottenuta da quelle industrie non era distinguibile dalla carne di pollo che utilizzava le tecniche più tradizionali.

Ovviamente questo prodotto da 1.500 lire al chilo è un prodotto che rispetta perfettamente le norme di legge, un prodotto idoneo al consumo, ma un prodotto sulle cui qualità ci sono forti dubbi.

Ma questa rincorsa verso il basso dei prezzi, oltre che minare la qualità e la sicurezza dei prodotti, spesso è anche un miraggio che si ripercuote sulle tasche del consumatore. L’esempio chiaro è quello della carne bovina trattata con gli ormoni. Questa pratica è stata cancellata da alcuni anni in tutti i Paesi dell’Unione europea, ma se ne fa ancora un uso massiccio negli Stati Uniti. Ebbene, negli USA la velocità di accrescimento del bestiame è doppia rispetto all’Italia: e questo non perché si usino altre varietà di carne, non perché l’alimentazione sia più efficace, ma solo perché ogni settimana viene fatta una somministrazione di ormoni che consentono una maggiore fissazione di acqua nella muscolatura dell’animale. Poi al momento della cottura il consumatore vede la fettina restringersi. Quindi quella carne pagata apparentemente di meno, in realtà costa molto di più. Chi ci guadagna veramente, dunque, sono solo taluni produttori, o sarebbe meglio dire, taluni intermediatori.

C’è stata in questi anni una ripartizione dei ruoli tra Paesi che hanno sviluppato alcune produzioni e che hanno lasciato arretrare gradualmente la loro capacità nel produrre alimenti. Nel settore delle carni bovine, la Regione Marche era l’unica, parecchie decine di anni fa, in grado di garantire l’autosufficienza alimentare e quindi di esercitare un controllo sulla qualità dei prodotti attraverso le proprie leggi e i propri organismi. Quando si dipende dall’estero non si riesce neanche ad applicare la legge che ha messo al bando il DDT, una sostanza proibita ormai da anni. Ovviamente di questo prodotto se ne fa ancora uso al di fuori dell’Unione europea, nei Paesi africani ad esempio, e magari noi stessi esportiamo DDT verso questi Paesi, poi lo reimportiamo attraverso la frutta tropicale, come banane e ananas, che sono ormai di consumo quotidiano.

Quindi è importante che ogni Paese abbia la capacità di produrre quello che consuma, soprattutto se è preoccupato della qualità dei prodotti che vanno sul mercato. L’idea di poter fare i controlli alla fine del processo produttivo è sbagliata. In una vicenda come quella del pollo alla diossina il sistema di controllo non ha potuto garantire la sicurezza del consumatore. Ci si è accorti della presenza della diossina in queste carni quando le uova non si schiudevano più, quindi per almeno 10-12 mesi sono state consumate delle carni senza che il sistema di controllo vi andasse a cercare la diossina, perché non era logico andare a cercare quel tipo di sostanza chimica nelle carni o nelle uova che importavamo dall’estero.

Quando i fenomeni della globalizzazione prendono il sopravvento, la pubblica amministrazione non è più in grado di svolgere analisi su ogni partita di prodotto che entra nel nostro mercato e farne un controllo accurato: i prodotti verrebbero a costare 20-30 volte quello che costano oggi. Quindi bisogna lavorare sulla prevenzione e non soltanto sul controllo o su accorgimenti che vanno a tamponare i problemi quando questi sono sorti.

Ovviamente ciò comporta fortissimi scontri nelle sedi in cui si assumono delle decisioni. Questo accade anche all’interno dell’Ue, dove le lobbies (che certamente non sono dalla parte del consumatore) hanno grande potere di influenza, grazie anche ad un consumatore spesso disattento. La Nestlè ha deciso di non usare le citine di soia provenienti da organismi geneticamente manipolati in Germania perché in quel Paese c’è una forte sensibilità sul tema, e di farne invece uso in altri Paesi dove questa sensibilità non c’è: l’attenzione del consumatore è fondamentale per la prevenzione.

Questa è l’analisi. Che fare? Quali le prospettive?

Sicuramente l’agricoltura e l’allevamento biologico propongono risposte valide sotto molti dei profili trattati. I prodotti rispettano l’ambiente non lasciando residui indesiderati, le metodiche utilizzate hanno un riconoscimento a livello comunitario con regolamenti e disciplinari di produzione che ne garantiscono la trasparenza, la conoscenza e l’informazione sul contenuto di ogni prodotto è assoluta.

Il biologico dà una risposta risolutiva all’uso di fitofarmaci in agricoltura (l’Italia è tra i Paesi a maggior consumo di chimica) con i problemi ambientali e di salute che ne conseguono. Un dato è sufficiente: l’uso di questi prodotti ha determinato l’insorgenza altissima di patologie per i lavoratori delle aziende agricole. Alcuni tipi di cancro hanno incidenza più alta nella provincia di Forlì sui residenti nelle zone rurali piuttosto che dei centri abitati. Questo è significativo del fatto che certi prodotti tossici esercitavano un effetto molto elevato sugli stessi lavoratori che ne facevano un uso continuo e non occasionale.

