Sulle tracce dell’agricoltura alternativa: l’agricoltura biologica

Relazione sull’intervento di Gaetano Sinatti, produttore biologico e consigliere dell’Associazione Terre dell’Adriatico di Urbino (www.adrialand.it) al convegno "Alimentazione e Salute" svoltosi a Mondolfo (PU) nel gennaio 2001. A cura di Simone Santini

Cos’è l’agricoltura biologica? Molto spesso si collega a questo nome un’idea romantica di agricoltura, un ritorno ai primordi del rapporto fra l’uomo e la terra come elemento produttivo, quasi che biologico significasse una sorta di "ritorno alla zappa". Non ci sarebbe nulla di male, ma il significato non è affatto questo. L’agricoltura biologica non è una visione antica, al contrario con essa si cercano di utilizzare tutti gli strumenti tecnici agricoli e i progressi scientifici meccanici per creare dei sistemi di coltivazione e di conduzione dei terreni più armoniosi e più rispettosi in un’azione complessiva dell’agricoltura.

L’agricoltura biologica nasce in Germania proprio negli stessi anni in cui si cominciano ad utilizzare massicciamente i concimi chimici per aumentare le produzioni. La Germania usciva dalla 1a guerra mondiale con il grave problema di sfamare la popolazione da un lato, e con una produzione, derivante dall’industria bellica, di nitrati che venivano impiegati per fabbricare proiettili. L’idea fu quella di utilizzare questi nitrati come fertilizzanti in agricoltura. Allora poteva sembrare una scelta giustificata: il bisogno impellente e primario era quello di dar da mangiare alla gente, e si usò una via diretta, rapida, per aumentare la produzione. Ma oggi i rischi e le conseguenze di quella scelta sono ben chiari, ed ormai abbiamo tutti gli elementi scientifici necessari per poter modificare l’impostazione produttiva dell’agricoltura, proprio in quei Paesi che non hanno più un’urgenza di mancanza di cibo, anzi, al contrario, di sovrapproduzione alimentare.

I rischi che stiamo correndo sono grossissimi. E’ ormai indubbio che l’uso sistematico, non controllato, eccessivo, delle sostanze chimiche sia nel potenziamento produttivo dell’agricoltura, sia nella lotta contro i fattori patogeni hanno creato delle situazioni di vero e proprio allarme. Un caso classico è quello dei nitrati che eccessive concimazioni chimiche hanno trasferito in maniera massiccia nelle falde freatiche. E’ un problema che caratterizza analisi e studi che sono di pubblico dominio anche nella realtà marchigiana. Ma ci sono altri effetti: uno di questi è l’erosione del suolo che, anche se non ha un effetto immediato sulla salute, ha però un impatto ambientale molto pesante in termini di costi energetici che poi ricadono sulla società.

Lo stesso discorso vale per l’eccessivo uso di lavorazioni meccaniche con potenze molto superiori a quelle che sarebbero necessarie, con relative conseguenze in termine di sprechi ed inquinamento. I cavalli vapore per unità di addetto agricolo sono enormemente saliti senza che questo abbia più un’utilità, perché la tecnica ci consentirebbe di fare lavorazioni più mirate, di avere risparmi energetici, creando un maggiore equilibrio da un punto di vista ambientale.

Un aspetto particolarmente preoccupante è quello della cosiddetta "erosione genetica", cioè della distruzione nel corso degli anni, con cifre anche impressionanti, di migliaia di varietà vegetali, poiché è in corso un processo di standardizzazione delle sementi che sta limitando il patrimonio naturale che abbiamo ereditato dalle generazioni precedenti. Questo è un fatto di cui si parla meno ma che ha delle implicazioni molto serie. Basti considerare che negli anni ‘70, per fare un esempio, negli Stati Uniti interi raccolti di mais andarono distrutti perchè si usavano solo due o tre varietà in tutto il Paese. E’ stato sufficiente il propagarsi di un fattore patogeno particolarmente invasivo per distruggere integralmente i raccolti non essendoci diversificazione nel tipo di varietà utilizzata.

Oggi, dunque, i produttori agricoli hanno una responsabilità e una funzione sociale determinante. E’ sufficiente riflettere su questi dati: nell’800, quando l’agricoltura era il 60% delle attività produttive, un agricoltore nutriva tre persone. Oggi, con la riduzione del numero di addetti (in Italia circa il 9% della forza lavoro è impiegata nell’agricoltura) ogni agricoltore si trova a dover nutrire, secondo le stime, 25-30 persone.

La responsabilità sociale dell’agricoltore è dunque aumentata, ed egli si trova a dover fronteggiare tale responsabilità in modo isolato, poiché ci si accorge della sua funzione solo durante le emergenze (vedi il caso BSE, ovvero della cosiddetta "mucca pazza") mentre non ci si rende conto della sua importanza strutturale per una società sana nel suo complesso.

Le risposte che fornisce l’agricoltura biologica sono quelle di una visione d’insieme, cioè di preoccuparsi contestualmente della salute del suolo, della salute del prodotto e della salute del consumatore.

Si possono fare alcuni esempi pratici: prevedere arature ad una profondità inferiore rispetto al passato per non distruggere il suolo ed evitare il rischio di erosione; preoccuparsi della copertura vegetale del suolo durante il periodo invernale per scongiurare problemi di dilavamento; utilizzare opportune rotazioni affinché il terreno non sia eccessivamente sfruttato; intervenire con lavorazioni meccaniche piuttosto che con diserbanti chimici.