Ma un altro aspetto risulta fondamentale: l’agricoltura biologica è un’agricoltura non standardizzata, quindi tende a conservare la biodiversità. Questo significa che all’interno di una stessa specie vegetale ci sono caratteristiche diverse da prodotto a prodotto. Alcune di queste caratteristiche possono essere importanti a livello nutrizionale, quindi un’agricoltura come quella biologica che è sensibile alla conservazione delle varietà locali può riservare delle sorprese interessanti. Magari in un prodotto è presente qualcosa, anche a livello di piccolissime quantità, che in un’altra varietà dello stesso riso o dello stesso cereale non c’è: è chiaro che in un’agricoltura standardizzata sarà ben difficile impostare produzioni specifiche che vadano in direzione di coloro che hanno necessità di terapie nutrizionali per problemi di allergie o patologie di qualsiasi genere. Un sistema agroalimentare come quello biologico, fondato su piccole aziende, piccoli sistemi di produzione, ha una flessibilità che può sicuramente rispondere meglio a coloro che hanno specifiche esigenze dal punto di vista nutrizionale, esigenze particolari che possono riguardare una piccola quantità di persone.

Una produzione industriale di massa non si occupa certo di nicchie di mercato utili magari a risolvere grandi problematiche ma per poche persone. Se le terapie nutrizionali avranno un ruolo sempre più importante nell’affiancare il processo di cura delle malattie, se le terapie nutrizionali saranno al centro della politica di difesa della salute dei cittadini, sicuramente un sistema come quello dell’agricoltura biologica risulterà il più idoneo ed efficace.

L’uso del biologico non può allo stato dare una risposta definitiva, anche se importante: solo il 5% del territorio agricolo marchigiano usa queste metodiche, anche se sarebbe auspicabile una forte spinta che ci portasse anche al 100% della produzione. Ma nel frattempo si deve essere consapevoli e a conoscenza di quelle soluzioni che permettono di ridurre il rischio, perché l’eliminazione in assoluto del rischio non esiste, però esistono delle politiche per la diminuzione del rischio. Ad esempio conoscere la stagionalità dei prodotti e scegliere prodotti di stagione. Quando non si comperano prodotti biologici questo è un buon accorgimento, perché un frutto fuori stagione è il risultato di un forte uso della chimica.

Utilizzare anche prodotti di cui si conoscono i contenuti per evitare il più possibile prodotti trasformati. Ovviamente leggere le etichette, magari dedicando un po’ del proprio tempo a consultare pubblicazioni sull’argomento.

E’ noto che per gli insaccati si fa grande uso di additivi, in particolare nitrati. Però i prodotti a denominazione di origine non fanno uso di nitrati e di nitriti e questo dimostra che è possibile produrre senza sostanze pericolose o estranee. C’è un prosciutto della Regione Marche che fa una campagna pubblicitaria in cui si dice "solo cosce e sale" e non si capisce perché tutti i prosciutti, non solo quelli a denominazione, non debbano essere prodotti soltanto con il sale e con la coscia di suino. Molte delle soluzioni che vengono adottate dalle industrie alimentari derivano soltanto da una filosofia speculativa e dal tentativo, peraltro riuscito in questi anni, di far passare un prodotto non in base alle sue caratteristiche ma in base al suo appeal che proviene da campagne pubblicitarie o da opinioni che si diffondono in maniera scientifica.

I cibi OGM sono una ulteriore complicazione del sistema agroalimentare. Queste manipolazioni spesso danno soluzioni che non servono. Cioè, non si ha bisogno di queste tecniche, almeno nel settore alimentare — l’ingegneria genetica segue altri percorsi — perché al momento attuale non esistono ragioni per introdurre manipolazioni genetiche, se non quelle di occupare spazi di mercato che oggi sono riservati ai prodotti naturali, quindi spostare i profitti da alcune aziende ad altre aziende.

Al contrario esistono preoccupazioni nei confronti di queste piante, che la natura non ha naturalmente generato, per le controindicazioni che possono sorgere. In base al principio di precauzione nel nostro Paese già da anni il Ministero della Sanità ha vietato l’utilizzo di piante geneticamente manipolate nei prodotti alimentari destinati ai bambini nel periodo dell’allattamento, e in ossequio allo stesso principio la Regione Marche ha approvato una legge che estende questo divieto a tutte le mense scolastiche e ospedaliere che somministrano prodotti alimentari. Così come nel nostro Paese non è mai stata rilasciata nessuna autorizzazione a scopo produttivo di piante geneticamente manipolate, quindi i prodotti contenenti OGM derivano soltanto da importazioni extra comunitarie.

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