Anche se tale approccio porta obiettivamente ad una diminuzione di rese per ettaro, consente produzioni con caratteristiche organolettiche e di microelementi migliori rispetto a quelle chimiche tradizionali, cioè si va nella direzione di non preoccuparsi della quantità, ma di produrre e garantire qualità.

Tali garanzie di qualità derivano da un sistema di certificazione e di controllo estremamente rigoroso. Questi prodotti devono, innanzi tutto, essere coltivati partendo da sementi biologiche: oggi esistono ancora delle deroghe causate dalla non disponibilità di sementi biologiche per ogni tipo di prodotto, ma la tendenza è sicuramente quella di fare in modo che tutte le produzioni biologiche vengano da semi di origine biologica.

Il seme viene utilizzato su terreni che sono stati tenuti per almeno due tre anni in una fase di conversione, quindi il prodotto non può essere certificato "biologico" per almeno 2-3 anni, in maniera che si possa verificare che gli eventuali residui di sostanze utilizzate in precedenza non siano più presenti nel suolo; tutta l’azienda viene suddivisa in appezzamenti che vengono numerati; ci sono degli organismi riconosciuti dallo Stato — attualmente sono 9 — che seguono campo per campo, appezzamento per appezzamento, tutte le coltivazioni con almeno 2-3 ispezioni nel corso dell’anno per verificare che effettivamente siano state seguite le tecniche corrette.

Tutto ciò che entra ed esce in azienda viene riportato su degli appositi registri, quindi le materie prime acquisite devono essere tutte catalogate e rintracciabili anche attraverso una documentazione fiscale. Vengono poi fatti prelievi a campione sul raccolto. Per inciso, gli enti certificatori a propria volta sono certificati. Forse è una ridondanza ma è importante: la metodologia di controllo è a sua volta certificata, in maniera che se viene rilevata una non conformità, si sappia che procedure adottare per limitare il danno eventuale nei confronti della produzione.

Una volta che il prodotto viene raccolto in campo, viene seguito da una serie di documenti che permettono di affiancare il percorso verso la filiera della commercializzazione. Quindi il prodotto che viene venduto per essere trasformato viene seguito da un certificato accompagnatorio e la ditta che lo acquista non può dire di utilizzare prodotto biologico se il prodotto che ha incamerato non è stato seguito da questo documento.

Molto importante è che tutti i prodotti della filiera seguano obbligatoriamente un percorso separato da quelli non biologici. Quindi ditte che si impegnano allo stoccaggio, alla trasformazione dei cereali — per le carni è la stessa cosa — devono avere delle linee autonome di trasformazione di questo prodotto, per evitare rischi anche di minima contaminazione. Spesso si tratta di contaminazione ambientale, nel senso che, ad esempio, nei silos c’è il rischio che rimangano residui dei prodotti utilizzati precedentemente. Quindi si cerca di creare delle linee apposite e anche queste vengono certificate e controllate a parte.

Alla fine della filiera il prodotto arriva al consumatore e deve essere etichettato secondo un sistema piuttosto rigoroso di indicazioni commerciali che si ha la possibilità di controllare e verificare nei negozi dove vengono acquistati.

Con un esempio si può far rilevare l’importanza di tale procedura: se applicata alle carni bovine essa permetterebbe di arrivare, per ogni prodotto commercializzato, al luogo fisico, quindi all’azienda in cui l’animale è stato allevato, di sapere esattamente con che cosa è stato alimentato e per ognuno di questi alimenti ricostruire la provenienza. Se questo fosse stato fatto nel settore convenzionale 10-15 anni fa, oggi non si sentirebbe parlare di "mucca pazza".

Per concludere questa ricostruzione è giusto fare un riferimento a quelli che sono i prezzi dei prodotti biologici, che effettivamente hanno tutt’ora un costo elevato rispetto al prodotto normale. Ma oggettivamente, in cambio di quel costo, il consumatore ha un’etichetta che testimonia un percorso molto attento e una garanzia molto seria.

Ma quello del prezzo dei prodotti agricoli è anche un problema strutturale italiano, e che non si risolve con una politica commerciale di riduzione del prezzo al produttore. Oggi i prodotti hanno troppi passaggi sulla linea commerciale, quindi è necessario il più possibile avvicinare il produttore al consumatore, cioè abbreviare la filiera, poiché questo consente di abbattere i costi e anche di garantire la qualità consentendo sempre di ricostruire i percorsi.

Le Marche sono una regione che ha molto e ben lavorato sul biologico: in questa regione si è passati dai 3.400 ettari coltivati nel 1994 ai quasi 30.000 del 1999; da 279 aziende si è passati a oltre 1.500. C’è da considerare che in questo momento l’Italia è il primo Paese a livello mondiale per operatori biologici, e secondi al mondo, dietro l’Australia, come superficie biologica con un milione di ettari. Quindi il settore incide per il 6% sulla superficie agricola totale: questa è una realtà molto seria e importante, una crescita reale che corrisponde al lavoro di tante persone e che dà garanzie precise per la salute dei consumatori.

Print Friendly, PDF & Email